Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 15108 del 15/07/2020

Cassazione civile sez. lav., 15/07/2020, (ud. 24/10/2019, dep. 15/07/2020), n.15108

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. D’ANTONIO Enrica – Presidente –

Dott. DE GREGORIO Federico – rel. Consigliere –

Dott. GHINOY Paola – Consigliere –

Dott. MANCINO Rossana – Consigliere –

Dott. CALAFIORE Daniela – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 6876/2015 proposto da:

RISTORANTE BIANCONI DI P.A. & C. S.A.S., in persona del

legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in

ROMA, PIAZZA DELLA LIBERTA’ 20, presso lo studio dell’avvocato

ALESSANDRA GULLO, rappresentata e difesa dall’avvocato CARLO

CORSINOVI;

– ricorrente –

contro

I.N.P.S. – ISTITUTO NAZIONALE PREVIDENZA SOCIALE, in persona del

Presidente e legale rappresentante pro tempore, elettivamente

domiciliato in ROMA, VIA CESARE BECCARIA 29, presso l’Avvocatura

Centrale dell’Istituto, rappresentato e difeso dagli avvocati

ANTONINO SGROI, LELIO MARITATO, GIUSEPPE MATANO, EMANUELE DE ROSE,

ESTER ADA SCIPLINO, CARLA D’ALOISIO;

– resistente con mandato –

avverso la sentenza n. 20/2015 della CORTE D’APPELLO di FIRENZE,

depositata il 15/01/2015 r.g.n. 1178/2015.

LA CORTE, visti gli atti e sentito il consigliere relatore.

Fatto

RILEVA

che il giudice del lavoro di Firenze con sentenza del 20 giugno 2013 accoglieva la domanda di accertamento negativo proposta da ristorante B. di P.A. & C. S.a.s., statuendo quindi la insussistenza del credito vantato dall’I.N.P.S. per contributi omessi e somme aggiuntive relativamente alla posizione dei lavoratori B.B. e L.L. per il periodo novembre 2004 – febbraio 2008. In particolare, il giudice adito, negando rilevanza decisiva ai fatti accertati nel verbale ispettivo dell’8 aprile 2008, aveva ritenuto genuini e legittimi i rapporti di lavoro a progetto instaurati dalla società istante con i suddetti collaboratori;

avverso la succitata pronuncia interponeva gravame l’Inps mediante ricorso del 20 dicembre 2013 e la Corte d’Appello di Firenze con sentenza del 15 gennaio 2015, in riforma della gravata pronuncia, rigettava la domanda proposta dall’anzidetta S.a.s. Ristorante B. di P.A. & C., con la condanna della stessa al rimborso delle spese relative ad entrambi gradi del giudizio liquidate in favore dell’Istituto;

contro la sentenza d’appello, notificata il 3 febbraio 2015, ha proposto ricorso per cassazione la S.a.s. con atto del 13 marzo 2015, affidato a nove motivi. L’I.N.P.S. è rimasto intimato, avendo soltanto depositato procura speciale a seguito del ricorso notificatogli.

Diritto

CONSIDERATO

Che:

con il primo motivo è stata denunciata la nullità della sentenza impugnata e o del relativo procedimento ex art. 360 c.p.c., n. 4, reiterando l’eccezione di inammissibilità ovvero di nullità dell’appello a suo proposto dall’Istituto per violazione degli artt. 342 e 434 c.p.c., sulla quale la corte d’appello non si era minimamente pronuncia; con il secondo motivo, ex art. 360 c.p.c., n. 4, è stata lamentata la nullità della sentenza impugnata per violazione dell’art. 132 c.p.c. e contestualmente degli artt. 115 e 116 c.p.c., sostenendosi l’invalidità della motivazione della sentenza d’appello nei limiti in cui aveva completamente trascurato, senza fornire alcun supporto motivazionale rispetto a tale opzione ricostruttiva, tutta una serie di prove e/o di indici indiziari, ampiamente emersi in sede istruttoria, che avrebbero accreditato una soluzione decisoria completamente opposta a quella poi adottata in punto di simulazione di rapporti collaborativi a progetto e loro asserita natura di rapporti di lavoro subordinato. In particolare, non era stata minimamente considerata la circostanza per cui in sede di accertamento gli ispettori dell’Inps non contestarono una eventuale analoga situazione dei contratti di collaborazione a progetto della signora M.E., contratto peraltro espressamente menzionato nel verbale di accertamento dell’8 aprile 2008, il cui contenuto era sostanzialmente identico a quello della signora B., donde la totale irrazionalità del contestato accertamento ispettivo. Inoltre, era stata completamente trascurata la circostanza per cui l’impugnato verbale di accertamento non conteneva alcuna traccia di verifiche circa l’effettiva subordinazione dei rapporti collaborativi contestati in termini di soggezione dei suddetti B. e L. al potere direttivo e/o disciplinare del committente, ciò in palese violazione della giurisprudenza di legittimità in punto di elementi discretivi tra lavoro subordinato e autonomo. Era stato, altresì, completamente trascurato il contenuto della testimonianza resa dalla sig.ra M.E., escussa all’udienza del 15 febbraio 2010, la quale aveva infatti pienamente confermato le circostanze di fatto di cui al ricorso introduttivo del giudizio di primo grado. Parimenti, era stato completamente trascurato il contenuto della testimonianza resa dalla ispettrice Br.St., la quale in realtà aveva confermato che l’accertamento era stato di durata limitata nel tempo allorchè non intravide differenze qualitative tra il lavoro della signora B. e quello delle altre banconiste. Nulla peraltro la teste aveva riferito in ordine alla sussistenza o meno di indici di subordinazione. Era stato completamente trascurato il contenuto della testimonianza resa all’udienza del 11 gennaio 2012 dal signor L.L., il quale fu sentito nella sua duplice veste di testimone, riguardo ai fatti concernenti la posizione della B., ed in sede di libero interrogatorio sulle circostanze inerenti alla propria prestazione collaborativa. Inoltre, si era completamente trascurato sede motivazionale il contenuto della testimonianza resa l’11 gennaio 2012 dalla signora B.B., anch’essa escussa nella duplice veste di teste e di persona liberamente sentita, la quale aveva confermato le riunioni periodiche effettuate con il signor P. unitamente al signor L.. Era stata, altresì, completamente trascurata la testimonianza resa dal signor S.V.. La Corte d’Appello aveva poi del tutto travisato la deposizione testimoniale resa dalla signora M.;

