Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 15139 del 16/07/2020

Cassazione civile sez. trib., 16/07/2020, (ud. 20/11/2019, dep. 16/07/2020), n.15139

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. CIRILLO Ettore – Presidente –

Dott. LOCATELLI Giuseppe – Consigliere –

Dott. CRUCITTI Roberta – Consigliere –

Dott. GIUDICEPIETRO Andreina – Consigliere –

Dott. FRACANZANI Marcello Maria – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 21559-2013 proposto da:

ESPOSAUTO SRL, C.G., C.A., elettivamente

domiciliati in ROMA, VIA LUIGI LUCIANI 1, presso lo studio

dell’avvocato DANIELE MANCA BITTI, che li rappresenta e difende

unitamente all’avvocato MASSIMILIANO C. giusta delega a

margine;

– ricorrenti –

contro

AGENZIA DELLE ENTRATE, in persona dei Direttore pro tempore,

elettivamente domiciliato in ROMA, VIA DEI PORTOGHESI 12, presso

l’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO, che lo rappresenta e difende;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 11/2013 della COMM. TRIB. REG. di MILANO,

depositata il 19/02/2013;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

20/11/2019 dal Consigliere Dott. MARCELLO MARIA FRACANZANI;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

TOMMASO BASILE che ha concluso per il rigetto del ricorso;

udito per i ricorrenti l’Avvocato MANCA BITTI che si riporta agli

atti;

udito per il controricorrente l’Avvocato ROCCHITTA che si riporta

agli atti.

Fatto

FATTI DI CAUSA

1. La società contribuente opera nel settore del commercio di autoveicoli ed era attinta da avviso di accertamento per l’anno di imposta 2005, adottato a seguito di pvc redatto dalla G.d.F. in data 13 gennaio 2009, dove si contestava una serie di operazioni soggettivamente inesistenti, con la contabilizzazione di fatture emesse da Silcom di S.A. e Car.Mi s.r.l., ritenuti dai militari dei soggetti fittiziamente interposti. Attesa la ristretta base azionaria della società contribuente, l’atto impositivo si rifletteva in avviso di accertamento per ciascuno dei due soci, C.G. ed C.A., sulla presunzione della distribuzione degli utili occulti.

2. Gli atti erano impugnati con distinti ricorsi e rigettati in primo grado, confermato in appello, dove – per quanto maggiormente interessa il prosieguo – in giudici del gravame ritenevano superabili alcune doglianze di ordine formale, circoscrivevano i poteri della parte resistente costituita tardivamente nel richiedere comunque la discussione in pubblica udienza e nello spiegarvi difese, mentre richiamavano con propria autonoma valutazione critica i passi salienti degli atti impositivi e della sentenza di primo grado, segnatamente l’assenza di ogni struttura aziendale in capo alla Silcom di S.A., corrente in (OMISSIS) e dichiarante non conoscere la Esposauto, mentre la Car.Mi s.r.l. unipersonale in capo a L.L. risultava sconosciuto sia all’anagrafe di (OMISSIS), sia a quella di (OMISSIS) dove aveva eletto domicilio fiscale, essendo detenuto in modo non continuativo nel carcere di (OMISSIS) nel quinquennio 2004-2009, periodo in cui risultava emessa fattura da Car.Mi a Esposauto.

Valorizzava altresì la CTR la circostanza della ristretta base azionaria, costituita da due soci del medesimo nucleo familiare, evidenza di guadagni extracontabili tali da escludere ogni buona fede ai fini della riduzione delle sanzioni.

Propongono ricorso congiunto la società e i due soci, affidandosi a sei motivi, cui replica l’Avvocatura generale dello Stato con tempestivo controricorso.

In prossimità dell’udienza le parti private hanno depositato memoria.

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

Vengono proposti sei motivi di gravame.

1. Con il primo motivo si prospetta la censura di cui all’art. 360 c.p.c., n. 5, per mancata considerazione di fatto rilevante, relativo alla invocata deducibilità dei costi anche da fatture per operazioni soggettivamente inesistenti, come ritenuto anche da questa Corte. Il motivo non espone un fatto storico di cui la sentenza avrebbe omesso l’esame, ma si duole che da quel fatto non sia stata dedotta la deducibilità dei costi, auspicata da parte contribuente.

Con il secondo motivo si prospetta la censura di cui all’art. 360 c.p.c., n. 5, per non aver considerato che il ricevimento di fatture per prestazioni soggettivamente inesistenti non produce alcun maggior reddito, tantomeno da ritenersi distribuito ai soci con ripresa a tassazione nei loro confronti. Il punto è conseguenziale alla doglianza che precede, giacchè la deduzione di costi per operazioni soggettivamente inesistenti comporta – di riflesso – utili occulti (proporzionati ai costi inesistenti dedotti, come riduzione della base imponibile) che per presunzione correlata al D.P.R. n. 600 del 1973, art. 39, comma 1, lett. d), sono da ritenersi distribuiti ai soci della ristretta compagine azionaria, salva la prova contraria a carico dei contribuenti (Cfr. Cass. n. 18032/2013; n. 24534/2017).

