Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 15102 del 31/05/2021

Cassazione civile sez. III, 31/05/2021, (ud. 26/01/2021, dep. 31/05/2021), n.15102

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TERZA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. DE STEFANO Franco – Presidente –

Dott. GRAZIOSI Chiara – rel. Consigliere –

Dott. POSITANO Gabriele – Consigliere –

Dott. DELL’UTRI Marco – Consigliere –

Dott. MOSCARINI Anna – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 29174/2018 proposto da:

D.G., e D.I., elettivamente domiciliati in ROMA, VIA

APPIA NUOVA, 612, presso lo studio dell’avvocato SILVIA DENORA, che

li rappresenta e difende;

– ricorrenti –

contro

S.L., e M.M., elettivamente domiciliati in

ROMA, VIA BARNABA TORTOLINI 30, presso lo studio dell’avvocato

ALFREDO PLACIDI, rappresentati e difesi dagli avvocati GIOVANNI

SAVINO, ROBERTO AMODIO;

– controricorrenti –

avverso il provvedimento n. 1124/2017 della CORTE D’APPELLO di BARI,

depositata il 28/08/2017;

udita la relazione della causa svolta nella Camera di consiglio del

26/01/2021 dal Consigliere Dott. CHIARA GRAZIOSI.

 

Fatto

RILEVATO

che:

Con atto di citazione notificato il 16 maggio 2007 i coniugi S.L. e M.M. convenivano davanti al Tribunale di Bari, sezione distaccata di Rutigliano, D.F. perchè ne fosse dichiarata la responsabilità professionale, quale notaio delegato dal Giudice dell’Esecuzione del Tribunale di Bari, per aver redatto il bando d’asta di un immobile di (OMISSIS) come sito in (OMISSIS), in quanto, essendo l’attore proprietario di tre immobili nella medesima via ai numeri civici (OMISSIS), l’affissione di tale bando – con erronea indicazione del numero civico scambiato con il numero dell’interno – avrebbe causato un’errata convinzione negli abitanti del luogo, e quindi causato ai coniugi attori danno di immagine, di onore e di reputazione, di cui chiedevano la conseguente condanna del convenuto al risarcimento.

Il convenuto si costituiva, resistendo e chiedendo, in via riconvenzionale, la condanna al risarcimento di danni degli attori.

Nelle more del giudizio di primo grado essendo deceduto D.F., si costituivano poi i suoi eredi, cioè i figli D.V.C.M., D.A., D.I. e D.G..

Il Tribunale, con sentenza del 25 gennaio 2013, rigettava le domande attoree e condannava gli attori ex art. 96 c.p.c..

I coniugi S. – M. proponevano appello, cui gli eredi D. resistevano.

La Corte d’appello di Bari, con sentenza del 28 agosto 2017, riformava la sentenza limitatamente alla condanna ai sensi dell’art. 96 c.p.c., negando appunto la “condanna al risarcimento del danno ex art. 96 c.p.c.”, e compensando poi le spese di ambo i gradi per “il parziale accoglimento del gravame ed il rigetto, già contenuto nella sentenza di primo grado, della domanda riconvenzionale” dei D., queste essendo “giuste ragioni” della compensazione stessa.

Hanno presentato ricorso D.G. e I., articolandolo in sette motivi e illustrandolo anche con memoria. S.L. e M.M. si sono difesi con controricorso.

Con ordinanza interlocutoria del 30 settembre 2020 è stata ordinata integrazione del contraddittorio nei confronti degli altri due eredi di D.F. quali litisconsorti processuali necessari.

Integratosi il contraddittorio, con memoria del 15 gennaio 2021 D.V.C.M. dichiarava di costituirsi per “spiegare intervento adesivo al ricorso”, concludendo conformemente.

