Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 15137 del 22/07/2016

Cassazione civile sez. VI, 22/07/2016, (ud. 20/01/2016, dep. 22/07/2016), n.15137

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SESTA CIVILE

SOTTOSEZIONE 3

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. ARMANO Uliana – Presidente –

Dott. FRASCA Raffaele – rel. Consigliere –

Dott. DE STEFANO Franco – Consigliere –

Dott. RUBINO Lina – Consigliere –

Dott. BARRECA Giuseppina Luciana – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 26022/2013 proposto da:

T.M.T., (OMISSIS), elettivamente domiciliata presso

la CORTE DI CASSAZIONE, PIAZZA CAVOUR, ROMA, rappresentata e difesa

dall’Avvocato GIANCARLO RAGAZZINI, giusta procura in calce al

ricorso;

– ricorrente –

contro

Z.C., elettivamente domiciliato in ROMA, VIA NICOLA RICCIOTTI

9 (TEL. 06.3223322), presso lo studio dell’avvocato MARIATERESA

ELENA POVIA, che lo rappresenta e difende unitamente all’avvocato

MONICA MASOTTI ZAULI, giusta procura speciale a margine del

controricorso;

– controricorrente –

avverso l’ordinanza della CORTE D’APPELLO di BOLOGNA del 02/04/2013,

depositata l’11/04/2013;

udita la relazione della causa svolta nella Camera di consiglio del

20/01/2016 dal Consigliere Relatore Dott. RAFFAELE FRASCA;

udito l’Avvocato ARTURO PERUGINI, per delega allegata al verbale

dell’Avvocato ZAULI, difensore del controricorrente, che si riporta

agli scritti.

Fatto

RITENUTO IN FATTO

quanto segue:

1. T.M.T. ha proposto ricorso per cassazione contro Z.C. sia avverso l’ordinanza dell’11 aprile 2013, con cui la Corte d’Appello di Bologna ha dichiarato inammissibile, ai sensi dell’art. 348-bis c.p.c., l’appello da essa ricorrente proposto contro la sentenza di primo grado resa inter partes dal Tribunale di Forlì il 19 novembre 2012, sia avverso quest’ultima sentenza.

2. Al ricorso ha resistito con controricorso lo Z..

3. Prestandosi il ricorso alla trattazione con il procedimento di cui all’art. 380-bis c.p.c., veniva redatta relazione ai sensi di tale norma ed all’esito del suo deposito ne veniva fatta notificazione agli avvocati delle parti unitamente al decreto di fissazione dell’adunanza della Corte.

3.1. Parte ricorrente ha depositato memoria.

Diritto

CONSIDERATO IN DIRITTO

quanto segue:

1. Nella relazione ai sensi dell’art. 380-bis c.p.c., sono state svolte le seguenti considerazioni:

“(…) 3. Il ricorso può essere deciso in Camera di consiglio ai sensi dell’art. 380-bis c.p.c., in quanto appare manifestamente inammissibile.

Queste le ragioni.

3.1. Sia nell’intestazione del ricorso, sia successivamente parte ricorrente non ha allegato che l’ordinanza della Corte d’Appello non sarebbe stata comunicata.

Ora, dell’art. 348-ter c.p.c., comma 3, prevede che il termine per l’impugnazione, riferito alla sentenza di primo grado, decorre dalla comunicazione o dalla notificazione se anteriore e, quindi, per il caso di mancanza dell’una e dell’altra formalità, prevede l’operatività del c.d. termine lungo di cui all’art. 327 c.p.c..

Ne segue che chi esercita il diritto di ricorrere in cassazione, se è avvenuta la comunicazione dell’ordinanza deve rispettare il termine di sessanta giorni da essa, posto che l’art. 348-ter, comma 3, secondo inciso, quando allude al termine per propone ricorso per cassazione, allude a quello di cui dell’art. 325 c.p.c., comma 2. Solo per il caso che la controparte abbia notificato la sentenza prima della comunicazione (che l’art. 133 c.p.c., assoggetta ad un termine di cinque giorni e ciò anche nel testo applicabile alla controversia) notifichi, il termine de quo decorre dalla notificazione. Lo stesso decorso si verifica se la cancelleria ometta del tutto la comunicazione. In fine, solo qualora risulti omessa la comunicazione e manchi anche la notificazione, opera il termine lungo di cui all’art. 327 c.p.c..

Questa essendo la disciplina dettata dal legislatore chi esercita il diritto di ricorrere in Cassazione a norma dell’art. 348-ter c.p.c., comma 3, per dimostrare la sua tempestività, qualora proponga il ricorso oltre i sessanta giorni dalla pubblicazione dell’ordinanza, potendo la comunicazione avvenire fino dallo stesso giorno della pubblicazione, è tenuto ad allegare, se la comunicazione sia mancata al momento in cui notifica il ricorso, che essa non è avvenuta e, gradatamente, che non è avvenuta la notificazione e che, pertanto, propone il ricorso fruendo del c.d. termine lungo.

Nella specie la ricorrente non ha allegato che l’ordinanza non le sarebbe stata comunicata ed ha notificato il ricorso ben oltre (il 30 ottobre 2013) i sessanta giorni dalla pubblicazione dell’ordinanza, che scadevano il 10 giugno 2013.

In tale situazione non essendo stata allegato la mancata comunicazione l’impugnazione appariva tardiva già sulla base della sola considerazione del ricorso.

3.2. Peraltro, abbandonando il piano del solo esame del ricorso, si deve rilevare che il resistente ha dedotto che la comunicazione venne eseguita a mezzo PEC in pari data rispetto alla pubblicazione dell’ordinanza.