con il terzo motivo, ex art. 360 c.p.c., n. 4, è stata denunciata la nullità della sentenza impugnata per violazione degli artt. 132,115,116 e 221 c.p.c., nonchè art. 2702 c.c., per aver l’impugnata sentenza fondato essenzialmente la propria motivazione sulle dichiarazioni stragiudiziali rese dai suddetti collaboratori B. e L. agli ispettori dell’Inps, svalutando contemporaneamente le rispettive dichiarazioni testimoniali, non prendendone atto, senza nulla dire riguardo all’altrettanto chiara dichiarazione resa dalla signora M., che invece aveva confortato l’assetto difensivo di parte ricorrente, con evidente vizio logico di motivazione, perchè non veniva dato conto della valenza probatoria della dichiarazione stragiudiziale resa dalla M. e senza fornire alcuna spiegazione in merito, offrendo una valutazione palesemente sperequata di atti analoghi. Inoltre, le menzionate dichiarazioni stragiudiziali dovevano ritenersi per ogni effetto prove atipiche, aventi perciò al più un mero valore indiziario, di modo che come tali non potevano prevalere sul contenuto della prova testimoniale ritualmente raccolta in giudizio e sotto giuramento, specie ove si fosse valutato il complessivo contesto probatorio e documentale in atti. Peraltro, risultava erroneo e logicamente contraddittorio ritenere che le dichiarazioni stragiudiziali della B. e del L. fossero la ritenersi prevalenti ai fini del convincimento del giudice rispetto ad ogni altra acquisizione istruttoria, tenuto conto che i due collaboratori avevano uno specifico interesse patrimoniale a sostenere una tesi piuttosto che un’altra, tant’è che in primo grado furono sentiti in sede di libero interrogatorio e non come testi quando erano stati chiamati a riferire circa la propria posizione collaborativa. In sostanza, il primo giudicante aveva correttamente rilevato una incapacità a testimoniare dei predetti ex art. 246 c.p.c. e sul punto la sentenza di primo grado non era stata specificamente impugnata con conseguente formazione di giudicato, quanto meno implicito, sulla incapacità a testimoniare dei predetti B. e, L.. Era evidente l’incongruenza del ragionamento che sorreggeva la motivazione dell’impugnata sentenza laddove si screditava a priori la valenza probatoria di tutto il materiale istruttorio acquisito, con esaltazione per contro della prova atipica resa da soggetti non indifferenti alla lite, pregiudizio metodico che aveva determinato l’esito decisorio dove traspariva evidente un implicito e pregiudiziale scetticismo del giudice di secondo grado rispetto all’effettività dei rapporti collaborativi a progetto. Peraltro, anche verificando analiticamente l’effettiva portata delle dichiarazioni rese in sede ispettiva, le stesse risultavano in realtà assai poco proficue sotto il profilo probatorio (dichiarazioni rese agli ispettori 20 febbraio 2008 dalla B. e dal L., nonchè il 14 febbraio 2008 dal socio accomandatario signor P.A.);

con il quarto motivo ex art. 360 c.p.c., n. 3, è stata denunciata la violazione dell’art. 2094 c.c., art. 409 c.p.c., D.Lgs. n. 276 del 2003, artt. 61,62,63 e 69, avendo la Corte d’Appello erroneamente applicato nel caso di specie i principi normativi in materia di subordinazione nonchè di rapporti collaborativi coordinati e continuativa. In particolare, il progetto contrattualmente dedotto per entrambi i rapporti collaborativi in questione doveva considerarsi chiaro, coerente e perfettamente lecito, in quanto esso poteva inerire, quantomeno all’epoca dei fatti, al normale ciclo produttivo aziendale ovvero ad una fase di esso. Il progetto conteneva oltretutto una espressa “delega di poteri direttivi” nei confronti di altri dipendenti in organico e le prove raccolte avevano tutte concordemente confermato il concreto esercizio, sia da parte della signora B. che del signor L., di tale prerogativa, mentre non era emersa la soggezione di detti collaboratori al potere gerarchico del signor P., il quale, sebbene sovrintendesse a tutta l’azienda, tuttavia non aveva mai fatto uso di un potere direttivo o disciplinare nei confronti dei due collaboratori;

con il quinto motivo (erroneamente indicato a pagina 48 del ricorso con il n. 4) è stata denunciata la violazione e l’errata applicazione dell’art. 2094 c.c., art. 409 c.p.c., D.Lgs. n. 276 del 2003, art. 61, art. 2222 c.c., nonchè contestuale vizio di motivazione rilevante ex art. 132 c.p.c., ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 4, in quanto, pur restando provate le direttive di carattere generale impartite dal signor P.A. nelle riunioni periodiche di cui avevano fatto cenno tutti i testi escussi, non erano stati provati più pregnanti ordini, specifici e reiterati occorrenti ai fini della subordinazione, nè tantomeno la soggezione al potere disciplinare. Inoltre, era stato violato il principio secondo cui nel caso di situazione oggettiva di incertezza probatoria il giudice deve ritenere che il relativo onere a carico di parte attrice non sia stato assolto, e non già propendere per la natura subordinata del rapporto. D’altra parte, siffatto vizio di legittimità si rifletteva anche in una evidente una carenza motivazionale, che non solo non aveva dato conto dell’applicazione nella specie dei succitati criteri decisori, ma aveva trascurato palesemente e senza alcuna giustificazione risultanze probatorie opposte;

con il sesto motivo (erroneamente indicato con il numero 5 a pagina 50 del ricorso), ex art. 360 c.p.c., n. 3, è stata denunciata violazione ed errata applicazione dell’art. 2094 c.c. e del D.Lgs. n. 276 del 2003, art. 69, laddove l’impugnata pronuncia non aveva minimamente verificato la possibilità di ricondurre i contratti a progetto in questione nell’alveo residuale del contratto d’opera ex art. 2222 c.c., correlato anche al carattere non assoluto della presunzione di cui del succitato art. 69, commi 1 e 2, sostenendosi inoltre che nella specie ratione temporis risultava inapplicabile l’interpretazione autentica di cui alla L. 28 dicembre 2012, n. 92, art. 1, comma 24, con riferimento al D.Lgs. n. 276 del 2003, art. 69, in quanto il successivo comma 25 espressamente differiva l’operatività dei commi 23 e 24 ai contratti di collaborazione stipulati successivamente alla data di entrata in vigore della novella. Di conseguenza, secondo la società ricorrente nel caso di specie, trattandosi di contratti sottoscritti prima della L. n. 92 del 2012, la presunzione di subordinazione era da intendersi relativa, con ogni conseguente onere probatorio, inoltre, ex art. 2697 c.c., a carico dell’I.N.P.S., pure nel caso di azione di accertamento negativo, tenuto conto, per altro verso anche del principio della c.d. indisponibilità del tipo contrattuale;

– con il settimo motivo (erroneamente indicato con il n. 6 a pag. 53 del ricorso) è stata inoltre denunciata la violazione e/o falsa applicazione dell’art. 2094 c.c., D.Lgs. n. 276 del 2003, art. 61artt. 1362,1363,1366 e 1367 c.c., contestandosi l’iter logico-argomentativo dell’impugnata sentenza, che non aveva tenuto conto, da un lato, dei principi di diritto in punto di valenza del nomen juris adottato dalle parti e, dall’altro, non aveva minimamente indagato se l’attuazione del rapporto collaborativo si fosse di fatto discostata dal programma negoziale inizialmente pattuito;

– con l’ottava censura (erroneamente con il n. 7 a pag. 58 del ricorso) è stata dedotta la violazione e/o falsa applicazione del D.Lgs. n. 276 del 2003, artt. 61 e 62 (secondo il testo ratione temporis applicabile nella specie) in correlazione con gli artt. 1362,1363,1366 e 1367 c.c., laddove la Corte d’Appello aveva ritenuto l’irregolarità e/o invalidità del progetto contrattuale, perchè non conforme al contenuto previsto dai suddetti artt. 61 e 62. Infatti, la definizione dei progetti de quibus risultava perfettamente compatibile con le disposizioni di legge vigenti all’epoca delle stipulazioni in data due novembre ( B.) e primo dicembre 2004 ( L.), per cui la definizione di progetto poteva all’epoca qualificarsi come “programma di lavoro o fase di esso”, mentre l’impugnata sentenza aveva palesemente omesso di considerare siffatta prospettiva ermeneutica del progetto contrattualmente concluso in quanto riconducibile ad un legittimo programma o fase di lavoro, perfettamente legittimo ante Legge Fornero;