Diritto

CONSIDERATO

che:

In premessa, deve darsi atto che D.V.C.M. non si è costituito ritualmente, non potendosi costituire, neppure a mero scopo di intervento adesivo come egli ha prospettato, mediante quella che lo stesso D.V.C.M. definisce memoria illustrativa ai sensi dell’art. 380 bis.1 c.p.c., occorrendo invece un reale atto costitutivo da notificare alle parti.

1.1 Il primo motivo denuncia, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, violazione dell’art. 112 c.p.c., con “violazione del carattere devolutivo dell’appello”.

La domanda attorea, riproposta in appello, concernerebbe la responsabilità professionale del notaio D.F. per avere redatto il bando d’asta dell’immobile sito in (OMISSIS). Di questo si sarebbe occupato il Tribunale, ma il giudice d’appello avrebbe poi vagliato una fattispecie diversa, cioè la redazione di bando d’asta di immobile in (OMISSIS), e dunque un fatto differente da quello addotto.

Inoltre la responsabilità del notaio sarebbe fondata “sulla ritenuta errata indicazione dei dati catastali”, mentre il giudice d’appello avrebbe “ritenuto che l’unica imprecisione del bando fosse un indirizzo incompleto”.

1.2 La censura può essere qualificata come non autosufficiente, ictu oculi in ordine al contenuto dell’appello; peraltro, non viene neppure riportato alcunchè sul contenuto della sentenza di primo grado, ad eccezione della trascrizione del dispositivo (premessa del ricorso, pagina 5).

Per di più, nella descrizione, svolta nella premessa di ricorso, dell’azione proposta dai coniugi S. – M. si riporta che il notaio – risultando dalla perizia effettuata sull’immobile oggetto di esecuzione che questo era “staggito in (OMISSIS)” – “aveva dunque errato nell’indicazione del numero civico confondendolo con l’interno, ingenerando l’increscioso equivoco” (premessa del ricorso, pagina 3): e proprio sulla confusione tra il numero dell’interno e il numero civico ha argomentato il giudice d’appello nella sua complessiva confutazione del primo motivo del gravame a pagina 4 della sentenza (si rammenta d’altronde che non vale a sorreggere censura un’estrapolazione artificiosa di passi dal contesto motivazionale). Anche qualora non patisse inammissibilità, dunque, il motivo non potrebbe meritare accoglimento, non ravvisandosi nella sentenza impugnata la violazione dell’art. 112 c.p.c..

2.1 Il secondo motivo denuncia, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, violazione dell’art. 342 c.p.c.: l’atto d’appello deve indicare le modifiche chieste sulla ricostruzione del fatto operata dal primo giudice.

Nella sentenza impugnata, a pagina 5, così si afferma: “La ricostruzione delle vicende che hanno originato la controversia nei termini innanzi precisati, che non combacia con quella fatta dal primo giudice, toglie all’azione proposta dagli appellanti quel carattere di assoluta pretestuosità che è apparso al Tribunale”.

Osservano i ricorrenti che ricostruire i fatti diversamente da come li aveva ricostruiti il giudice di prime cure avrebbe permesso al giudice d’appello di riformare la pronuncia quanto alla domanda di cui all’art. 96 c.p.c., ma che, in realtà, “la narrazione delle due Curie non presenta l’asserita divergenza sui fatti costitutivi” dell’abuso attoreo.

2.2 La violazione, in questo motivo denunciata, si riferisce all’art. 342 c.p.c., il quale, come è ben noto, concerne la “forma dell’appello”. Peraltro, la censura in esame, a ben guardare, critica in realtà direttamente la ricostruzione dei fatti operata dai due giudici di merito, ricostruzione che, secondo i ricorrenti, sarebbe stata identica in ordine alla individuazione, effettuata con esito positivo, dei fatti giustificanti l’applicazione dell’art. 96 c.p.c.. Il motivo patisce pertanto un contenuto nettamente eccentrico rispetto alla pretesa violazione dell’art. 342 c.p.c..

