Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 15098 del 08/07/2011

Cassazione civile sez. lav., 08/07/2011, (ud. 08/06/2011, dep. 08/07/2011), n.15098

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. DE LUCA Michele – Presidente –

Dott. IANNIELLO Antonio – Consigliere –

Dott. AMOROSO Giovanni – Consigliere –

Dott. BANDINI Gianfranco – Consigliere –

Dott. MANNA Felice – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso proposto da:

F.G., elettivamente domiciliato in ROMA, VIA

CONFALONIERI 5, presso lo studio dell’avvocato MANZI LUIGI, che lo

rappresenta e difende unitamente all’avvocato PIZZIGATI MAURO, giusta

delega in atti;

– ricorrente –

contro

MINISTERO DELL’ECONOMIA E DELLE FINANZE, in persona del Ministro pro

tempore, AGENZIA DELL’ENTRATE, in persona del Direttore pro tempore,

domiciliati in ROMA, VIA DEI PORTOGHESI 12, presso AVVOCATURA

GENERALE DELLO STATO, che li rappresenta e difende, ope legis;

– controricorrenti –

avverso la sentenza n. 388/2007 della CORTE D’APPELLO di VENEZIA,

depositata il 04/09/2007, r.g.n. 895/06;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

08/06/2011 dal Consigliere Dott. ANTONIO MANNA;

udito l’Avvocato FEDERICA MANZI per delega LUIGI MANZI;

udito il P.M., in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

MATERA Marcello, che ha concluso per il rigetto del ricorso.

Fatto

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

Con provvedimento del 3.8.03 l’Agenzia delle Entrate – Ufficio di (OMISSIS) licenziava senza preavviso il proprio dipendente B.G. per aver espletato una seconda attività – revisore contabile per conto del Consorzio dei Comuni Bacino Imbrifero Montano del Fiume Piave per la Provincia di Venezia -non previamente autorizzata e comunque incompatibile con il suo status di dipendente dell’amministrazione finanziaria, nonchè per avere a riguardo reso all’amministrazione di appartenenza dichiarazioni non veritiere nel corso di un’indagine ispettiva.

Con sentenza n. 651/06 il Tribunale di Venezia, in accoglimento dell’impugnativa di licenziamento, escludeva l’asserito carattere mendace delle dichiarazioni rese dal lavoratore in sede di indagine ispettiva – per essere cessata l’attività di revisore contabile prima della compilazione del questionario informativo – e comunque riteneva solo parzialmente provato l’addebito relativo alla dedotta incompatibilità (che l’Agenzia delle Entrate avrebbe individuato come tale solo con circolare dell’11.7.01), pervenendo all’annullamento del recesso perchè sproporzionato.

Per l’effetto, condannava l’amministrazione a reintegrare il F. nel posto di lavoro e a corrispondergli le retribuzioni non percepite, detratto l’aliunde perceptum, nonchè a versargli i contributi previdenziali e assistenziali.

Con sentenza 12.6.07 la Corte d’Appello di Venezia, in riforma della statuizione di prime cure, ricostruiva in punto di fatto come fondate entrambe le contestazioni mosse al lavoratore e giudicava proporzionata la sanzione espulsiva, anche in virtù della tipizzazione della giusta causa di licenziamento contenuta nella L. n. 662 del 1996, art. 1, comma 61.

Per l’effetto, rigettava la domanda del F., che per la cassazione di tale ultima sentenza ricorre con due articolati motivi.

Resiste con controricorso l’Agenzia delle Entrate.

Diritto

MOTIVI DELLA DECISIONE

1. Con il primo motivo il ricorrente denuncia violazione ed erronea o falsa applicazione dell’art. 24 CCNL comparto Ministeri del 1995 nella parte in cui la Corte territoriale ha escluso che la violazione dei termini endoprocedimentali – nel caso di specie, l’avvenuta contestazione oltre i 20 giorni dalla conoscenza del fatto – comporti decadenza dalla potestà di irrogare la sanzione medesima. Lamenta, altresì, che l’applicazione della sanzione non è avvenuta entro 15 giorni dalla scadenza del termine a difesa concesso al dipendente e denuncia violazione del suddetto art. 24 anche laddove prescrive che il procedimento disciplinare debba concludersi entro 120 giorni dalla data di contestazione dell’addebito.