infine, con il nono motivo (per errore materiale di numerazione indicato come 8 a pag. 62 del ricorso), è stato lamentato l’omesso esamine circa un fatto decisivo del giudizio, già oggetto di discussione tra le parti, ex art. 360 c.p.c., n. 5, in relazione all’art. 2094 c.c. e D.Lgs. n. 276 del 2003, art. 69, con riferimento alla circostanza, pacifica tra le parti e comunque provata dai documenti nn. 3 e 4 allegati alla produzione di primo grado, costituita dalla specifica articolazione ed ampiezza del ristorante B., costituito da vari settori distinti ubicati su diversi piani (sala ristorante e cucina al primo piano, self-service con relativi tavoli al pian terreno, pizzeria, bar-pasticceria con locali interrati ad uso laboratorio, rivendita tabacchi e attività collaterale di affittacamere). Tutto ciò era stato completamente trascurato nella motivazione della sentenza impugnata, assumendo invece rilievo per comprendere come fosse del tutto inverosimile che il sig. P. potesse controllare e dare specifiche direttive al personale di ogni reparto e/ articolazione produttiva, donde l’insussistenza di alcun effettivo esercizio di potere direttivo e/o disciplinare nei riguardi dei due suddetti collaboratori a progetto, sicchè anche sotto tale profilo vi era stata una erronea, incongrua e/o omessa valutazione delle prove raccolte in atti;

tanto premesso, vanno disattese le anzidette censure per le seguenti ragioni, risultando per contro corrette le argomentazioni in diritto sulle quali si fonda la pronuncia qui impugnata, mentre ne risultano insindacabili in questa sede di legittimità le valutazioni di merito, peraltro sufficientemente motivate e comunque in misura non inferiore al minimo costituzionale occorrente a norma dell’art. 111 Cost. e art. 132 c.p.c., n. 4 (cfr. sul punto Cass. sez. un. civ. nn. 8053 e 8054 del 2014, nonchè la conforme giurisprudenza di questa Corte al riguardo);

in particolare, la Corte d’Appello, dopo aver riportato le rilevanti dichiarazioni rese in sede di accertamento ispettivo da P.A., B.B. e L.L., osservava che la sentenza impugnata risultava censurabile in quanto aveva completamente omesso l’esame delle anzidette dichiarazioni rilasciate al momento dell’accesso sul posto, allorchè gli ispettori (richiamando altresì la testimonianza Br.) trovarono la B. che svolgeva le comuni mansioni di banconiera e non potè poi negare che ella era solita servire il pubblico e riscuotere il prezzo delle consumazioni. Inoltre, non andava trascurato che B. e L. dopo l’accesso ispettivo avevano ottenuto la regolarizzazione come dipendenti del bar ristorante, per cui era palese il loro successivo tentativo di sminuire le dichiarazioni rese nell’immediatezza dei fatti. Ad ogni modo, L. e B. avevano anche dichiarato in giudizio, come da verbali di udienza, di “confermare integralmente” le dichiarazioni rese in sede ispettiva. Ciò posto, già l’esame dei contratti 2 novembre 2004 e 23 ottobre 2006 per la B. nonchè 1 dicembre 2004 e 20 novembre 2006 per il L., prodotti in atti, denotavano che le pattuizioni intervenute non contenevano un adeguato progetto secondo il significato richiesto del D.Lgs. n. 276 nel 2003, artt. 61 e segg., secondo il testo all’epoca vigente, laddove la richiesta specificità del progetto (rispetto al funzionamento ordinario dell’attività commerciale o produttiva), doveva coincidere con una originalità connessa alla realizzazione di un circoscritto programma per l’esecuzione del quale il collaboratore doveva poter disporre anche di una certa autonomia di mezzi e di iniziativa. Siffatti caratteri non potevano farsi coincidere con la mera flessibilità dell’orario di lavoro nell’ambito di determinate fasce temporali ovvero con i minimi margini di autonomia e di inventiva ricompresi nelle comuni mansioni di un pasticcere, di un pizzaiolo ovvero di una commessa che dispone i pezzi dolci e salati nella vetrina di un bar (attività manuale quest’ultima, di cui pur non negandosi l’aspetto creativo, comunque non assurgeva fino ai connotati del “progetto”). Quanto alla B., l’ideazione e la consulenza per la preparazione di vetrine risultavano essere un programma eccessivamente generico se riferito ad un bar ristorante di limitate dimensioni e ad un arco temporale protrattosi dal 2004 il 2008. Infatti, il progetto stesso, per come era stato attuato in concreto, riguardava in pratica il mero rifornimento degli alimenti stessi da prelevare in cucina e trasportare fino alle vetrine e al banco, e la somministrazione degli stessi alla clientela con mansioni effettive di banconiera da parte della B.. L’asserita autonomia si risolveva quindi in una certa qual e elasticità di orario (anche se la lavoratrice aveva comunque riferito di aver sempre lavorato per lo più al mattino e di aver concordato via via qualche sostituzione per la sera ovvero per il pomeriggio). Non vi era in questo caso alcun effettivo progetto programma da realizzare con margini di autonomia, se non lo scopo di assicurare il servizio di ristorazione e del bar. La teste M., d’altro canto, aveva riferito che il titolare P.A. era costantemente presente nel locale e sovrintendeva e controllava tutta l’attività produttiva e commerciale, come da verbale di udienza 15 febbraio 2010. Dal canto suo, il L. – assunto come esperto pasticcere già ultracinquantenne- apportava ovviamente la propria esperienza professionale nell’espletare le sue mansioni, ma ciò non valeva di per sè ad individuarlo come titolare di un progetto o di un programma nel significato di cui al succitato art. 61. Egli stesso aveva riferito di aver sempre preparato i dolci e salati necessari per il bar e di aver lavorato normalmente quattro ore al mattino a partire dalle ore 6:00 – 6:30, orario che aveva mantenuto anche dopo la regolare assunzione come dipendente. Ed il teste S.V. aveva dichiarato che gli acquisti delle materie prime venivano decisi dal titolare, il quale dava disposizioni a L.. Secondo la Corte territoriale, quindi, non valeva certo a realizzare un programma il fatto che i L., per la sua esperienza maturata nelle mansioni, suggerisse di realizzare un dolce piuttosto che un altro. Sia per B. che per L. l’asserito progetto si risolveva nella mera enfatizzazione da parte dell’appellata delle comuni mansioni rispettivamente di banconiera e di pasticcere. Del tutto marginale, se non inesistente, era stata l’attività formativa che L. avrebbe svolto nei confronti del suddetto V.. Quest’ultimo aveva lealmente ammesso di non aver mai conseguito la qualifica di pasticcere e di fare soltanto le mansioni di pizzaiolo. Anche per il L., dunque, si rivelava inesistente il progetto nel significato richiesto dalla legge, mancando qualsiasi autonomia di iniziativa e di originalità di programma, che non fosse quella della preparazione quotidiana di pezzi dolci e salati per il bar ristorante secondo il fabbisogno giornaliero. Nè si potevano enfatizzare le periodiche riunioni per discutere dei problemi di lavoro. Anche in questo caso si confondeva un generico programma “per verificare l’andamento del lavoro” con la distinta figura del progetto richiesto dal D.Lgs. n. 276, secondo il testo vigente negli anni dal 2004 al 2008. Pertanto, secondo la Corte fiorentina, la mancanza di un valido progetto comportava ex lege, art. 69 cit., l’instaurarsi di un rapporto di lavoro subordinato in forza della presunzione legale. Di conseguenza, non poteva condividersi il cenno che il Tribunale aveva fatto ad un asserito lavoro comunque autonomo, in quanto l’assenza di valido progetto non lasciava spazio ad un tertium genus di collaborazione coordinata e continuativa, in questo divieto risolvendosi la nota peculiarità della Legge del 2003;

