Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 15103 del 31/05/2021

Cassazione civile sez. III, 31/05/2021, (ud. 26/01/2021, dep. 31/05/2021), n.15103

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TERZA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.r Magistrati:

Dott. DE STEFANO Franco – Presidente –

Dott. GRAZIOSI Chiara – rel. Consigliere –

Dott. POSITANO Gabriele – Consigliere –

Dott. DELL’UTRI Marco – Consigliere –

Dott. MOSCARINI Anna – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 30141/2018 proposto da:

C.A., elettivamente domiciliato presso l’avv. ANTONIO

PANTALONE, che lo rappresenta e lo difende;

– ricorrente –

contro

P.M., elettivamente domiciliato in ROMA, VIA VAL D’OSSOLA,

100, presso lo studio dell’avvocato MARIO PETTORINO, rappresentato

difeso dall’avvocato STEFANO PETTORINO;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 1043/2018 della CORTE D’APPELLO di NAPOLI,

depositata il 02/03/2018;

udita la relazione della causa svolta nella Camera di consiglio del

26/01/2021 dal Consigliere Dott. CHIARA GRAZIOSI.

 

Fatto

RILEVATO

che:

A seguito di ricorso monitorio di C.A. il Tribunale di Napoli, sezione distaccata di Ischia, emetteva il 15 aprile 2011 decreto ingiuntivo nei confronti di P.M. per il pagamento al ricorrente di Euro 185.000, oltre interessi e spese, in forza di transazione, pattuita l’8 luglio 2010, riguardante un contratto preliminare di vendita del 18 luglio 2008 relativo ad un immobile, nel quale la P. era promittente alienante e il C. promissario acquirente.

La P. si opponeva, adducendo di avere ricevuto dal C. un prestito di Euro 95.000, per cui entro il 30 marzo 2009 avrebbe dovuto restituirne Euro 185.000, di cui 95.000 quale capitale e il resto per interessi, a garanzia del quale prestito, contemporaneamente alla sua erogazione il 18 luglio 2008 si era appunto stipulato un contratto preliminare di vendita, che prevedeva la stipulazione del contratto definitivo il 30 marzo 2009; e in tale contratto preliminare si dava atto del versamento di un acconto di Euro 180.000 da parte del C.. Non avendo potuto restituire il prestito entro detta data, l’opponente era receduta dal contratto preliminare; controparte aveva respinto il recesso, convocandola davanti al notaio per la stipulazione del contratto definitivo. Alla fine le parti avevano stipulato la transazione, di cui l’opponente eccepiva la nullità, perchè relativa a un preliminare illecito in quanto costituente patto commissorio, in subordine chiedendone l’annullamento e chiedendo pure l’accertamento della sussistenza di interessi usurari.

Si costituiva il C., insistendo nella sua pretesa e contestando l’avversa prospettazione.

Il Tribunale rigettava l’opposizione con sentenza del 17 aprile 2014.

La P. proponeva appello, cui il C. resisteva.

La Corte d’appello di Napoli, con sentenza del 2 marzo 2018, accoglieva il gravame, dichiarando nulla la transazione perchè relativa a patto commissorio rappresentato dal contratto preliminare di vendita; e revocando quindi il decreto ingiuntivo.

Il C. ha proposto ricorso, articolato in tre motivi, da cui si è difesa la P. con controricorso.

Diritto

CONSIDERATO

che:

1.1 Il primo motivo, che enuncia di afferire alla nullità della transazione perchè relativa al contratto preliminare, lamenta violazione e falsa applicazione degli artt. 2744,1972 e 1965 c.c., in riferimento all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, nonchè, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, omesso esame di fatto discusso e decisivo.

Il giudice d’appello avrebbe riconosciuto che l’attuale ricorrente era creditore di Euro 180.000, ma nonostante questo dichiarato nulla la transazione in quanto relativa al contratto preliminare; e ciò perchè avrebbe ritenuto erroneamente la sussistenza di un collegamento tra il preliminare e la transazione.

La corte territoriale avrebbe omesso di esaminare un fatto discusso e decisivo, cioè che la transazione non era stata stipulata per il mancato rispetto dell’obbligo della stipulazione definitiva, bensì per la restituzione della caparra, allo scopo di “porre fine ad una lite già instaurata” relativa alla richiesta di sequestro conservativo proposta dal C. al Tribunale di Napoli, sezione distaccata di Ischia, causa R.G. 159/S/2009. Tale procedimento sarebbe “culminato con provvedimento di rigetto”; e “a conclusione di tale giudizio… ed a distanza di quasi un anno” le parti avevano deciso di transigere.

La transazione non sarebbe stata stipulata, come ritenuto dal giudice d’appello, “per conseguire il fine concreto… dell’illecita coercizione del debitore al trasferimento di un bene a scopo di garanzia nella ipotesi di mancato adempimento di una obbligazione assunta”, perchè non vi sarebbe più “alcun riferimento all’obbligo di trasferimento, dandosi anzi atto che il preliminare “incriminato” doveva considerarsi risolto”. Pertanto, secondo il ricorrente, il giudice d’appello “del tutto illegittimamente opera un collegamento tra il preliminare 18.7.2008 e la transazione 8.7.2010, qualificando il primo negozio illecito e, conseguentemente, la seconda nulla” perchè riguardante negozio illecito, così violando l’art. 1972 c.c., in relazione all’art. 2744 c.c..