D’altronde, non si può non rilevare che – paradossalmente – l’effettivo contenuto di questa censura confligge con il primo motivo, che, come si è visto, aveva affermato che il giudice d’appello si era fondato su fatti diversi da quelli addotti ed esaminati in primo grado.

Il motivo, dunque, sotto entrambi questi profili deve reputarsi inammissibile.

3.1 Il terzo motivo denuncia, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, omesso esame di fatto discusso e decisivo.

L’istanza attorea, presentata al Giudice dell’Esecuzione del Tribunale di Bari, di correzione del bando d’asta, che sarebbe “un elemento di sicura rilevanza”, non sarebbe stata esaminata nella sentenza d’appello.

3.2 Il motivo è manifestamente infondato, dal momento che il giudice d’appello, nell’ultimo capoverso della pagina 4 della sentenza impugnata, ha espressamente considerato anche questo elemento (“Altra considerazione, che rileva ai fini della responsabilità del delegato, è che il Giudice titolare della procedura, investito della questione, esaminava gli atti e rigettava il ricorso dei coniugi S. – M., approvando e ratificando l’operato del suo delegato”).

Ad abundantiam a questo punto, si rileva altresì che la censura stessa qualifica il fatto in questione di sicura rilevanza, ma non, propriamente, “decisivo”.

4.1 Il quarto motivo denuncia, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, violazione dell’art. 96 c.p.c., art. 12 preleggi e art. 3 Cost., per avere il giudice d’appello applicato l’art. 96 c.p.c., negandone la sussistenza dei presupposti.

Ad avviso dei ricorrenti, in effetti “non è chiaro” quale norma sia stata applicata dal Tribunale, in quanto l’art. 96, include “più ipotesi di responsabilità aggravata”. Il Tribunale “si era avvalso dell’espressione “pagamento di una somma”, così applicando l’art. 96 c.p.c., comma 3, mentre la corte territoriale “si esprime su un “risarcimento del danno”, secondo il lessico del comma 1, peraltro senza alcuno scarto rispetto all’atto di appello (che chiede negarsi il risarcimento)”.

Pertanto il giudice d’appello avrebbe sindacato sull’applicazione di una norma in realtà non applicata dal giudice di prime cure, in tal modo violando l’art. 12 preleggi per aver conferito alla norma un significato diverso da quello “fatto palese dal significato proprio delle parole secondo la connessione di esse e dalla intenzione del legislatore”. Il che avrebbe riflesso costituzionale sulla “ragionevolezza delle opzioni esegetiche”, così violando anche l’art. 3 Cost.. La prospettazione viene ampiamente argomentata, rimarcando tra l’altro la differenza di contenuto dell’art. 96 c.p.c., tra commi 1 e 3.

4.2 Il motivo patisce un evidente difetto di autosufficienza: per indicare quale norma fu applicata dal Tribunale (e quindi attestare la divergenza in cui sarebbe caduta, anche a livello interpretativo, la corte territoriale) sarebbe stato necessario riportare ben più della mera espressione “pagamento di una somma”, priva di indicazione del contesto, non venendo i ricorrenti neppure a trascrivere la frase in cui il Tribunale l’avrebbe inserita; e l’espressione “pagamento di una somma” non si rinviene neppure nel dispositivo del Tribunale come riportato nella premessa del ricorso, a pagina 5. Sempre nella premessa del ricorso, d’altronde, come già più sopra si era rimarcato, non è stato riportato alcunchè della motivazione della sentenza di primo grado, essendo unico elemento riportato – e dunque insufficiente – proprio il dispositivo.

Da ciò deriva, conseguentemente, l’inammissibilità della censura.

5.1 Il quinto motivo denuncia, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, nullità della sentenza per motivazione apparente e manifestamente contraddittoria, nonchè assenza di motivazione.

Si censura la conformazione della motivazione della sentenza d’appello, che, menzionando “due approssimazioni invece di una” – il bando e la pubblicità dell’asta -, avrebbe operato “un’inversione metodologica”, sembrando “che la Corte abbia deciso a priori di riformare la condanna per poi apprestare una copertura apparente alla propria decisione”.

