Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 1512 del 21/01/2011

Cassazione civile sez. I, 21/01/2011, (ud. 29/09/2010, dep. 21/01/2011), n.1512

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE PRIMA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. SALME’ Giuseppe – Presidente –

Dott. DI PALMA Salvatore – Consigliere –

Dott. ZANICHELLI Vittorio – Consigliere –

Dott. SCHIRO’ Stefano – rel. Consigliere –

Dott. DIDONE Antonio – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ordinanza

sul ricorso proposto da:

L.B., elettivamente domiciliato in Roma, via di Porta

Pinciana 6, presso gli avvocati Caravita Beniamino di Torino e

Marcello Collevecchio che lo rappresentano e difendono per procura in

atti;

– ricorrente –

contro

PRESIDENZA DEL CONSIGLIO DEI MINISTRI, in persona del Presidente pro

tempore;

– intimata –

avverso il decreto della Corte d’appello di Roma in data 21 gennaio

2008. nel procedimento n. 53555/2006 Ruolo affari diversi;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio in

data 29 settembre 2010 dal relatore, cons. Dott. Stefano Schirò;

alla presenza del Pubblico ministero, in persona dell’Avvocato

Generale Dott. CENICCOLA Raffaele, che nulla ha osservato;

Fatto

FATTO E DIRITTO

LA CORTE:

A) rilevato che è stata depositata in cancelleria, ai sensi dell’art. 380 bis c.p.c. la seguente relazione comunicata al Pubblico Ministero e notificata a difensore del ricorrente:

IL CONSIGLIERE RELATORE, letti gli atti depositati:

RITENUTO CHE:

1. L.B. ha proposto ricorso per cassazione avverso il decreto del 21 gennaio 2008, con il quale la Corte di appello di Roma ha condannato la Presidenza del Consiglio dei Ministri al pagamento in favore del menzionato ricorrente della somma di Euro 12.000,00, a titolo di indennizzo per il superamento del termine di ragionevole durata di un processo instaurato davanti al TAR del Lazio, con ricorso depositato 29 luglio 1989 e definito con sentenza del 22 novembre 2004, per l’accertamento del rapporto di impiego del L. con la Cassa del Mezzogiorno:

1.1. la Presidenza intimata non ha svolto difese:

OSSERVA:

2. la Corte di appello di Roma ha accolto la domanda nella misura di Euro 12.000,00, a titolo di indennizzo del solo danno non patrimoniale, avendo accertato una durata del processo superiore di dodici anni al termine ragionevole, per un importo di Euro 1.000,00 per ogni anno di ritardo;

3. il ricorrente censura il decreto impugnato, proponendo due motivi di ricorso, con i quali lamenta:

3.1. il mancato rispetto, con vizio di omessa motivazione, dei parametri europei in ordine alla quantificazione del danno non patrimoniale e il mancato riconoscimento del bonus di Euro 2.000,00 in ragione della natura del giudizio attinente a controversia di lavoro (primo motivo);

3.2. il calcolo dell’equo indennizzo solo con riferimento al periodo eccedente la ragionevole durata della causa e non all’intera durata del giudizio; solleva al riguardo questione di legittimità costituzionale della L. n. 89 del 2001, art. 2, comma 3, lett. a), per violazione dell’art. 117 Cost., comma 1 (secondo motivo):

4. il primo motivo appare manifestamente infondato, infatti, in tema di equa riparazione ai sensi della L. n. 89 del 2001, art. 2, nella liquidazione del danno non patrimoniale, il giudice nazionale, pur non potendo ignorare i criteri applicati in casi simili dalla Corte europea dei diritti dell’uomo, ha pur sempre facoltà di apportare le deroghe giustificate dalle circostanze concrete della singola vicenda, le quali, peraltro, non possono fondare la decisione di liquidare somme che non siano in relazione ragionevole con quella – tra i 1000,00 e i 1500,00 Euro – accordata dalla predetta Corte negli affari consimili (Cass. 2006/24356: 2007/2254): nella specie, la Corte di appello si è attenuta a tali principi, facendo riferimento ai parametri CEDU. sia pure nella misura minima: deve altresì tenersi conto che non può ravvisarsi un obbligo di diretta applicazione dell’orientamento della giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo, secondo cui va riconosciuta una somma forfetaria nel caso di violazione del termine nei giudizi aventi particolare importanza, fra cui anche la materia del lavoro; da tale principio, infatti, non può derivare automaticamente che tutte le controversie di tal genere debbano considerarsi di particolare importanza, spettando al giudice del merito valutare se, in concreto, la causa di lavoro abbia avuto una particolare incidenza sulla componente non patrimoniale del danno, con una valutazione discrezionale che non implica un obbligo di motivazione specifica, essendo sufficiente, nel caso di diniego di tale attribuzione, una motivazione implicita (Cass. 2006/9411; 2008/6898);

4.1. manifestamente infondata appare anche la censura relativa al secondo motivo di ricorso, in quanto è vincolante per il giudice nazionale, il disposto della L. n. 89 del 2001, art. 2, comma 3, lett. a), ai sensi del quale è influente solo il danno riferibile al periodo eccedente il termine ragionevole di durata del processo (Cass. 2005/21597; 2008/14): non rileva il contrario orientamento della giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo, poichè il giudice nazionale è tenuto ad applicare le norme dello Stato e, quindi, il disposto della citata legge, art. 2, comma 3, lett. a): non può, infatti, ravvisarsi un obbligo di diretta applicazione dei criteri di determinazione della riparazione della Corte europea dei diritti dell’uomo, attraverso una disapplicazione della norma nazionale, avendo la Corte costituzionale chiarito, con le sentenze n. 348 e n. 349 del 2007. che la Convenzione europea dei diritti dell’uomo non crea un ordinamento giuridico sopranazionale e non produce quindi norme direttamente applicabili negli Stati contraenti, essendo piuttosto configurabile come trattato internazionale multilaterale, da cui derivano obblighi per gli Stati contraenti, ma non l’incorporazione dell’ordinamento giuridico italiano in un sistema più vasto, dai cui organi deliberativi possano promanare norme vincolanti, “omisso medio”, per tutte le autorità interne (Cass. 2008/14);