vanno pertanto senz’altro rigettati le prime tre censure di ricorso, riferite agli errores in procedendo ivi denunciati, laddove in primo luogo non risultano compiutamente riprodotti, ai sensi e per gli effetti dell’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 6, i motivi dell’appello a suo tempo proposto dall’I.N.P.S., mentre la Corte distrettuale ha evidentemente, sia pure in modo implicito e sintetico, giudicato ritualmente interposto il gravame, nella parte in cui aveva osservato che la riforma della pronuncia di primo grado era stata chiesta sul rilievo che il tribunale non aveva adeguatamente esaminato e valutato il materiale probatorio esistente agli atti (v. Cass. sez. 6-1, ordinanza n. 23834 del 25/09/2019: in tema di ricorso per cassazione, l’esercizio del potere di esame diretto degli atti del giudizio di merito, riconosciuto alla S.C. ove sia denunciato un “error in procedendo”, presuppone l’ammissibilità del motivo, ossia che la parte riporti in ricorso, nel rispetto del principio di autosufficienza, gli elementi ed i riferimenti che consentono di individuare, nei suoi termini esatti e non genericamente, il vizio suddetto, così da consentire alla Corte di effettuare il controllo sul corretto svolgimento dell'”iter” processuale senza compiere generali verifiche degli atti. Conforme Cass. n. 11738 del 2016. Cfr. anche Cass. Sez. 6-5, ordinanza n. 1479 del 22/01/2018, secondo cui i motivi per i quali si chiede la cassazione della sentenza non possono essere affidati a deduzioni generali e ad affermazioni apodittiche, con le quali la parte non prenda concreta posizione, articolando specifiche censure esaminabili dal giudice di legittimità sulle singole conclusioni tratte dal giudice del merito in relazione alla fattispecie decisa. Invero, il ricorrente – incidentale, come quello principale – ha l’onere di indicare con precisione gli asseriti errori contenuti nella sentenza impugnata, in quanto, per la natura di giudizio a critica vincolata propria del processo di cassazione, il singolo motivo assolve alla funzione condizionante il “devolutum” della sentenza impugnata, con la conseguenza che il requisito in esame non può ritenersi soddisfatto qualora il ricorso per cassazione – principale o incidentale – sia basato sul mero richiamo dei motivi di appello, una tale modalità di formulazione del motivo rendendo impossibile individuare la critica mossa ad una parte ben identificabile del giudizio espresso nella sentenza impugnata, rivelandosi del tutto carente nella specificazione delle deficienze e degli errori asseritamente individuabili nella decisione. Conforme Cass. n. 10420 del 2005.

V. inoltre Cass. II civ. n. 18674 del 12/09/2011, secondo cui qualora l’atto d’appello denunci l’erronea valutazione, da parte del giudice di primo grado, degli elementi probatori acquisiti o delle conclusioni del consulente tecnico d’ufficio, è sufficiente, al fine dell’ammissibilità dell’appello, l’enunciazione dei punti sui quali si chiede al giudice di secondo grado il riesame delle risultanze istruttorie per la formulazione di un suo autonomo giudizio, non essendo richiesto che l’impugnazione medesima contenga una puntuale analisi critica delle valutazioni e delle conclusioni del giudice che ha emesso la sentenza impugnata ovvero l’espressa indicazione delle questioni decisive non esaminate o non correttamente esaminate. Conforme Cass. n. 16190 del 2004. Inoltre, Cass. III civ. n. 15790 del 29/07/2016 ha avuto modo di precisare che la specificità dei motivi di appello va commisurata all’ampiezza e alla portata delle argomentazioni spese dal primo giudice. Per altro verso, Cass. III civ. con l’ordinanza n. 11197 del 24/04/2019 ha chiarito che l’appello, nei limiti dei motivi di impugnazione, è un giudizio sul rapporto controverso e non sulla correttezza della sentenza impugnata, sicchè rispetto ad esso non è quindi concepibile alcun rapporto di autosufficienza ma solo di specificità, che presuppone la specificità della motivazione della sentenza impugnata, per cui ove manchi quest’ultima, non è esigibile dall’appellante, che intenda dolersi del rigetto in primo grado delle sue istanze istruttorie, altro onere se non quello di riproporre l’istanza o la domanda immotivatamente rigettata.

Del resto, l’appello, a differenza che per il ricorso per cassazione in relazione al quale opera specificamente l’art. 366 c.p.c., non richiede per la sua validità il requisito dell’autosufficienza. Cfr. sul punto Cass. II civ. n. 7675 del 19/03/2019: non può considerarsi aspecifico e deve, quindi, essere dichiarato ammissibile, il motivo d’appello che esponga il punto sottoposto a riesame, in fatto ed in diritto, in modo tale che il giudice sia messo in condizione – senza necessità di esplorare, in assenza di parametri di riferimento, le vicende processuali – di cogliere natura, portata e senso della critica, non occorrendo, tuttavia, che l’appellante alleghi e, tantomeno, riporti analiticamente le emergenze di causa rilevanti, le quali risultino investite ed evocate non equivocamente dalla censura, diversamente da quel che è previsto per l’impugnazione a critica vincolata. V. ancora Cass. sez. un. civ. n. 27199 del 16/11/2017: gli artt. 342 e 434 c.p.c., nel testo formulato dal D.L. n. 83 del 2012, conv. con modif. dalla L. n. 134 del 2012, vanno interpretati nel senso che l’impugnazione deve contenere, a pena di inammissibilità, una chiara individuazione delle questioni e dei punti contestati della sentenza impugnata e, con essi, delle relative doglianze, affiancando alla parte volitiva una parte argomentativa che confuti e contrasti le ragioni addotte dal primo giudice, senza che occorra l’utilizzo di particolari forme sacramentali o la redazione di un progetto alternativo di decisione da contrapporre a quella di primo grado, tenuto conto della permanente natura di “revisio prioris instantiae” del giudizio di appello, il quale mantiene la sua diversità rispetto alle impugnazioni a critica vincolata);

alla stregua, inoltre, delle anzidette coerenti e logiche nonchè chiare argomentazioni contenute della sentenza impugnata, che non risulta aver trascurato alcuna significativa circostanza fattuale, la motivazione dell’impugnata pronuncia risulta del tutto adeguata e sufficiente secondo il minimo costituzionale a tale scopo occorrente, non rilevando per contro ex art. 360 c.p.c., n. 5, al riguardo le emergenze istruttorie, di cui la ricorrente assume l’omessa considerazione, tenuto conto invece dell’articolato e complessivo ragionamento decisorio in fatto ed in diritto operato dalla Corte di merito, soprattutto per quanto concerne l’inconsistenza dei progetti in questione. D’altro canto, nemmeno rileva l’asserita identità della posizione relativa alla sig.ra M., laddove nella specie interessava esclusivamente l’azione di accertamento negativo delle pretese contributive vantate dall’I.N.P.S. soltanto per i lavoratori B. e L., sicchè il ragionamento decisorio in proposito effettuato non può esser contestato, nè svilito con riferimento ad in terzo, per il quale l’ente previdenziale non abbia (nell’ambito delle sue scelte eminentemente discrezionali) in sede di accertamento amministrativo ritenuto di non accampare analoghe pretese;

deve, pertanto, ribadirsi il principio secondo cui in tema di ricorso per cassazione per vizi della motivazione della sentenza, il controllo di logicità del giudizio del giudice di merito non equivale alla revisione del ragionamento decisorio, ossia dell’opzione che ha condotto tale giudice ad una determinata soluzione della questione esaminata, posto che ciò si tradurrebbe, pur a fronte di un possibile diverso inquadramento degli elementi probatori valutati, in una nuova formulazione del giudizio di fatto, come tale insindacabile in sede di legittimità (v. tra le altre Cass. I civ. n. 16526 del 5/8/2016. Cfr. altresì Cass. III civ. n. 5066 del 5/3/2007: il ricorso per cassazione, con il quale si facciano valere vizi della motivazione della sentenza, deve contenere la precisa indicazione di carenze o di lacune nelle argomentazioni sulle quali si basano la decisione – o il capo di essa – censurata, ovvero la specificazione di illogicità, o ancora la mancanza di coerenza fra le varie ragioni esposte, e quindi l’assoluta incompatibilità razionale degli argomenti e l’insanabile contrasto degli stessi, mentre non può farsi valere il contrasto dell’apprezzamento dei fatti compiuto dal giudice di merito con il convincimento e con le tesi della parte, poichè, diversamente opinando, il motivo di ricorso di cui all’art. 360 c.p.c., n. 5, finirebbe per risolversi in una richiesta di sindacato del giudice di legittimità sulle valutazioni riservate al giudice di merito.