1.1. Il motivo è infondato.

1.2. Per consolidata giurisprudenza di questa S.C. (espressamente richiamata dall’impugnata pronuncia), la natura dei termini previsti dall’autonomia collettiva per lo svolgimento dell’iter disciplinare nei rapporti di lavoro pubblico contrattualizzato deve essere definita avuto riguardo allo scopo che essi perseguono nella prospettiva di garantire in concreto il diritto di difesa all’interno del procedimento, con la conseguenza che il carattere della perentorietà non è rinvenibile in tutti i termini che, come quello previsto dall’art. 24 del CCNL comparto Ministeri del 1995 per la contestazione dell’addebito, ne cadenzano l’andamento, ma solo in quello stabilito per la conclusione del procedimento, restando meramente ordinatori i termini interni (con precipuo riferimento al carattere ordinatorio del termine di 20 giorni per la contestazione dell’addebito previsto dall’art. 24 del CCNL comparto Ministeri del 1995, v. da ultimo Cass. Sez. Lav. 10.3.10 n. 5806 e Cass. Sez. Lav.

9.3.09 n. 5637).

1.3. Ne discende che la violazione di termini endoprocedimentali non comporta nullità del provvedimento disciplinare, salvo che il dipendente denunci, con concreto fondamento, l’impossibilità o l’eccessiva difficoltà della propria difesa (cfr. Cass. Sez. Lav.

12.3.10 n. 6091; Cass. Sez. Lav. 11.10.05 n. 19743; Cass. Sez. Lav.

13.4.05 n. 7601; Cass. Sez. Lav. 23.12.04 n. 23900), i che l’odierno ricorrente non ha fatto.

1.4. Dunque, va escluso che nel caso di specie rilevino eventuali violazioni dei termini interni del procedimento.

1.5. Del pari ininfluente risulta il richiamo al termine quindicinale per l’irrogazione della sanzione, decorrente dall’inutile spirare di uguale lasso di tempo dalla convocazione del dipendente nell’ambito del procedimento disciplinare (D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 55, comma 5, ultimo periodo): si tratta, infatti, di termine finale applicabile soltanto quando (e non è questo il caso) il lavoratore non si sia avvalso della facoltà di difendersi (in tal senso è anche la giurisprudenza di questa S.C.: cfr. Cass. Sez. Lav. 28.9.06 n. 21032).

1.6. Quanto all’ulteriore pretesa violazione dell’art. 24 cit. nella parte in cui prescrive che il procedimento disciplinare debba concludersi entro 120 giorni dalla data di contestazione dell’addebito (sostiene il ricorrente che la lettera di licenziamento gli sarebbe pervenuta il 13.9.03), si noti che la gravata sentenza ha invece accertato che la lettera di recesso pervenne il 14.8.03 al domicilio eletto dal F. presso il proprio avvocato (e, poi, al domicilio del ricorrente medesimo il 16.8.03): dunque, risulta rispettato il suddetto termine di 120 giorni a decorrere dalla contestazione, ricevuta dal F. successivamente al 30.4.03.

1.7. Ogni ulteriore argomento a riguardo speso dal ricorrente sollecita soltanto una terza lettura in punto di fatto delle risultanze processuali, operazione preclusa in sede di legittimità.

2. Con il secondo motivo il ricorrente deduce violazione ed erronea o falsa applicazione della L. n. 662 del 1996, art. 60, comma 1 (rectius: art. 1, comma 60) D.Lgs. n. 80 del 1998, art. 26 e D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 53, perchè da essi si evincerebbe la liceità dell’attività extraprofessionale di revisore contabile prima della circolare 11.7.01 e la possibilità di autorizzazione dell’attività medesima, attività che, sempre secondo il ricorrente, sarebbe cessata anteriormente alla compilazione da parte sua del questionario sulle incompatibilità (donde l’inesistenza – ad avviso del F. – del secondo profilo dell’addebito disciplinare, concernente l’aver reso all’amministrazione di appartenenza dichiarazioni non veritiere durante un’indagine ispettiva). Lamenta, altresì, che la Corte territoriale non ha valutato da un lato la gravità dei fatti in relazione alla loro portata oggettiva e soggettiva, alle circostanze in cui sono stati commessi e all’intensità dell’elemento intenzionale e, dall’altro, la proporzione tra i fatti medesimi e la sanzione inflitta alla luce del grado di lesione dell’elemento fiduciario del rapporto di lavoro.