Con il terzo motivo, si prospetta doglianza ex art. 360 c.p.c., n. 3, per violazione del D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 49, e dell’obbligo di motivazione, nella sostanza lamentando che non sia stata data motivazione alla correlazione fra indetraibilità dell’Iva e indeducibilità dei costi.

2. I tre motivi possono essere trattati congiuntamente stante la stretta connessione, avendo riguardo a profili argomentativi della sentenza con particolare riguardo alla deducibilità dei costi (comunque sostenuti) su prestazioni soggettivamente inesistenti e sul correlato maggior utile conseguito in ragione di Iva (indebitamente) dedotta su tali operazioni, utile che deve ritenersi distribuito ai soci, in ragione dello stretto legame fra soci e società di capitali a ristretta base azionaria, particolarmente rinforzato ove, come nel caso in esame, al legame societario si aggiunga un legame familiare, di stretta parentela.

2.1 In quest’ordine, stante l’obbligo del giudice nazionale (TUE, art. 4, comma 3, e Dich. 17 all. TUE), di garantire la piena ed effettiva attuazione del diritto dell’UE, si è ripetutamente affermato che “l’immediatezza dei rapporti fra l’emittente ed il destinatario della fattura è forte indice oggettivo capace di escludere l’ignoranza incolpevole del contribuente in merito all’avvenuto versamento dell’Iva a soggetto non legittimato alla rivalsa”, con la conseguenza che toccherà al soggetto acquirente, al fine di non perdere il diritto alla detrazione, “provare (…) di non essere stato a conoscenza del fatto che il fornitore effettivo del bene o della prestazione era, non il fatturante, ma altri” (Cfr. Cass. V, n. 2398/2018.; conf. 8846/2019,3591/21019,2565/2019,17173/2018,17161/2018,10001/2018,3473/2018,30559/2017,19419/2015,25779/2014 e15331/2014). Diversamente si è precisato che, se al destinatario non compete, di norma, conoscere la struttura e le condizioni di operatività del proprio venditore, sorge, tuttavia, un obbligo di verifica, nei limiti dell’esigibile, in presenza di indici personali od operativi anomali dell’operazione commerciale ovvero delle scelte dallo stesso effettuate ovvero tali da evidenziare irregolarità e ingenerare dubbi di una potenziale evasione, la cui rilevanza è tanto più significativa atteso il carattere strutturale e professionale della presenza dell’imprenditore nel settore di mercato in cui opera e l’aspettativa, fisiologica ed ordinaria, che i rapporti commerciali con gli altri operatori siano proficui e suscettibili di reiterazione nel tempo (Cass. n. 24490/2015). Priva di rilievo è sia la prova sulla regolarità formale delle scritture e sull’effettività dei pagamenti, sia quella sull’inesistenza di un dimostrato vantaggio perchè i prezzi di vendita erano conformi o superiori alla media di mercato, trattandosi le prime di circostanze già insite nella stessa nozione di operazione soggettivamente inesistente e la seconda perchè riferita ad un dato di fatto esterno alla fattispecie tipica ed inidoneo di per sè a dimostrare l’estraneità alla frode (29027/2017; 428/2015; 20059/2014; CGUE 22.10,2015, Ppuh, C- 277/14).

2.2. Nel quarto capoverso di pag. 3 la gravata sentenza motiva la ripresa a tassazione autonomamente, ritenendo sussistenti le presunzioni di conoscenza, connesse alla ristretta base azionaria, rilevando l’evidenza di utili non riportati in scritture ed indici di guadagni extracontabili, con apprezzamento dell’apporto probatorio che esula dal sindacato di legittimità di questa Corte, segnatamente ritenendo dimostrata la finzione delle operazioni note.