V. inoltre, più recentemente, Cass. II civ. n. 27415 del 29/10/2018, secondo cui l’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, riformulato dal D.L. n. 83 del 2012, art. 54, conv. in L. n. 134 del 2012, introduce nell’ordinamento un vizio specifico denunciabile per cassazione, relativo all’omesso esame di un fatto storico, principale o secondario, la cui esistenza risulti dal testo della sentenza o dagli atti processuali, che abbia costituito oggetto di discussione tra le parti e abbia carattere decisivo, di guisa che l’omesso esame di elementi istruttori non integra, di per sè, il vizio di omesso esame di un fatto decisivo qualora il fatto storico, rilevante in causa, sia stato comunque preso in considerazione dal giudice, ancorchè la sentenza non abbia dato conto di tutte le risultanze probatorie.

Analogamente, secondo Cass. sez. un. civ. nn. 8053 e 8054 del 7/4/2014, secondo cui inoltre, nel rigoroso rispetto delle previsioni dell’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 6 e art. 369 c.p.c., comma 2, n. 4, il ricorrente deve indicare il “fatto storico”, il cui esame sia stato omesso, il “dato”, testuale o extratestuale, da cui esso risulti esistente, il “come” e il “quando” tale fatto sia stato oggetto di discussione processuale tra le parti e la sua “decisività”, fermo restando che l’omesso esame di elementi istruttori non integra, di per sè, il vizio di omesso esame di un fatto decisivo qualora il fatto storico, rilevante in causa, sia stato comunque preso in considerazione dal giudice, ancorchè la sentenza non abbia dato conto di tutte le risultanze probatorie. Inoltre, secondo le Sezioni unite di aprile 2014, la succitata riformulazione dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, va interpretata, alla luce dei canoni ermeneutici dettati dall’art. 12 preleggi, come riduzione al “minimo costituzionale” del sindacato di legittimità sulla motivazione. Di conseguenza, è denunciabile in cassazione soltanto l’anomalia motivazionale che si tramuta in violazione di legge costituzionalmente rilevante, in quanto attinente all’esistenza della motivazione in sè, purchè il vizio risulti dal testo della sentenza impugnata, a prescindere dal confronto con le risultanze processuali. Tale anomalia si esaurisce nella “mancanza assoluta di motivi sotto l’aspetto materiale e grafico”, nella “motivazione apparente”, nel “contrasto irriducibile tra affermazioni inconciliabili” e nella “motivazione perplessa ed obiettivamente incomprensibile”, esclusa qualunque rilevanza del semplice difetto di “sufficienza” della motivazione.

V. altresì Cass. Sez. 6-5, ordinanza n. 13977 del 23/05/2019: ricorre il vizio di motivazione apparente della sentenza, denunziabile in sede di legittimità ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, quando essa, benchè graficamente esistente, non renda, tuttavia, percepibile il fondamento della decisione, perchè recante argomentazioni obiettivamente inidonee a far conoscere il ragionamento seguito dal giudice per la formazione del proprio convincimento, non potendosi lasciare all’interprete il compito di integrarla con le più varie, ipotetiche, congetture. In senso conforme Cass. sez. un. 22232 del 2016);

tanto precisato, vanno disattese le altre rimanenti censure, dovendosi considerare esaurienti, in fatto ed in diritto, le surriferite argomentazioni in base alle quali gli anzidetti progetti non risultavano validi secondo la disciplina di cui al D.Lgs. n. 276 del 2003, ancorchè in base al testo nella specie ratione temporis applicabile, dovendosi richiamare in proposito la giurisprudenza di questa Corte formatasi in materia, di modo che finiscono anche con l’essere irrilevanti le emergenze istruttorie, una volta confermata la presunzione assoluta della subordinazione nel caso di progetto non rispondente ai requisiti di legge per potersi considerare specifico, secondo le conclusioni cui del resto è pervenuta la Corte territoriale nello specifico caso in esame (cfr. tra le altre Cass. lav. di cui all’ordinanza n. 9471 del 23/01 – 4/4/2019, che rigettava analogo ricorso avverso altra pronuncia della Corte d’Appello di Firenze, affermando tra l’altro il principio che in tema di contratto a progetto il regime sanzionatorio previsto dal D.Lgs. n. 276 del 2003, art. 69, comma 1 – nel testo “ratione temporis” applicabile, anteriore alle modifiche apportate dalla L. n. 92 del 2012 – in caso di assenza di specifico progetto, programma di lavoro o fase di esso – determinante l’automatica conversione a tempo indeterminato, con applicazione delle garanzie del lavoro dipendente e senza necessità di accertamenti giudiziali sulla natura del rapporto – non contrasta con il principio di “indisponibilità del tipo”, posto a tutela del lavoro subordinato e non invocabile nel caso inverso, nè con l’art. 41 Cost., comma 1, in quanto trae origine da una condotta datoriale violativa di prescrizioni di legge ed è coerente con la finalità antielusiva perseguita dal legislatore. Nella specie ivi esaminata il giudice di primo grado aveva accolto le opposizioni proposte avverso cartelle esattoriali aventi ad oggetto richieste di contributi sulla base di verbali di accertamento della Direzione provinciale del lavoro, che aveva qualificato una serie di collaborazioni a progetto aventi ad oggetto lo svolgimento di attività di operatori di call center come prestazioni di lavoro subordinato. La Corte d’Appello fiorentina in accoglimento delle restanti impugnazioni, proposte dall’I.N.P.S., aveva invece rigettato le opposizioni, argomentando che per la specificità del progetto ai sensi del D.Lgs. n. 276 del 2003, artt. 61 e 69, occorreva che questo, pur potendo avere ad oggetto attività rientranti nel normale ciclo produttivo dell’impresa e non necessariamente caratterizzato dalla straordinarietà ed occasionalità, doveva pur sempre distinguersi da essa, costituendo un obiettivo od un tipo di attività che si affianca all’attività principale senza confondersi con essa, ancorchè con essa coordinandosi come suo aspetto specifico o particolare. Per la cassazione della sentenza d’appello i soccombenti avevano proposto ricorso, lamentando tra l’altro con il primo motivo, in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 4, la violazione dell’art. 434 c.p.c., senza che la Corte di merito avesse ritenuto l’inammissibilità del gravame, identico alla memoria di costituzione depositata dall’I.N.P.S. in primo grado. Come secondo motivo era stata dedotta la violazione del D.Lgs. n. 276 del 2003, art. 61, comma 1, nel testo applicabile ratione temporis, mentre la Corte territoriale aveva ritenuto l’invalidità dei progetti per la loro coincidenza con l’oggetto dell’impresa, richiamando anche la riforma del 2012, tuttavia inapplicabile alla fattispecie. Come terzo motivo era stata inoltre dedotta la violazione e falsa applicazione del D.Lgs. n. 276 del 2003, art. 69, in ordine alla opinata inesistenza di un progetto conforme alle prescrizioni dell’art. 61 dello stesso decreto, donde la contestata operatività di una presunzione assoluta di lavoro subordinato. Come quarto motivo era stata invece dedotta la violazione e falsa applicazione degli artt. 2094 e 2222 c.c., per aver la Corte d’Appello avrebbe errato nel ravvisare la subordinazione.