Seguono argomentazioni relative alle modalità in cui si sarebbe svolta la vicenda, nonchè l’estrazione di un inciso dalla motivazione che dimostrerebbe il contrario di quanto ricostruito dalla corte territoriale, il tutto per concludere nel senso che tale motivazione sarebbe composta di “elementi e valutazioni contraddittorie prive di qualsiasi razionalità”.

5.2 Si tratta, in realtà, di una censura direttamente fattuale, inammissibilmente intesa ad ottenere dal giudice di legittimità una diversa valutazione de merito. La motivazione con cui il giudice d’appello ha sorretto quanto ha deciso, d’altronde, risulta ictu ocull realmente sussistente e conformata in modo tale da non potersi definire apparente, neppure nel senso di una inaccettabilmente elevata contraddittorietà strutturale (cfr. S.U. 3 novembre 2016 n. 22232).

6.1 Il sesto motivo denuncia, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, violazione dell’art. 96 c.p.c. e L. n. 117 del 1988, art. 2, comma 1.

Il giudice d’appello avrebbe assimilato la posizione del delegato alla vendita a quella del magistrato ai fini della responsabilità civile. La fattispecie astratta di cui alla L. n. 117 del 1988, art. 2, esigerebbe un danno, e su ciò avrebbe invece taciuto la corte territoriale, mentre avrebbe dovuto proprio rilevarne l’assenza.

Al giudice d’appello si attribuisce poi di avere ricostruito “una vicenda ben diversa” da quella prospettata dagli attori ed appellanti e di aver però capovolto incomprensibilmente “il verdetto del primo giudice”. A sostegno di ciò, si offrono argomentazioni relative alla ricostruzione del fatto operata dal giudice d’appello.

6.2 Il motivo, in assoluta evidenza, non è sorretto da interesse, perchè la responsabilità ai sensi della L. n. 117 del 1988, a carico del notaio D. è stata comunque negata dal giudice d’appello (v. sentenza impugnata, pagina 3), e la non condivisione con il Tribunale della condanna per lite temeraria non può certo dirsi che sarebbe mancata se vi fosse stato anche l’accertamento sull’assenza del danno lamentato dagli attori/appellanti. A prescindere, allora, anche dalla natura direttamente fattuale delle argomentazioni rappresentanti la parte finale del motivo, questo risulta quindi inammissibile.

7.1 Il settimo motivo denuncia, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, violazione degli artt. 91 e 92 c.p.c., ed è composto da due submotivi.

In primo luogo, si dà atto che il giudice d’appello ha compensato le spese per entrambi i gradi di giudizio, opponendo però che “la nozione di accoglimento parziale” andrebbe rapportata in modo diverso quanto al capo relativo alla responsabilità aggravata, perchè una decisione contraria all’abuso del processo non integrerebbe rigetto, e quindi non genererebbe una soccombenza parziale.

In secondo luogo, si sostiene che la domanda riconvenzionale risarcitoria presentata in primo grado dal notaio D. sarebbe stata “rinunciata dagli appellati” perchè “non riproposta tra le richieste che chiudono la costituzione in appello” e comunque sarebbe stata rigettata in primo grado per difetto di prova del quantum risarcitorio. L’unica “decisione favorevole agli appellanti” sarebbe stata, pertanto, quella attinente alla lite temeraria, inidonea però a integrare soccombenza di controparte.

7.2 Per ben comprendere il motivo nelle sue appena sintetizzate articolazioni deve anzitutto rilevarsi che nella sentenza impugnata la corte territoriale ha vagliato un gravame il cui terzo motivo riguardava specificamente l’applicazione da parte del giudice di prime cure dell’art. 96 c.p.c., adducendone l’erroneità (si vedano nella sentenza la pagina 2 – che riassume le censure dell’atto d’appello – e poi la pagina 5 – ove si esamina “il terzo motivo d’appello” ritenendolo fondato). Il giudice d’appello, in particolare, ha accolto tale motivo in quanto ha escluso che sussistesse negli attori “l’elemento soggettivo della malafede o della colpa grave richiesto perchè possa procedersi alla condanna ex art. 96 c.p.c.”.