La transazione “conteneva l’accordo delle parti sulle modalità di restituzione all’esponente delle somme erogate” alla P., “da questa riconosciute nella transazione medesima”; la transazione quindi sarebbe stata “promessa di pagamento, nei termini indicati, e ricognizione di debito, nell’importo specificato, ex art. 1988 c.c., negozio del tutto autonomo… rispetto al preliminare di vendita 18.7.2008”. Perciò la transazione sarebbe stata impugnabile solo ai sensi dell’art. 1972 c.c., comma 2, norma che il giudice d’appello avrebbe violato.

1.2 Il motivo non trascrive alcunchè della transazione, non riportata neanche nella premessa del ricorso, il quale consiste in effetti in un mero assemblaggio della sentenza d’appello. La censura patisce quindi una netta carenza di autosufficienza, che lo conduce all’inammissibilità.

1.3 Per di più, si rileva a questo punto ad abundantiam, quel che prospetta il motivo è illogico. La transazione riguarderebbe il porre fine ad una lite, che però lo stesso ricorrente in seguito afferma essere stata conclusa a proprio sfavore, “a distanza di quasi un anno”; successivamente adduce prima che l’oggetto della lite era la restituzione della caparra, poi in generale la restituzione delle “somme erogate” (peraltro in un posteriore passo del ricorso – nel secondo motivo, come presto si vedrà – emerge che tutte le somme erogate valevano come caparra, si nota per inciso), senza però riportare neppure il contenuto del contratto preliminare, salvo peraltro sostenere, appunto, che la transazione era “del tutto autonoma” rispetto ad esso.

Anche sotto questo profilo il motivo patisce quindi un’evidente inammissibilità.

2.1 Sulla natura di preliminare del contratto del 18 luglio 2008 come “costituente o meno patto commissorio”, il secondo motivo denuncia, ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, violazione e falsa applicazione dell’art. 2744 c.c., nonchè, in riferimento all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, omesso esame di fatto discusso e decisivo.

Qualora si ritenga – come in effetti il giudice d’appello ha ritenuto – sussistente un collegamento tra la transazione e il contratto preliminare, dovrebbe essere “chiarita” la natura del preliminare stesso.

Si riporta allora un ampio stralcio della memoria di cui all’art. 183 c.p.c., comma 6, n. 1 (non indicando peraltro chi l’avrebbe depositata, ma logicamente dovrebbe desumersi che sia stato il ricorrente a farlo) quale descrizione dei fatti, per dedurre che da detta esposizione, “corroborata anche dalla documentazione esibita con la memoria” di cui all’art. 183 c.p.c., comma 6, n. 2 (su cui vale, quanto all’identificazione della parte che lo ha depositato, quanto appena osservato per la prima memoria), risulterebbe che l’attuale ricorrente il 29 marzo 2008 aveva acquistato dai promissari acquirenti dell’immobile del P. con un altro contratto preliminare, tali G., S. e R., il loro credito nei confronti della P. stessa rappresentato dalla somma che i suddetti tre le avevano corrisposto come caparra – credito, dunque, insorto anteriormente al contratto preliminare del 18 luglio 2008 -, e che il C. e la P. con il preliminare avevano quindi pattuita la vendita dell’immobile qualificando caparra la somma di cui alla P. era creditore il C., senza “alcuna illecita coercizione del debitore a sottostare alla volontà del creditore, accettando preventivamente il trasferimento del suo bene come conseguenza della mancata estinzione del debito”, e concedendo infatti alla P. (che poi se ne avvalse) la facoltà di recedere dal preliminare (qui si assembla una parte di quel che parrebbe una fotocopia del contratto preliminare). Ne conseguirebbe che il preliminare non sarebbe stato un patto commissorio.

Il giudice d’appello, dunque, avrebbe omesso l’esame di un fatto discusso e decisivo perchè non avrebbe “tenuto in alcun conto quanto dedotto in punto di fatto (e comprovato documentalmente) dall’esponente, e sopra richiamato”. Non sussisterebbe illecita coercizione della debitrice, essendole stato reso possibile il recesso.

Il giudice d’appello, in conclusione, avrebbe erroneamente qualificato patto commissorio il preliminare.

2.2 Il motivo, a ben guardare, risulta di natura del tutto fattuale, e il ricorrente vi utilizza appunto la propria prospettazione fattuale resa in primo grado (peraltro non specificando neppure quale documentazione l’avrebbe corroborata, soltanto riferendosi genericamente alla produzione compiuta nel secondo termine di cui all’art. 183 c.p.c.) per fornire un’alternativa alla ricostruzione operata dal giudice d’appello. Quest’ultimo, comunque, ha tutto integralmente considerato nella ricostruzione dei fatti, inclusa la clausola di recesso e incluso altresì l’acquisto del credito da parte dei tre precedenti “promissari acquirenti”.