Quindi, con la suddetta ordinanza n. 9471/19 rigettava il primo motivo in base ad argomentazioni analoghe a quelle sopra enunciate. Parimenti, venivano disattese nei seguenti termini, qui per intero condivisi, le ulteriori censure: “…Occorre premettere che nel caso opera la definizione legale del contratto a progetto fornita dal D.Lgs. n. 276 del 2003, art. 61, nel testo originario (poi sostituito dalla L. n. 92 del 2012, art. 1, comma 23, lett. a), modificato dal D.L. n. 83 del 2012, art. 24 bis, comma 7, conv. in L. n. 134 del 2012, ed ancora dal D.L. n. 76 del 2013, art. 7, comma 2, lett. c), conv. in L. n. 99 del 2013, ed infine, abrogato dal D.Lgs. n. 81 del 2015, art. 52, di attuazione del c.d. Jobs Act) in base al quale per la configurazione della fattispecie, oltre alla presenza di tutti i caratteri della già nota figura delle collaborazioni continuative e coordinate, è necessaria la riconducibilità dell’attività “a uno o più progetti specifici o programmi di lavoro o fasi di esso determinati dal committente e gestiti autonomamente dal collaboratore in funzione del risultato, nel rispetto del coordinamento con la organizzazione del committente e indipendentemente dal tempo impiegato per l’esecuzione dell’attività lavorativa”. 13. Questa Corte, con riferimento al medesimo testo della disposizione, ha chiarito (Cass. n. 24739 del 2017, Cass. n. 10135 del 26.4.2018) che la nozione di “specifico progetto”, quale deriva dall’esegesi normativa, deve ritenersi consistere – tenuto conto delle precisazioni introdotte dalla L. n. 92 del 2012, art. 61 cit. – in un’attività produttiva chiaramente descritta ed identificata e funzionalmente ricollegata ad un determinato risultato finale, cui partecipa con la sua prestazione il collaboratore, precisando tuttavia che la norma non richiede che il progetto specifico debba inerire ad una attività eccezionale, originale o del tutto diversa rispetto alla ordinaria e complessiva attività di impresa. 14. Il progetto concordato non può comunque consistere nella mera riproposizione dell’oggetto sociale della committente, e dunque, nella previsione di prestazioni, a carico del lavoratore, coincidenti con l’ordinaria attività aziendale (Cass. n. 17636 del 06/09/2016), in quanto i termini in questione non possono che essere intesi – pena il sostanziale svuotamento della portata della norma – come volti ad enucleare il contenuto della collaborazione in un quid distinto dalla mera messa a disposizione di energie lavorative nell’attuazione delle ordinarie attività aziendali.