3.3. Il ricorso appare, dunque, inammissibile”.

2. Il Collegio condivide le argomentazioni e le conclusioni della relazione, alle quali non sono stati mossi rilievi da parte ricorrente e cui non è necessario aggiungere altro.

Il ricorso è, dunque, dichiarato inammissibile.

2.1. Parte resistente ha chiesto nel controricorso la cancellazione di asserite espressioni offensive che sarebbero state usate dalla controparte nel punto “L” del ricorso ed ha reiterato l’istanza nella memoria.

Peraltro, l’istanza è argomentata con la sola affermazione che “al punto L, controparte, in tema di “condotta dell’Avv. Z.C.”, esprime una serie di affermazioni gravi di cui si chiede la cancellazione perchè non concernono minimamente la controversia de qua come peraltro accertato, con motivazione sul punto non impugnata, dal Tribunale di Forlì…”.

Ora, va ricordato che i tema di esegesi dell’art. 89 è stato affermato il seguente principio di diritto: “la Corte di cassazione è competente ad ordinare, ai sensi dell’art. 89 c.p.c., la cancellazione delle espressioni sconvenienti ed offensive contenute nei soli scritti ad essa diretti, con la conseguenza che è inammissibile il motivo del ricorso per cassazione con cui si chieda la cancellazione delle frasi del suddetto tenore contenute nelle fasi processuali anteriori, essendo riservata la relativa statuizione al potere discrezionale del giudice di merito, insindacabile in sede di legittimità. Per la stessa ragione non è proponibile per la prima volta in cassazione la richiesta di risarcimento danni per responsabilità aggravata, prevista dall’art. 96 c.p.c., quando venga riferita al comportamento delle parti tenuto nelle fasi precedenti del giudizio” (Cass. n. 6439 del 2009). Ne segue che, ove l’istanza evocasse frasi offensive contenute in atti delle fasi di merito, riguardo ad esse dovrebbe considerarsi inammissibile.

Peraltro, il tenore con cui è espressa l’istanza e che si è riprodotto nemmeno individua le pretese “affermazioni gravi” nè con riferimento alle fasi di merito, nè con riguardo al contenuto espositivo del punto “L” del ricorso, limitandosi ad un generico rinvio a quest’ultimo.

In tale situazione, sebbene il provvedimento di cui alla norma dell’art. 89 c.p.c., non supponga necessariamente un’istanza di parte, potendo essere esercitato dal giudice anche su iniziativa d’ufficio e fermo che, peraltro, quando sollecitato dalla parte, il concreto esercizio rimane affidato al potere discrezionale dello stesso giudice (tanto che è consolidato il principio di diritto secondo cui: “Il potere del giudice di merito di ordinare la cancellazione di espressioni sconvenienti ed offensive utilizzate negli scritti presentati o nei discorsi pronunciati davanti al giudice costituisce un potere valutativo discrezionale volto alla tutela di interessi diversi da quelli oggetto di contesa tra le parti ed il suo esercizio d’ufficio, presentando carattere ordinatorio e non decisorio, si sottrae all’obbligo di motivazione, sicchè non è sindacabile in sede di legittimità, nè, il relativo provvedimento, in caso di reiezione dell’istanza di cancellazione, il provvedimento è suscettibile di impugnazione”: Cass. n. 14659 del 2015, ex multis), si deve ritenere che l’istanza sia da considerare nulla.

Invero, allorquando l’istanza venga fatta dalla parte stessa, per il fatto stesso che parte da una sua iniziativa ed esprime una doglianza circa il contenuto di atti processuali, è conforme al criterio della idoneità al raggiungimento dello scopo di sollecitare il potere officioso del giudice, esigere che essa contenga la precisa individuazione delle pretese espressioni sconvenienti ed offensive e che, in mancanza, debba considerarsi un’istanza nulla, tale da non meritare considerazione alcuna, equivalendo ad un’istanza priva di oggetto e, pertanto, inidonea allo scopo di sollecitare il detto potere, pur discrezionale, del giudice.

L’istanza, dunque, è da considerarsi tamquam non esset.

3. Le spese seguono la soccombenza e si liquidano in dispositivo ai sensi del D.M. n. 55 del 2014.

4. Parte resistente ha proposto anche istanza ai sensi dell’art. 96 c.p.c., comma 3, nel testo introdotto dalla L. n. 69 del 2009, che è applicabile al giudizio, in ragione dell’epoca in cui è iniziato in primo grado.

La Corte non ritiene di fare applicazione della norma, tenuto conto che l’esito del presente giudizio è dipeso dal rilievo di inammissibilità e non dall’esame dei motivi e considerato che al momento di proposizione del ricorso la Corte non si era pronunciata sulle modalità del decorso del termine per l’impugnazione ai sensi dell’art. 348-ter (e nemmeno sull’oggetto impugnabile) e che, pertanto, le questioni apparse decisive ai fini della tempestività del’esercizio del diritto di impugnazione presentavano non solo carattere di novità, ma erano anche oggetto di discussione e distinte soluzioni in dottrina, anche in relazione all’individuazione del termine nella prospettiva di individuare il provvedimento impugnabile.

3.1. Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1-quater, si deve dare atto che il processo risulta esente dall’onere del contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso a norma del citato art. 13, comma 1-bis.

PQM

La Corte dichiara inammissibile il ricorso. Condanna la ricorrente alla rifusione al resistente delle spese del giudizio di cassazione, liquidate in euro millenovecentottantacinque, di cui duecento per esborsi, oltre spese generali ed accessori come per legge. Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1-quater, dà atto che il processo risulta esente dall’onere del contributo unificato.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezione Sesta Civile – 3, il 20 gennaio 2016.

Depositato in Cancelleria il 22 luglio 2016

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