Il motivo risulta pertanto inammissibile.

2.3 E inammissibile, d’altronde, risulta anche perchè il preteso fatto decisivo e discusso di cui si addebita al giudice l’omessa considerazione è in realtà una intera ricostruzione fattuale alternativa, così confermando che si è dinanzi al classico perseguimento di un terzo grado di merito.

3.1 La rubrica del terzo motivo enuncia in primis la sussistenza del diritto di credito perchè riconosciuto dalla stessa debitrice “nonostante l’accertamento di illiceità di preliminare costituente patto commissorio”; si denuncia poi “nullità parziale del contratto” nonchè violazione del principio chiesto/pronunciato e violazione e falsa applicazione degli artt. 1419 e 1988 c.c., in relazione agli artt. 112 e 633 c.p.c. e segg., ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3.

Se il preliminare fosse comunque un patto commissorio nullo e al preliminare si riferisse la transazione, deduce il ricorrente che la nullità riguarderebbe solo la presunta obbligazione di trasferimento dell’immobile in caso di mancata restituzione della caparra e l’applicazione della penale di Euro 40.000 prevista per recesso unilaterale dal preliminare, ma non si estenderebbe “al diritto di credito del promissario acquirente”, cioè alla restituzione della somma che costituisce caparra e acconto. Il diritto alla restituzione sarebbe stato infatti riconosciuto nella transazione con promessa di pagamento alle scadenze pattuite.

Sussisterebbe pertanto nullità parziale ai sensi dell’art. 1419 c.c. (e qui si ribadisce che la transazione “non fa alcun riferimento al preliminare”). Sarebbe evidente la violazione da parte del giudice d’appello dell’art. 1419 c.c., essendo stati validamente espressi nella transazione il riconoscimento del debito e la promessa di pagamento.

La corte territoriale avrebbe dunque errato nel revocare il decreto ingiuntivo, validamente emesso su prova scritta. Peraltro) la domanda era introduttiva di un giudizio ordinario ex art. 645 c.p.c., per cui, anche se revocato il decreto ingiuntivo, il giudice avrebbe dovuto pronunciarsi su tutta la domanda ai sensi dell’art. 112 c.p.c., condannando la P., per il riconoscimento del debito e la promessa di pagamento, e comunque per la dazione provata con la produzione di copie di assegni incassati.

In conclusione, la Corte d’appello avrebbe omesso di pronunciare sulla domanda ex art. 112 c.p.c..

3.2 In primis – il motivo racchiudendo due censure – costituisce un novum la questione della nullità parziale, non avendo l’attuale ricorrente mai addotto l’applicabilità dell’art. 1419 c.c., nei due gradi di merito. Si veda, al riguardo, la ricostruzione dei fatti per quanto concerne il primo grado a pagina 3 e per quanto concerne il secondo a pagina 5 della sentenza impugnata – la quale, come già detto, è stata assemblata nella premessa quale ricostruzione della vicenda processuale senza aggiunta alcuna -; e anche nel motivo stesso non sussiste alcuna indicazione di un’antecedente prospettazione del suo contenuto.

E con una siffatta premessa del ricorso – che potrebbe anche renderlo inammissibile per il mero assemblaggio della sentenza impugnata che tale premessa costituisce, in luogo della sommaria esposizione dei fatti di cui all’art. 366 c.p.c., n. 3, il C. ha inequivocamente aderito alla ricostruzione dei fatti svolta dal giudice d’appello.

Ad abundantiam, si rileva che, tra l’altro, nella pagina 2 della sentenza la corte territoriale osserva: “Con la transazione del 08.07.2010 la P. si era riconosciuta debitore del C. della somma di Euro 180.000,00; pertanto, sulla scorta di tale riconoscimento di debito, il C. aveva ottenuto il DI…”. Da questo passo si evince chiaramente che la ricognizione di debito non è mai stata autonoma rispetto alla transazione, bensì ne è stata il vero e proprio nucleo del sinallagma, onde non può salvarsi dalla sua nullità.

3.3 Quanto, poi, al secondo submotivo attinente a pretesa violazione dell’art. 112 c.p.c., deve constatarsi che il giudice d’appello non ha soltanto revocato il decreto ingiuntivo, bensì ha deciso l’intera domanda, proprio perchè ha dichiarato nulla la transazione in base alla quale l’attuale ricorrente, si ripete, aveva ottenuto il decreto ingiuntivo.

Questo submotivo è quindi manifestamente infondato.

4. In conclusione, il ricorso deve essere rigettato, con conseguente condanna del ricorrente alla rifusione a controparte delle spese processuali, liquidate come da dispositivo.

Seguendo l’insegnamento di S.U. 20 febbraio 2020 n. 4315, si dà atto, ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2012, art. 13, comma 1 quater, della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis, se dovuto.

PQM

Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente a rifondere a controparte le spese processuali, liquidate in un totale di Euro 5600, oltre a Euro 200 per gli esborsi, al 15% per spese generali e agli accessori di legge.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello dovuto per il ricorso a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis, se dovuto.

Così deciso in Roma, il 13 gennaio 2021.

Depositato in Cancelleria il 31 maggio 2021

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