15. Nè diversa interpretazione potrebbe attribuirsi all’espressa possibilità (successivamente venuta meno) che il progetto si riferisca ad una “fase” del lavoro, considerato che è proprio il riferimento ad una porzione, ad un ben individuato segmento dell’attività produttiva, che vale a connotare il progetto di una sua individualità rispetto ad essa. 16. Risulta dunque corretta la statuizione della Corte di merito, basata sulla ritenuta assenza di un valido progetto per la sua coincidenza con l’ordinaria attività aziendale, nell’accertato difetto di alcuna distinzione qualitativa, quantitativa o temporale, rispetto ad essa. 17. Il riferimento operato in sentenza alle modifiche apportate dalla L. n. 82 del 2012, non è stato poi determinante della decisione, in quanto la stessa Corte ribadisce che essa è inoperante ratione temporis, pur aggiungendo che conforta l’opzione interpretativa già desumibile dal testo precedente. 18. Infondato è parimenti il terzo motivo: l’assenza del progetto di cui al D.Lgs. n. 276 del 2003, art. 69, comma 1, che rappresenta un elemento costitutivo della fattispecie, ricorre sia quando manchi la prova della pattuizione di alcun progetto, sia allorchè il progetto, effettivamente pattuito, risulti privo delle sue caratteristiche essenziali, quali la specificità e l’autonomia (Cass. n. 8142 del 29/03/2017). 19. La disposizione (nella versione “ratione temporis” applicabile, antecedente le modifiche di cui alla L. n. 92 del 2012, art. 1, comma 23, lett. f)), si interpreta poi nel senso che, quando un rapporto di collaborazione coordinata e continuativa sia instaurato senza l’individuazione di uno specifico progetto, programma di lavoro o fase di esso, non si fa luogo ad accertamenti volti a verificare se il rapporto si sia esplicato secondo i canoni dell’autonomia o della subordinazione, ma ad automatica conversione in rapporto di lavoro subordinato a tempo indeterminato, sin dalla data di costituzione dello stesso (Cass. n. 17127 del 17/08/2016 e, ancora da ultimo, Cass. n. 28156 del 5/11/2018). 20. I dubbi di compatibilità costituzionale prospettati dai ricorrenti trovano adeguata soluzione solo osservandosi che nel caso non vengono sottratti al giudice i poteri di qualificazione del rapporto, ma viene introdotta una sanzione che consiste nell’applicazione al rapporto delle garanzie del lavoro dipendente. La Corte Costituzionale, con le sentenze 25 marzo 1993, n. 121 e 23 marzo 1994, n. 115 ha escluso che rispettivamente il legislatore o le parti possano imporre presunzioni o qualificazioni contrattuali di autonomia che sottraggono alle indefettibili garanzie del lavoro subordinato una fattispecie che come tale si realizza. Il principio di “indisponibilità del tipo” è stato quindi dettato al fine di evitare sottrazioni di tutele al lavoro subordinato, ed è sorretto da una ragione verosimilmente univoca e non invocabile nel caso inverso. D’altra parte, il nostro ordinamento non è estraneo alla previsione dell’applicazione delle regole del lavoro subordinato come sanzione in caso di violazioni, elusioni, abusi di determinate forme di contratti di lavoro (v. della L. n. 1369 del 1960, art. 1, comma 5, L. n. 230 del 1962, art. 1). 21. La previsione non può infine ritenersi in contrasto con l’art. 41 Cost., comma 1, in quanto trae origine da una condotta posta in essere dal datore di lavoro e violativa di prescrizioni di legge, nè inadeguata, essendo coerente con il fine del legislatore, di perimetrare il potere di stipulare contratti a progetto per evitare l’elusione delle tutele predisposte per il lavoro subordinato. 22. Le considerazioni che precedono determinano l’assorbimento del quarto motivo, escludendo l’accoglimento del terzo la necessità di indagare in ordine alle effettive modalità con cui si è realizzato il rapporto di lavoro”. In senso analogo si è pronunciata questa Corte anche con l’ordinanza n. 12647 del 5/2 – /05/2019 rigettando il ricorso contro l’impugnata pronuncia resa dalla Corte di Appello di Roma, di riforma della sentenza di primo grado, con riferimento a rapporto di lavoro instauratosi quantomeno dall’ottobre 2004, epoca della sottoscrizione del contratto stipulato per la durata di un anno, di collaborazione per la prestazione di opera artistica e professionale senza vincolo di subordinazione per fornire consulenza, contratto in seguito prorogato sino al 14 ottobre 2006. Successivamente venne sottoscritto un altro contratto con scadenza maggio 2007, qualificato di lavoro autonomo per lo svolgimento del ruolo di presentatore televisivo. Non era stata condivisa la soluzione del primo giudice di escludere la collaborazione coordinata e continuativa dell’attività professionale prestata dall’attore. Soprattutto per evitare gli abusi cui tale figura aveva dato luogo, il legislatore intervenuto con il D.Lgs. n. 276 del 2003 (e ancora più recentemente con la L. n. 92 del 2012), con l’art. 61, comma 1. Dalla lettura delle pattuizioni contrattuali inserite nell’accordo del 18 ottobre 2004 emergeva lo stabile e continuo inserimento nell’organizzazione aziendale e il coordinamento con la stessa, nonchè il carattere personale della prestazione. Il rapporto intercorso tra le parti andava dunque qualificato come collaborazione coordinata e continuativa, con conseguente operatività della disposizione di cui al D.Lgs. n. 276 del 2003, art. 61, che al comma 1, sancisce l’obbligo legale di ricondurre detta collaborazione nell’ambito di un progetto, obbligo rimasto però inadempiuto per l’intera durata del rapporto. Trovava così applicazione l’art. 69, comma 1, circa una presunzione assoluta della natura subordinata del rapporto di lavoro, trattandosi di una vera e propria sanzione per il caso di mancata riconducibilità del rapporto coordinato e continuativo ad uno specifico progetto o programma, stante la finalità antielusiva e antifrodatoria della disciplina. Una volta accertata la violazione, non era quindi nemmeno ammissibile un accertamento volto a verificare se la prestazione si fosse in concreto svolta secondo i canoni della subordinazione in quanto, accertata l’assenza dell’elemento qualificante il nuovo tipo legale, automaticamente operava la conversione del contratto e si applica ope legis la integrale disciplina del rapporto di lavoro subordinato. Non poteva accogliersi la tesi secondo cui l’assenza del progetto comporterebbe una mera presunzione semplice della subordinazione. La fattispecie sanzionatoria di cui dell’art. 69 citato, comma 1, operava automaticamente di diritto la conversione del contratto di lavoro a progetto in caso di assenza di un “progetto, programma o fase di programma”, alla luce la previsione normativa anteriore alla riforma introdotta L. n. 92 del 2012, cui la controversia era sottratta ratione temporis. Una diversa opzione interpretativa sarebbe stata del tutto incoerente con il complessivo assetto della nuova disciplina e tale da tradire la sua impronta antielusiva e antifrodatoria, pure considerato che la Corte costituzionale nella sentenza n. 399 del 2008 aveva affermato che la novità introdotta dalla riforma era proprio quella di vietare rapporti di collaborazione coordinata e continuativa che, pur avendo ad oggetto genuine prestazioni di lavoro autonomo, non siano riconducibili ad un progetto. Secondo la Corte capitolina, la soluzione ermeneutica adottata traeva ulteriore conferma dalla circostanza che la L. n. 92 del 2012, art. 1, comma 24, aveva dettato una norma di interpretazione autentica del D.Lgs. n. 276 del 2003, art. 69, comma 1, prevedendo che tale disposizione si intendeva nel senso che l’individuazione di uno specifico progetto costituiva elemento essenziale di validità del rapporto di collaborazione coordinata e continuativa, la cui mancanza determinava la costituzione di rapporti di lavoro subordinato a tempo indeterminato, mentre il successivo comma 25, secondo cui la disposizione anzidetta si applicava ai contratti stipulati successivamente all’entrata in vigore della norma, non incideva sulla natura della presunzione – assoluta – dettata dalla norma interpretata, ma sulla introduzione di una regola espressa di validità del contratto. Per la cassazione di tale sentenza la società soccombente aveva proposto ricorso affidato a quattro motivi, con il primo denunciando plurime violazioni di legge – artt. 2697 e 416 c.p.c., art. 2222 c.c. e D.Lgs. n. 276 del 2003, art. 61; art. 1362 c.c. – e omesso esame di elementi decisivi della controversia, oggetto di discussione tra le parti. Con il secondo motivo, veniva lamentata la violazione del D.Lgs. n. 276 del 2003, art. 69, per avere la Corte territoriale ritenuto che il comma 1 di tale articolo, nella formulazione vigente prima delle modifiche apportate dalla L. n. 92 del 2012, avesse introdotto un principio di presunzione assoluta – e non semplice – circa la natura subordinata del rapporto di lavoro in caso di mancanza di un progetto specifico, e ciò anche con riguardo ai contratti riconducibili a fattispecie di lavoro autonomo. Il terzo motivo denunciava violazione dell’art. 112 c.p.c. e dell’art. 24 Cost., nonchè dell’art. 2103 c.c.. Infine, la quarta censura riguardava il preteso omesso esame di circostanze decisive in relazione alla cessazione del rapporto di lavoro. Le anzidette doglianze venivano però respinte siccome infondate, in particolare nei seguenti termini: “…la tesi della società ricorrente omette di considerare la ratio e la finalità della disciplina introdotta dal D.Lgs. n. 276 del 2003, artt. 61 e segg.. Secondo la Corte costituzionale (sent. n. 399 del 2008), il D.Lgs. n. 276 del 2003, ha introdotto una disciplina restrittiva per il particolare tipo di lavoro autonomo costituito dalle collaborazioni coordinate e continuative. Al di fuori delle eccezioni previste dall’art. 1, comma 2, e dall’art. 61, commi 1, 2 e 3, questo tipo di contratto può essere stipulato solamente se sia riconducibile ad uno o più progetti specifici o a programmi di lavoro o fasi di esso determinati dal committente e gestiti autonomamente dal collaboratore (art. 61, comma 1). La novità così introdotta a regime dal D.Lgs. n. 276 del 2003, è quella di vietare rapporti di collaborazione coordinata e continuativa che, pur avendo ad oggetto genuine prestazioni di lavoro autonomo, non siano però riconducibili ad un progetto. 