La corte territoriale, dunque, dichiara che il capo della sentenza impugnata relativo alla condanna al risarcimento del danno ex art. 96 c.p.c., deve essere riformato; e subito dopo così si esprime, concludendo la motivazione: “Il parziale accoglimento del gravame ed il rigetto, già contenuto nella sentenza di primo grado, della domanda riconvenzionale avanzata dal notaio D. costituiscono giuste ragioni per compensare integralmente tra le parti le spese del doppio grado del giudizio”.

7.3 I ricorrenti, nella doglianza in esame, non censurano l’accoglimento del terzo motivo d’appello, vale a dire non contestano l’infondatezza della domanda accessoria ex art. 96 c.p.c., riconosciuta dalla corte territoriale, bensì concentrano la propria critica sulle conseguenze che la corte territoriale ne ha tratto in ordine alle spese di lite ponendo tale infondatezza come ragione di compensazione (che sia da intendere per il grado d’appello o per il primo grado unitamente al rigetto di domanda riconvenzionale del notaio D. verrà considerato infra), adducendo, in sostanza, che la condanna per lite temeraria non può mai incidere, in quanto accessoria, sulla – ulteriormente accessoria – decisione relativa alle spese di lite.

7.4 Non si può certo disconoscere che la condanna al risarcimento per lite temeraria o il diniego della condanna stessa costituiscono una decisione accessoria, che dipende dall’esito del vero e proprio thema decidendum cui sono, logicamente prima ancora che giuridicamente, correlati appunto quale conseguenza – che in questo fenomeno processuale assume come sinonimo l’accesssorietà. E al riguardo la giurisprudenza di questa Suprema Corte ha sempre escluso che il diniego della condanna per lite temeraria abbia ricadute sulla decisione relativa all’alternativa conformazione che può investire l’ulteriore decisione accessoria, vale a dire condanna in toto alle spese processuali oppure compensazione parziale o integrale delle spese suddette.

L’art. 96 c.p.c., comma 1, invero non inferisce nel sistema insorgente dal combinato disposto degli artt. 91 e 92 c.p.c.: il che è tanto evidente quanto inevitabile, considerando che l’applicazione del paradigma governante le spese costituisce, se viene concretizzata in condanna integrale alle spese del soccombente, un necessario presupposto della valutazione della sussistenza o meno della fattispecie di cui all’art. 96 c.p.c., comma 1.

7.5 Ciò è stato rimarcato in arresti recenti di questa Suprema Corte, come Cass. sez. L, 10 luglio 2020 n. 14813 – la cui massima così si esprime: “Nel giudizio di cassazione, nel caso di rigetto sia del ricorso che della domanda, meramente accessoria, proposta ex art. 96 c.p.c., dal controricorrente, non ha luogo una ipotesi di pluralità di domande effettivamente contrapposte idonea a determinare una soccombenza parziale o reciproca.” -, la quale in motivazione, trattando appunto un caso in cui veniva rigettato il ricorso e il controricorrente aveva chiesto la condanna ex art. 96 c.p.c., per lite temeraria del ricorrente, osserva: “… va precisato che, nel caso di rigetto della domanda ex art. 96 c.p.c., proposta dal controricorrente, e di rigetto del ricorso, non ha luogo una ipotesi di pluralità di domande effettivamente contrapposte idonea a determinare la soccombenza reciproca… Le questioni su tale capo, da qualificarsi meramente accessorio, non incidono sulla determinazione della soccombenza nemmeno ai fini di temperarla o di qualificarla parziale o reciproca…”.