4.2. manifestamente infondata appare anche la questione di legittimità costituzionale sollevata dal ricorrente, in quanto alla stregua della giurisprudenza di questa Corte, deve altresì rilevarsi che “l’art. 6 della CEDU riconosce il diritto ad un processo equo ed enuncia le caratteristiche che questo deve possedere per essere tale e, stabilendone così il contenuto, individua anche quali sono gli obblighi cui gli Stati contraenti devono conformarsi nell’organizzare il loro sistema giudiziario, sicchè le varie richieste di giustizia possano avere risposta a mezzo di un processo che, rispondendo alle caratteristiche imposte da detta norma, possa ritenersi equo. Questa disposizione individua, dunque, qual’è il contenuto del diritto ad un equo processo e, conseguentemente, le modalità delle sue possibili violazioni: non disciplina certo le conseguenze delle violazioni e le modalità della loro riparazione. La riparazione della violazione trova, invece, la sua disciplina di principio:

nell’art. 41 della CEDU, sull’equa soddisfazione, il quale dispone che “Se la Corte dichiara che vi è stata violazione della Convenzione o dei suoi protocolli e se il diritto interno dell’altra parte contraente non permette che in modo incompleto di riparare le conseguenze di tale violazione, la Corte accorda, quando è il caso, un’equa soddisfazione alla parte lesa”; nonchè nell’art. 13 della Convenzione, sul diritto ad un ricorso effettivo, il quale dispone che “Ogni persona i cui diritti e le cui libertà riconosciuti nella presente convenzione siano stati violati, ha diritto ad un ricorso effettivo davanti ad una istanza nazionale, anche quando la violazione sia stata commessa da persone agenti nell’esercizio delle loro funzioni ufficiali”. Tenendo conto del contenuto delle disposizioni su riportate e della loro portata, si può logicamente e fondatamente ritenere che sia riferibile all’art. 6 la giurisprudenza della Corte che individua i termini di durata del processo, superati i quali si verifica la violazione del termine ragionevole di durata dello stesso (ad es. riguarda certamente la interpretazione dell’art. 6 l’avere stabilito che può essere considerato ragionevole il termine di tre anni per la durata del giudizio di primo grado e quello di due anni per la durata del giudizio di secondo grado), ma non certo la giurisprudenza che individua i criteri da utilizzare per determinare l’ammontare del risarcimento, riguardando questa non la violazione del diritto all’equo processo, ma la determinazione di un’equa soddisfazione. Se così è, la L. n. 89 del 2001, art. 2, comma 3, lett. a) – che, nella complessiva disciplina dettata dalla legge citata sull’equa riparazione, si limita solamente ad indicare il criterio da utilizzare per determinare l’importo della riparazione dovuta per la violazione del termine ragionevole di durata del processo presupposto – non può fondatamente ritenersi – dato il campo di applicazione, che. giova ripeterlo non è quello dell’accertamento della violazione, ma quello consecutivo della sua riparazione – in contrasto con la norma interposta costituita dal predetto art. 6 della Convenzione e, quindi, con l’art. 117 Cost.”;

analoghe considerazioni sembrano potersi svolgere qualora si prospetti, come dedotto nella specie dal ricorrente, la illegittimità costituzionale della L. n. 89 del 2001, art. 2, comma 3, lett. a), per violazione dell’art. 117 Cost., comma 1, in relazione agli artt. 41 e 13 della CEDU. in quanto tali disposizioni, pur concernendo la riparazione della violazione, prevedono soltanto la possibilità di adire per detta riparazione, rispettivamente la Corte europea, se il diritto interno permette di riparare solo in modo incompleto le conseguenze della violazione, o un organo giurisdizionale nazionale, anche quando la violazione sia stata commessa da persone agenti nell’esercizio delle loro funzioni ufficiali, e non dettano quindi una disciplina delle modalità di determinazione dell’indennizzo rispetto alla quale la previsione normativa di cui alla citata L. n. 89 del 2001, art. 2, comma 3, lett. a si ponga in termini di incompatibilità, così da integrare gli estremi della illegittimità costituzionale della previsione stessa per violazione dell’art. 117 Cost., comma 1;

5. alla stregua delle considerazioni che precedono e qualora il collegio condivida i rilievi formulati in precedenza, si ritiene che il ricorso possa essere trattato in camera di consiglio ai sensi degli artt. 375 e 380 bis c.p.c.”;

B) osservato che non sono state depositate conclusioni scritte o memorie ai sensi dell’art. 380 bis c.p.c. e che, a seguito della discussione sul ricorso tenuta nella camera di consiglio, il collegio ha condiviso le argomentazioni esposte nella relazione;

ritenuto pertanto che, in base alle considerazioni che precedono, il ricorso deve essere rigettato e che nulla deve disporsi in ordine alle spese del giudizio di cassazione, non avendo la Presidenza intimata svolto difese.

P.Q.M.

LA CORTE rigetta il ricorso.

Così deciso in Roma, il 29 settembre 2010.

Depositato in Cancelleria il 21 gennaio 2011

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