2.1. Anche questo motivo è infondato.

2.2. Sotto il primo profilo si premetta che il D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 53, comma 6 (in cui è confluito il D.Lgs. n. 29 del 1993, art. 58, come modificato dal D.Lgs. n. 80 del 1998, art. 26) espressamente vieta ai dipendenti delle pubbliche amministrazioni con rapporto di lavoro full time (come l’odierno ricorrente) l’espletamento di incarichi retribuiti, anche occasionali, non compresi nei compiti e doveri di ufficio, per i quali sia corrisposto, sotto qualsiasi forma, un compenso.

2.3. A sua volta la L. n. 662 del 1996, art. 1, comma 60, prevede che “Al di fuori dei casi previsti al comma 56, al personale è fatto divieto di svolgere qualsiasi altra attività di lavoro subordinato o autonomo tranne che la legge o altra fonte normativa ne prevedano l’autorizzazione rilasciata dall’amministrazione di appartenenza e l’autorizzazione sia stata concessa”.

2.4. Si tenga presente, ancora, che nel caso di specie non rileva la distinzione fra attività suscettibili di autorizzazione e altre comunque vietate, essendo pacifico inter partes che l’attività di revisore contabile svolta dal ricorrente per conto del Consorzio dei Comuni Bacino Imbrifero Montano del Fiume Piave per la Provincia di Venezia non era stata autorizzata.

2.5. Ne consegue che l’assunto del ricorrente – secondo il quale solo con la circolare 11.7.01 l’Agenzia delle Entrate avrebbe chiarito il divieto di espletare attività di revisore contabile – non ha pregio vuoi perchè, appunto, in ogni caso non vi è stata autorizzazione alcuna (e nemmeno il B. sostiene che, prima di detta circolare, si sarebbe trattato di attività libera e come tale non bisognevole di autorizzazione), vuoi perchè, come esattamente evidenziato dall’impugnata sentenza, in forza del transito del personale dal Dipartimento delle Entrate all’Agenzia delle Entrate per effetto della successione disposta dal D.Lgs. n. 300 del 1999, con esplicita applicazione dell’art. 2112 c.c., già prima dell’11.7.01 il ricorrente era assoggettato al regime delle incompatibilità previsto dalla normativa innanzi rammentata.

2.6. Quanto all’asserita cessazione dell’attività di revisore contabile prima della compilazione del questionario sulle incompatibilità, che il ricorrente fonda su una diversa lettura delle risultanze testimoniali e documentali, basti osservare che si tratta di doglianza in punto di fatto, non deducibile in sede di legittimità.

2.7. In ordine, poi, alla gravità dell’infrazione, si osservi che il ricorso omette di censurare specificamente la concorrente ratio decidendi della impugnata pronuncia, basata, oltre che sulla ritenuta gravità della condotta del lavoratore sul piano oggettivo e soggettivo, anche sulla cit. L. 23 dicembre 1996, n. 662, art. 1, comma 61, primo periodo, in forza del quale “La violazione del divieto di cui al comma 60, la mancata comunicazione di cui al comma 58, nonchè le comunicazioni risultate non veritiere anche a seguito di accertamenti ispettivi dell’amministrazione costituiscono giusta causa di recesso per i rapporti di lavoro disciplinati dai contratti collettivi nazionali di lavoro e costituiscono causa di decadenza dell’impiego per il restante personale …”.

2.8. E appena il caso di aggiungere che tale concorrente ratio decidendi esplicitata dall’impugnata sentenza è corretta e di per sè sufficiente al rigetto dell’impugnativa di licenziamento: invero, quando è la legge stessa ad operare una valutazione di gravità dell’infrazione disciplinare e di congruità della relativa sanzione espulsiva, resta interdetto ogni ulteriore margine di valutazione ad opera del giudice. Ciò rende non conferente la giurisprudenza invocata in ricorso (pronunciatasi sulla diversa ipotesi di illeciti disciplinari tipizzati in contratti collettivi e non in norme di legge) e ininfluenti i rilievi difensivi sull’esiguità del compenso percepito dal F. e sull’assenza di scopo di lucro da parte del predetto Consorzio.

3. In conclusione, il ricorso è da rigettarsi.

3.1. Le spese di questo grado di giudizio, liquidate come da dispositivo, seguono la soccombenza.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese di questo grado di giudizio, liquidate in complessivi Euro 3.040,00 di cui Euro 3.000,00 per onorari, oltre IVA, CPA e spese generali.

Così deciso in Roma, il 8 giugno 2010.

Depositato in Cancelleria il 8 luglio 2011

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