Non di meno, la deducibilità dei costi è del tutto trascurata dalla CTR, non ostante lo specifico rilievo nel giudizio di merito (vedasi ricorso a pag. 49), sicchè – per questo profilo – il motivo è fondato e merita accoglimento, limitatamente appunto alla deducibilità dei costi. Ed infatti, occorre ricordare che in tema di imposte sui redditi, ai sensi della L. 24 dicembre 1993, n. 537, art. 14, comma 4 bis, (nella formulazione introdotta con il D.L. 2 marzo 2012, n. 16, art. 8, comma 1, conv. in L. 26 aprile 2012, n. 44), che opera – in ragione del precedente comma 3, – quale jus superveniens con efficacia retroattiva in bonam partem, sono deducibili i costi delle operazioni soggettivamente inesistenti (inserite, o meno, in una “frode carosello”), per il solo fatto che siano stati sostenuti, anche nell’ipotesi in cui l’acquirente sia consapevole del carattere fraudolento delle operazioni, salvo che si tratti di costi in contrasto con i principi di effettività, inerenza, competenza, certezza, determinatezza o determinabilità oppure di costi relativi a beni o servizi direttamente utilizzati per il compimento di un delitto non colposo. (cfr. Cass., V, n. 26461/2014).

Occorre rilevare come la novella legislativa predetta fosse pienamente in vigore al momento della decisione della gravata sentenza, che era tenuta quindi ad applicarla, scrutinando i costi effettivamente sostenuti – pur nell’ambito di un’operazione acclarata come “frode carosello” – accertandoli nel loro ammontare e verificandone i caratteri dell’inerenza ai fini della deducibilità secondo le ordinarie regole, ovvero il loro collegamento con delitti non colposi. A tali principi non si è uniformata la gravata sentenza ed il ricorso – per detti profili – risulta fondato.

2.3. Nella memoria rassegnata in prossimità dell’udienza, la parte contribuente rappresenta essere intervenuta sentenza di assoluzione dal reato di cui al D.Lgs. n. 74 del 2000, art. 2, resa dal Tribunale di Lodi, affermando che nessuna irregolarità è stata riscontrata con riferimento alla documentazione relativa ai veicoli, essendo peraltro saldate le fatture con mezzi di pagamento tracciabili. Di questo la parte contribuente chiede sia tenuto conto.

Occorre rilevare che – per consolidato orientamento di questa Corte – gli assunti del giudice penale non esplicano automatica efficacia nel giudizio tributario, diversi essendo i beni protetti e gli strumenti probatori ammessi nelle diverse giurisdizioni (cfr., da ultimo, Cass. V, n. 17258/2019) e, nel caso in esame, tanto più inoperante è l’importazione automatica delle risultanze diverse, perchè il contribuente non ha fornito la prova del passaggio in giudicato della sentenza penale che cita e produce, ma che non è suffragato dall’attestazione del cancelliere ai sensi del Reg. esecuzione c.p.p., art. 27, che – sola – può far prova piena del passaggio in giudicato, cioè dell’incontrovertibilità di quanto statuito dal giudice penale (cfr. Cass. III, n. 11483/2004). Il profilo di doglianza non può quindi essere accolto.

3. Peraltro, è altresì principio acquisito che la ristretta base azionaria di società di capitali, tanto più ove i soci siano legati da relazioni parentali, conduce all’imputazione “per trasparenza” in capo ai soci del maggior utile accertato in capo alla società e ritenuto presuntivamente ripartito in proporzione alla partecipazione al capitale sociale. Ed infatti, questa Corte, con orientamento ormai consolidato, ha affermato che in tema di accertamento delle imposte sui redditi, nel caso di società di capitali a ristretta base partecipativa, è legittima la presunzione di attribuzione ai soci degli eventuali utili extracontabili accertati, rimanendo salva la facoltà per il contribuente di offrire la prova del fatto che i maggiori ricavi non siano stati fatti oggetto di distribuzione, ma siano stati invece accantonati dalla società, ovvero da essa reinvestiti, non essendo tuttavia a tal fine sufficiente la mera deduzione che l’esercizio sociale ufficiale si sia concluso con perdite contabili (cfr. Cass. V, n. 5076/2011; n. 17928/2012; n. 27778/2017; n. 30069/2018).

In definitiva, i motivi primo, secondo e terzo, debbono essere dichiarati inammissibili nella parte in cui tendono a reintrodurre una valutazione di merito inibita a questa Corte di legittimità, debbono essere dichiarati infondati, mentre debbono essere accolti nella parte in cui sollevano profili di mancato esame della deducibilità dei costi sostenuti o non corretta interpretazione della relativa disciplina legislativa, come sopra ricostruita.

4. Con il quarto motivo si prospetta censura ex art. 360 c.p.c., nn. 3 e 5, per omessa valutazione su un punto decisivo della controversia – mancata valutazione degli elementi offerti dalla difesa – violazione delle regole in materia di onere della prova D.P.R. n. 600 del 1973, ex art. 39,D.P.R. n. 633 del 1972, art. 54, art. 2697 c.c., nel concreto affermando che sarebbero essere quattro i fornitori d’auto della contribuente, mentre l’Ufficio e la CTR si sarebbero limitati a considerarne solo due. Il motivo non assolve l’onere dell’autosufficienza, non indicando i passi degli atti processuali dove la circostanza sarebbe stata rappresentata e non considerata. Peraltro, la ripresa a tassazione risulta aver avuto a riguardo per l’anno 2005 solo le fatture (soggettivamente inesistenti) di quelle due società. Donde il motivo è inammissibile e tale va dichiarato.

