Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 15109 del 08/07/2011

Cassazione civile sez. I, 08/07/2011, (ud. 16/03/2011, dep. 08/07/2011), n.15109

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE PRIMA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. LUCCIOLI Maria Gabriella – Presidente –

Dott. FELICETTI Francesco – Consigliere –

Dott. PICCININNI Carlo – Consigliere –

Dott. GIANCOLA Maria Cristina – Consigliere –

Dott. CAMPANILE Pietro – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso proposto da:

M.G., elettivamente domiciliato in Roma, Via Gavorrano,

n. 12, nello studio dell’Avv. Mario Giannarini; rappresentato e

difeso, giusta procura speciale a margine del ricorso, dagli Avv.

Ricca Lucio e Sergio Fiorito.

– ricorrente –

contro

G.S., domiciliata in Roma, presso la Cancelleria

della Corte di cassazione; rappresentata e difesa, giusta procura

speciale a margine del controricorso, dall’Avv. Natale Napoli.

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 509 del 2006 della Corte di appello di

Catania, depositata in data 6 giugno 2006;

sentita la relazione all’udienza del 16 marzo 2011 del consigliere

Dott. Pietro Campanile;

Udite le richieste del Procuratore Generale, in persona del Sostituto

Dott. ZENO Immacolata, la quale ha concluso per l’inammissibilità

del ricorso, in subordine, per il rigetto.

Fatto

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

1 – Con atto di citazione notificato in data 10 dicembre 1998 M.G. conveniva davanti al Tribunale di Catania – sezione distaccata di Mascalcia, la moglie G.S., dalla quale era legalmente separato, chiedendone la condanna al pagamento della somma di L. 48 milioni, corrispondente al valore di beni personali detenuti dalla predetta, dei quali aveva chiesto invano la restituzione.

1.1 – Il Tribunale adito, con sentenza del 26 dicembre 2004, rigettava la domanda, ritenendo che l’attore non avesse dimostrato l’illegittima ritenzione da parte della convenuta di beni di sua proprietà.

1.2 – La Corte di appello di Catania, con la sentenza indicata in epigrafe, all’esito di una valutazione complessiva del materiale probatorio, rigettava il gravame, con condanna dell’appellante al pagamento delle spese processuali.

1.3 – Avverso tale decisione propone ricorso il M., affidato a due motivi, illustrati con memoria.

Resiste con controricorso la G..

Diritto

MOTIVI DELLA DECISIONE

2 – Viene denunciata, con un primo profilo di censura, violazione dell’art. 2727 c.c., formulandosi, in proposito, il seguente quesito di diritto: “Si chiede che la ecc.ma Corte voglia statuire che il comportamento del debitore e le sue ammissioni circa il valore delle cose pretese dal debitore, asse-verati da prova testimoniale, unitamente all’ordinanza del Presidente del Tribunale del 14 luglio 1997 che in sede di separazione personale ha ordinato alla moglie G.S., assegnataria dell’alloggio familiare, la restituzione al marito degli effetti personali rimasti in casa, nonchè la raccomandata confermata dai testi costituiscono indizi gravi precisi e concordanti circa la sussistenza di un danno risarcibile e la fondatezza della pretesa in ordine alla quantificazione dello stesso”.

2.1 – La seconda doglianza attiene, viceversa, all’insufficiente motivazione su una parte decisiva della controversia.

2.2 – Va affermata l’inammissibilità, per come formulati, di entrambi i motivi.

2.3 – Deve preliminarmente rilevarsi come al ricorso in esame, avente ad oggetto un provvedimento emesso nel giugno dell’anno 2006, debbano applicarsi le disposizioni del D.Lgs. 2 febbraio 2006, n. 40 (in vigore dal 2.3.2006 sino al 4.7.2009), e in particolare l’art. 6, che ha introdotto l’art. 366 bis c.p.c.. Alla stregua di tali disposizioni – la cui peculiarità rispetto alla già esistente prescrizione della indicazione nei motivi di ricorso della violazione denunciata consiste nella imposizione di una sintesi originale ed autosufficiente della violazione stessa, funzionalizzata alla formazione immediata e diretta del principio di diritto al fine del miglior esercizio della funzione nomofilattica – l’illustrazione dei motivi di ricorso, nei casi di cui all’art. 360, comma 1, nn. 1-2-3- 4, deve concludersi, a pena di inammissibilità, con la formulazione di un quesito di diritto che, riassunti gli elementi di fatto sottoposti al giudice di merito e indicata sinteticamente la regola di diritto applicata da quel giudice, enunci la diversa regola di diritto che ad avviso del ricorrente si sarebbe dovuta applicare nel caso di specie, in termini tali che dalla risposta che ad esso si dia discenda in modo univoco l’accoglimento o il rigetto del gravame.

Analogamente, nei casi di cui all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, l’illustrazione del motivo deve contenere (cfr., ex multis: Cass. S.U. n. 20603/2007; Sez. 3 n. 16002/2007; n. 8897/2008) un momento di sintesi – omologo del quesito di diritto – che ne circoscriva puntualmente i limiti, in maniera da non ingenerare incertezze in sede di formulazione del ricorso e di valutazione della sua ammissibilità.

2.4 – Il ricorso in esame non è conforme a tali disposizioni, atteso che il primo motivo, prospettato in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, pur concludendosi con la formulazione di un quesito di diritto, non contiene un’esposizione adeguata del riferimento alla regola di diritto applicata dal giudice di secondo grado ed a quella diversa regula iuris che, a giudizio del ricorrente avrebbe dovuto essere applicata (Cass., Sez. Un, 14 febbraio 2008, n. 3519; Cass., 25 luglio 2008, n. 20454).

Per il vero nella stessa esposizione del motivo le argomentazioni attengono esclusivamente alla valutazione del materiale probatorio, così tendendo, in maniera del tutto inammissibile, ad offrire una diversa lettura delle risultanze processuali, più confacente alle tesi difensive del ricorrente stesso. Giova ricordare come non sia possibile introdurre nel giudizio di legittimità censure circa le valutazioni riguardanti il merito della causa, se non attraverso una specifica denuncia dei vizi che attengono alla motivazione inerente a tali aspetti.

2.5 – Proprio a tale riguardo deve rilevarsi che, quanto al vizio motivazionale dedotto con il secondo profilo di censura, manca del tutto quel momento di sintesi, omologo del quesito di diritto, nel senso sopra evidenziato. Emerge, pertanto, un ulteriore elemento ostativo all’esame del ricorso, che quindi va dichiarato inammissibile, con conseguente condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali, liquidate come in dispositivo.

P.Q.M.

La Corte dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente alla rifusione, in favore della controparte, delle spese processuali relative al presente giudizio di legittimità, liquidate in Euro 1.700,00, di cui Euro 1.500,00 per onorari.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezione Prima Civile, il 16 marzo 2011.

Depositato in Cancelleria il 8 luglio 2011

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