Ancor più significativa è poi Cass. sez. 3, 15 maggio 2018 n. 18792, che in motivazione confuta puntualmente un arresto che si era discostato dall’orientamento sopra espresso (Cass. sez. 6-2, ord. 14 ottobre 2016 n. 20838: “Il rigetto della domanda ex art. 96 c.p.c., malgrado l’accoglimento di quella principale proposta dalla stessa parte, configura un’ipotesi di soccombenza reciproca idonea a giustificare la compensazione delle spese di lite ai sensi dell’art. 92 c.p.c., atteso che, in applicazione del principio di causalità, sono imputabili a ciascuna parte gli oneri processuali causati all’altra per aver resistito a pretese fondate o per aver avanzato istanze infondate”) come segue:

“Il Collegio ben conosce la sentenza 14/10/2016 n. 20838, con cui questa Corte ha affermato che il rigetto della domanda ex art. 96 c.p.c., malgrado l’accoglimento di quella principale proposta dalla stessa parte, configura un’ipotesi di soccombenza reciproca idonea a giustificare la compensazione delle spese di lite ai sensi dell’art. 92 c.p.c., atteso che, in applicazione del principio di causalità, sono imputabili a ciascuna parte gli oneri processuali causati all’altra per aver resistito a pretese fondate o per aver avanzato istanze infondate.

Questo stesso Collegio, tuttavia, ritiene di aderire al diverso e più recente orientamento espresso dalla giurisprudenza di legittimità, secondo cui il rigetto, in sede di gravame, della domanda, meramente accessoria, ex art. 96 c.p.c., a fronte dell’integrale accoglimento di quella di merito proposta dalla stessa parte, in riforma della sentenza di primo grado, non configura un’ipotesi di parziale e reciproca soccombenza, nè in primo grado nè in appello, sicchè non può giustificare la compensazione delle spese di lite ai sensi dell’art. 92 c.p.c. (Cass. ord. 12/04/2017 n. 9532). Ed invero, stante la natura meramente accessoria della domanda ex art. 96 c.p.c., rispetto all’effettivo tema di lite cui va rapportata la verifica della soccombenza (domanda che presuppone, quale condizione necessaria, anche se non sufficiente, per il suo accoglimento, proprio il riconoscimento della soccombenza integrale della parte cui si attribuisce l’illecito processuale), nel caso – come quello all’esame – di rigetto della domanda ex art. 96 c.p.c., proposta dagli appellati e di rigetto dell’appello (con conseguente conferma del rigetto della domanda proposta in primo grado dagli appellanti) non dà luogo ad una ipotesi di pluralità di domande effettivamente contrapposte idonea a determinare la soccombenza reciproca sulla quale il Tribunale ha fondato la compensazione delle spese di lite di secondo grado”.

7.6 E’ ben evidente, infatti, che l’accessorietà – come già più sopra si lasciava intendere – colloca la domanda di condanna al risarcimento da lite temeraria all’esterno, per così dire, della regiudicanda, venendone a costituire solo una conseguenza, al pari della condanna alle spese di lite, e non, quindi, compartecipando direttamente ad essa. E da ciò discende, appunto, l’impossibilità di integrare una domanda che possa contrapporsi, ai fini della soccombenza reciproca, ad altra domanda che invece fa parte del vero e proprio thema decidendum in diretta relazione/finalizzazione al quale è stato instaurato il processo.

Si entra, pertanto, anche nel paradigma della causazione, che sotto questo profilo deve intendersi come identificativo del thema decidendum del giudizio: il giudizio, infatti, viene instaurato a causa della necessità di decidere su un determinato oggetto, che ne costituisce appunto il vero obiettivo, mentre la decisione sulle spese di lite e sulla temerarietà dell’azione o della resistenza all’azione costituiscono un accessorio della pronuncia, accertatoria e/o costitutiva e/o di condanna, che viene perseguita per il reale oggetto del giudizio.