5. Con il quinto motivo, si prospetta censura ex art. 360 c.p.c., n. 3, per violazione del D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 23, ove è stato consentito all’Amministrazione finanziaria costituita tardivamente di spiegare difese, alterando così il contraddittorio. Il precedente di questa Corte (Cass. n. 7329/2003) citato da parte contribuente non è conferente, poichè l’Ufficio -pur prendendo veste di resistente del processo tributario, è comunque legittimato a negare i fatti costitutivi, contestare l’efficacia delle dichiarazioni e produzioni documentali, di contestare l’applicabilità delle norme di diritto invocate e di produrre documenti ai sensi del detto decreto, artt. 24 e 32, che disciplina il processo tributario, essendo la violazione del termine di cui al citato art. 23, preclusa solo dalla proposizione di eccezioni processuali e di merito non rilevabili d’ufficio e per fare istanza di chiamata di terzo (cfr. Cass. V, n. 2585/2019). Il motivo è dunque infondato e va disatteso.

6. Con il sesto motivo si prospetta censura di cui all’art. 360 c.p.c., n. 3, per violazione del D.P.R. n. 633 del 1972, art. 19, poichè dovrebbe essere considerata detraibile l’Iva assolta per fatture irregolari o, addirittura inesistenti, richiamando all’uopo risalente orientamento di questa Corte. Il principio non è contestato dalla sentenza qui gravata, ma non emerge la prova – posta a carico del contribuente – di aver versato quell’Iva di cui viene chiesta la detrazione. Trattandosi di fatto agevolativo spetta al privato la prova dell’effettivo versamento, donde poi chiedere la detrazione.

Ed infatti si è stabilito che “Non sono decisive, ai fini del recupero dell’indebita detrazione dell’imposta sul valore aggiunto, le circostanze che le operazioni compiute siano state soggettivamente e non oggettivamente inesistenti e che, in particolare, la merce provenisse da fornitori comunitari non meglio specificati. Ciò in quanto il principio di neutralità che governa il sistema dell’iva richiede che l’imposta sia versata a chi ha eseguito operazioni imponibili, perchè la compensi con l’imposta a sua volta corrisposta per l’acquisto di beni e servizi, di guisa che l’erario acquisisce, ad ogni passaggio del ciclo produttivo-distributivo, soltanto l’eventuale differenza tra l’imposta sulle operazioni attive e quella sugli acquisti, ossia l’importo maturato a debito 41 soggetto passivo obbligato, nella periodica sommatoria di Iva a credito ed a debito (fra le varie, vedasi, in particolare, Cass. 14 dicembre 2012, n. 23074 e Cass. 13 marzo 2013, n. 6229). Il versamento dell’Iva ad un soggetto che non sia la genuina controparte, aprendo la strada ad un indebito recupero dell’imposta, mina, con effetti dirompenti, il meccanismo di compensazione tra Iva a valle ed Iva a monte. Sul punto, la giurisprudenza comunitaria insiste sulla necessità, ai fini della configurabilità del diritto di detrazione, di un nesso diretto tra operazioni a valle ed operazioni a monte (tra le più recenti, Corte giust. 21 febbraio 2013, C-104/12, Wolfram Becker, punto 19; Corte giust. 6 settembre 2012, C-496/11, Portugal Telecom SGPS, punto 36); ed anche la giurisprudenza di questa Corte segnala che, in caso di fatture per operazioni soggettivamente inesistenti, pur essendo i beni o il servizio effettivamente entrati nella disponibilità dell’impresa utilizzatrice, la falsa indicazione di uno dei soggetti del rapporto determina l’evasione del tributo relativo alla diversa operazione, effettivamente realizzata da altri soggetti (Cass. 16 maggio 2012, n. 7672)”, (così Cass., V, n. 20060/2015). Il motivo è quindi infondato e va disatteso.

In definitiva, il ricorso è fondato limitatamente alle ragioni dedotte relativamente ai costi deducibili dai motivi primo, secondo e terzo.

P.Q.M.

La Corte accoglie il ricorso nei limiti di cui in motivazione, cassa la sentenza impugnata e rinvia il giudizio alla CTR per la Lombardia, cui demanda altresì la regolazione delle spese del presente grado di giudizio.

Così deciso in Roma, il 20 novembre 2019.

Depositato in Cancelleria il 16 luglio 2020

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