7.3. Come correttamente ritenuto nella sentenza impugnata, l’art. 69, comma 1, costituisce una norma che sanziona la violazione del disposto del D.Lgs. n. 276 del 2003, art. 61, comma 1, il quale ha introdotto nell’ordinamento giuridico un comando inderogabile, che impone ai privati, salve le deroghe legalmente ammesse (art. 61, commi 2 e 3), di servirsi esclusivamente del lavoro a progetto per regolare ogni forma di lavoro autonomo e coordinato, sicchè il divieto di rapporti di collaborazione coordinata e continuativa, ancorchè genuinamente autonomi, ma privi di progetto risulta giustificato dalla loro contrarietà alla norma imperativa che prescrive l’obbligo di servirsi del nuovo tipo legale (art. 1418 c.c., comma 1). In assenza dell’elemento qualificante del nuovo tipo contrattuale, opera la conversione del contratto e trova applicazione integrale la disciplina del rapporto di lavoro subordinato. 7.4. Del pari, è condivisibile l’ulteriore considerazione, contenuta nella sentenza impugnata, secondo cui il meccanismo di conversione legale risulta comune ad altre ipotesi in cui il legislatore non si limita a prevedere la mera nullità ex art. 1418 c.c., comma 1, ma, in considerazione della peculiarità degli interessi da tutelare, modificando lo schema causale scelto dalle parti, lo trasforma in un contratto con causa tipica differente, prescindendo dal giudizio di comparazione tra lo scopo originario e lo scopo realizzabile mediante il contratto convertito…. Quanto poi all’accertamento, su cui la sentenza si fonda, della natura della prestazione, ritenuta integrante una forma di collaborazione coordinata e continuativa, ossia una fattispecie rientrante nell’alveo dell’art. 409 c.p.c., n. 3, è sufficiente rilevare che trattasi di un accertamento di merito condotto dalla Corte territoriale alla stregua delle risultanze documentali e testimoniali, di cui la sentenza ha dato conto… 10.1. Il regime di cui al D.Lgs. n. 276 del 2003, art. 69, comma 1, sanziona il rapporto di collaborazione coordinata e continuativa instaurato senza l’individuazione di uno specifico progetto, realizzando un caso di c.d. conversione del rapporto ope legis, restando priva di rilievo l’appurata natura autonoma dei rapporti in esito all’istruttoria (Cass. n. 12820 del 2016). Si è in presenza di un’ipotesi di presunzione assoluta, che non richiede quindi alcun ulteriore accertamento istruttorio: una volta ritenuta sussistente un’ipotesi di collaborazione coordinata e continuativa in assenza di specifico progetto, opera la conversione de iure del rapporto (v. pure Cass. n. 17127 del 2016; v. pure, Cass. n. 4337 del 2018)….”. Analoghe argomentazioni si rinvengono pure nell’ordinanza di questa Corte n. 9483 del 5/02 – 4/4/2019, laddove veniva in particolare pure disatteso il primo motivo di ricorso, laddove si denunciava violazione e falsa applicazione del D.Lgs. n. 276 del 2003, art. 69, in relazione alla L. n. 92 del 2012, artt. 24 e 25, per avere la Corte territoriale ritenuto che, in assenza di un valido progetto o programma, operasse una presunzione assoluta – juris et de iure – anzichè una presunzione semplice – juris tantum – in fattispecie regolata dalla disciplina legale anteriore alla L. n. 92 del 2012: “…3.1. Premesso che l’argomento utilizzato nella sentenza impugnata riguardo alla norma di interpretazione autentica introdotta dalla L. n. 92 del 2012, art. 1, comma 24, ha una valenza meramente rafforzativa e confermativa di una lettura che la Corte territoriale ha già ritenuto presente nel sistema di cui al D.Lgs. n. 276 del 2003, l’interpretazione e l’applicazione del D.Lgs. n. 276 del 2003, art. 69, comma 1, alla fattispecie è conforme alla giurisprudenza di questa Corte…. 3.2. Con orientamento che qui si intende confermare, è stato affermato che il regime sanzionatorio articolato dal D.Lgs. n. 276 del 2003, art. 69, pur imponendo in ogni caso l’applicazione della disciplina del rapporto di lavoro subordinato, contempla due distinte e strutturalmente differenti ipotesi, atteso che, al comma 1, sanziona il rapporto di collaborazione coordinata e continuativa instaurato senza l’individuazione di uno specifico progetto, realizzando un caso di c.d. conversione del rapporto ope legis, restando priva di rilievo l’appurata natura autonoma dei rapporti in esito all’istruttoria, mentre al comma 2 disciplina l’ipotesi in cui, pur in presenza di uno specifico progetto, sia giudizialmente accertata, attraverso la valutazione del comportamento delle parti posteriore alla stipulazione del contratto, la trasformazione in un rapporto di lavoro subordinato in corrispondenza alla tipologia negoziale di fatto realizzata tra le parti (Cass. n. 12820 del 2016). In particolare, quanto alla fattispecie di cui del D.Lgs. n. 276 del 2003, art. 69, comma 1 (ratione temporis applicabile, nella versione antecedente le modifiche di cui alla L. n. 92 del 2012, art. 1, comma 23, lett. f)), questa Corte ha precisato che tale norma si interpreta nel senso che, quando un rapporto di collaborazione coordinata e continuativa sia instaurato senza l’individuazione di uno specifico progetto, programma di lavoro o fase di esso, non si fa luogo ad accertamenti volti a verificare se il rapporto si sia esplicato secondo i canoni dell’autonomia o della subordinazione, ma ad automatica conversione in rapporto di lavoro subordinato a tempo indeterminato, sin dalla data di costituzione dello stesso (Cass. n. 17127 del 2016; v. pure, Cass. n. 4337 del 2018). 3.3. Secondo la Corte costituzionale (sent. n. 399 del 2008), il D.Lgs. n. 276 del 2003 ha introdotto una disciplina restrittiva per il particolare tipo di lavoro autonomo costituito dalle collaborazioni coordinate e continuative. Al di fuori delle eccezioni previste dall’art. 1, comma 2, e dall’art. 61, commi 1, 2 e 3, questo tipo di contratto può essere stipulato solamente se sia riconducibile ad uno o più progetti specifici o a programmi di lavoro o fasi di esso determinati dal committente e gestiti autonomamente dal collaboratore (art. 61, comma 1)…. 3.4. Del pari è condivisibile l’ulteriore considerazione, contenuta nella sentenza impugnata, secondo cui il meccanismo di conversione legale risulta comune ad altre ipotesi in cui il legislatore non si limita a prevedere la mera nullità ex art. 1418 c.c., comma 1, ma, in considerazione della peculiarità degli interessi da tutelare, modificando lo schema causale scelto dalle parti, lo trasforma in un contratto con causa tipica differente, prescindendo dal giudizio di comparazione tra lo scopo originario e lo scopo realizzabile mediante il contratto convertito. Parimenti, v. pure Cass. lav. n. 5418 del 18/10/2018 – 25/02/2019, secondo cui la definizione legale di cui al D.Lgs. n. 276 del 2003, art. 61, richiede la riconducibilità dell’attività ad un progetto o programma specifico – senza alcuna differenza concettuale tra i due termini – il cui contenuto, sebbene non inerente ad una attività eccezionale, originale o del tutto diversa rispetto alla ordinaria attività di impresa, sia comunque suscettibile di una valutazione distinta da una “routine” ripetuta e prevedibile, dettagliatamente articolato ed illustrato con la preventiva individuazione di azioni, tempi, risorse, ruoli e aspettative di risultato, e dunque caratterizzato da una determinata finalizzazione, anche in termini di quantità e tempi di lavoro. Nella specie, quindi, è stata cassata la decisione di merito che aveva ritenuto sufficiente ad integrare il requisito distintivo del progetto la riferibilità dell’attività di arredatore svolta dal ricorrente ad una specifica produzione televisiva…. è ormai consolidato l’orientamento di questa Corte secondo cui in tema di lavoro a progetto, il D.Lgs. n. 276 del 2003, art. 69, comma 1 (ratione temporis applicabile, nella versione antecedente le modifiche di cui alla L. n. 92 del 2012, art. 1, comma 23, lett. f)), si interpreta nel senso che, quando un rapporto di collaborazione coordinata e continuativa sia instaurato senza l’individuazione di uno specifico progetto, programma di lavoro o fase di esso, non si fa luogo ad accertamenti volti a verificare se il rapporto si sia esplicato secondo i canoni dell’autonomia o della subordinazione, ma ad automatica conversione in rapporto di lavoro subordinato a tempo indeterminato, sin dalla data di costituzione dello stesso; tale condivisibile orientamento appare aderente alla sentenza n. 399/2008 con la quale la Corte Costituzionale… vige, in sostanza, una presunzione assoluta della subordinazione in caso di mancanza di tale specifico progetto, programma di lavoro o fase di esso del progetto;… “1; pertanto, il ricorso va rigettato, tuttavia senza regolamento delle relative spese, visto che l’I.N.P.S. è rimasto intimato, essendosi limitato a depositare soltanto procura speciale in calce alla copia notificata del ricorso stesso;

atteso, comunque, l’esito negativo dell’impugnazione de qua, sussistono i presupposti processuali di cui del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater.

P.Q.M.

La Corte RIGETTA il ricorso. Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello, ove dovuto, per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis.

Così deciso in Roma, il 24 ottobre 2019.

Depositato in Cancelleria il 15 luglio 2020

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