Nel momento in cui, invece, un grado di giudizio è definito, il criterio per identificare, qualora non si sia raggiunto con esso il giudicato, il contenuto del grado successivo è quello della devoluzione, ovvero dell’oggetto di impugnazione. A tale oggetto devoluto, dunque, deve a questo punto rapportarsi la causazione: se, quindi, una questione in termini di spese di lite come regolate nel presente giudizio o una questione relativa alla concessione o al diniego della condanna per lite temeraria diventano oggetto di un motivo di impugnazione, esse vengono inglobate nel thema decidendum, non rivestendo più alcuna accessorietà (cfr. a proposito dell’impugnazione relativa alle spese liquidate, sempre tra gli arresti più recenti, Cass. sez. 3, ord. 12 aprile 2018 n. 9064, la quale riconosce che la decisione sulle spese della sentenza di primo grado può essere modificata in sede d’appello se oggetto di specifico motivo anche qualora la sentenza non sia per il resto affatto riformata; conforme Cass. sez. L, 1 giugno 2016 n. 11423; all’impugnazione del capo di condanna per lite temeraria Cass. sez 6-3, ord.28 febbraio 2020 n. 5466 nega invece l’ingresso nel thema decidendum – qui dal punto di vista, per così dire, conclusivo della soccombenza -, ma per una evidente influenza della fattispecie che verteva, in sostanza, sulla impugnazione di una compensazione di spese).

Conseguenza, allora, dell’introduzione della condanna o del diniego di condanna per lite temeraria in uno dei motivi dell’impugnazione, e dunque nel devolutum in senso pieno – svincolandosi dall’accessorietà – è che, se tale motivo viene accolto in un contesto in cui gli altri motivi vengono disattesi, non risulta sostenibile che non si configuri una parziale soccombenza. E nella fattispecie in esame, non a caso – si nota comunque meramente ad abundantiam – gli appellati si erano costituiti per difendersi ben consapevoli del contenuto della devoluzione, avendo infatti espressamente e specificamente chiesto – come emerge dalla premessa del ricorso, a pagina 6 – “confermarsi la condanna per responsabilità aggravata inflitta dal primo giudice (in risposta al terzo motivo di appello)”.

7.7 Dirimente è che le questioni relative alla condanna per lite temeraria riguardino una condanna effettuata nella pronuncia conclusiva del grado precedente e quindi siano correttamente veicolate nel devolutum come oggetto di censura nella species di impugnazione proponibile (appello o ricorso per cassazione). Solo in tal caso una decisione sulla lite temeraria, quale accoglimento di una censura devolutiva, genera soccombenza (parziale, se ricorrono altri motivi, non accolti) della controparte.

Nessuna soccombenza in riferimento alla decisione sulla lite temeraria sussiste, invece, nel caso di diniego della condanna ex art. 96 c.p.c., comma 1, pronunciato nello stesso grado in cui la condanna viene richiesta (per completezza si precisa che l’art. 96 c.p.c., comma 3, non configura una domanda accessoria, bensì una fattispecie ufficiosa, che tale rimane anche se la sua applicazione venga comunque proposta da una parte al giudice).

Alla luce di questo principio di diritto il motivo, nella parte sin qui esaminata, risulta pertanto infondato, per quanto concerne appunto il diniego della soccombenza dei D., che invece sussiste, naturalmente in relazione al secondo grado, poichè al giudizio d’appello attiene questa parte della censura. E per tale grado, dunque, la corte territoriale ha legittimamente compensato le spese, in quanto vi si è verificata una soccombenza reciproca, il che genera il potere discrezionale di compensazione, anche integrale – come qui è stato esercitato – di cui all’art. 92 c.p.c., comma 2.

Non può infatti non intendersi come riferita alla compensazione del secondo grado, quale suo sostegno, la conclusiva enunciazione del “parziale accoglimento del gravame”.

7.8 In effetti, la sentenza conclude la propria parte motivazionale con la seguente frase, già sopra riportata: “Il parziale accoglimento del gravame ed il rigetto, già contenuto nella sentenza di primo grado, della domanda riconvenzionale avanzata dal notaio D., costituiscono giuste ragioni per compensare integralmente tra le parti le spese del doppio grado del giudizio”.

Nel secondo submotivo, allora, viene censurata proprio la compensazione delle spese di lite relativa ad entrambi i giudizi: da un lato si ribadisce che il rigetto della domanda di condanna per lite temeraria non può mai costituire soccombenza – e al riguardo si rimanda a quanto appena illustrato a proposito del precedente submotivo -, dall’altro si critica il riferimento alla domanda riconvenzionale risarcitoria, perchè questa, pur rigettata in primo grado, non sarebbe stata più considerabile dalla corte territoriale in quanto “rinunciata dagli appellati” perchè non devoluta (evidentemente inconsistente è invece l’ulteriore argomento che essa non inciderebbe essendo stata rigettata solo per difetto di prova del quantum, poichè ai fini della soccombenza quale sostegno della compensazione delle spese di lite nulla rileva la ragione del disattendimento della domanda considerata).

E’ vero che il giudice d’appello fa riferimento anche ad un elemento che non era nel devolutum, cioè la domanda riconvenzionale risarcitoria del D. che il Tribunale aveva respinto; ma è altrettanto vero che il giudice dell’impugnazione, se riforma, ha il potere-dovere di decidere anche sulle spese del grado precedente, proprio perchè le spese sono oggetto di una pronuncia accessoria, onde vengono “trascinate” dalla riforma della pronuncia principale (da ultimo cfr. Cass. sez. L, ord. 14 gennaio 2019 n. 602 – proprio in un caso affine, in cui il motivo impugnatorio accolto riguardava soltanto le spese processuali – e Cass. sez. 6-3, con ord. 31 agosto 2020 n. 18108), salva naturalmente la necessaria attenzione alla concreta sostanza della riforma (sul c.d. effetto espansivo interno cfr. infatti, ancora da ultimo, Cass. sez. 3, 26 settembre 2019 n. 23985 e Cass. sez. 3, 29 ottobre 2019 n. 27606).

Nel caso in esame, la concisa motivazione offerta dalla corte territoriale, in un’ottica logica e conservativa, non può che essere intesa nel senso che la lite temeraria ha inciso esclusivamente sulla compensazione del secondo grado di giudizio – non potendo incidere sul primo grado, poichè in tale stadio era ancora questione accessoria -, mentre la compensazione del primo grado è stata dalla corte territoriale fondata sul rigetto della domanda risarcitoria proposta in via riconvenzionale dal convenuto, rigetto in tale grado verificatosi e indubbiamente idoneo a generare soccombenza reciproca non costituendo domanda accessoria.

Anche questo submotivo, dunque, non merita accoglimento.

8. In conclusione, il ricorso deve essere rigettato, con conseguente condanna in solido per il comune interesse – dei ricorrenti D.G. e D.I. alla rifusione a controparte delle spese processuali, liquidate come da dispositivo. Non vi è luogo a pronuncia in ordine alle spese nei confronti invece di D.V.C.M. per la irritualità della sua costituzione in giudizio.

Seguendo l’insegnamento di S.U. 20 febbraio 2020 n. 4315 si dà atto, ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2012, art. 13, comma 1 quater, della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte dei ricorrenti D.G. e D.I., di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis, se dovuto.

PQM

Rigetta il ricorso e condanna solidalmente i ricorrenti D.G. e D.I. a rifondere a controparte le spese processuali, liquidate in un totale di Euro 1500, oltre a Euro 200 per gli esborsi, al 15% per spese generali e agli accessori di legge.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte dei ricorrenti D.G. e D.I., dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello dovuto per il ricorso a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis, se dovuto.

Così deciso in Roma, il 26 gennaio 2021.

Depositato in Cancelleria il 31 maggio 2021

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