Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 15092 del 21/07/2016


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Cassazione civile sez. VI, 21/07/2016, (ud. 08/03/2016, dep. 21/07/2016), n.15092

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SESTA CIVILE

SOTTOSEZIONE 2

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. PETITTI Stefano – rel. Presidente –

Dott. MANNA Felice – Consigliere –

Dott. LOMBARDO Luigi Giovanni – Consigliere –

Dott. GIUSTI Alberto – Consigliere –

Dott. PICARONI Elisa – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso proposto da:

D.F.M., + ALTRI OMESSI

– ricorrenti –

contro

MINISTERO DELL’ECONOMIA E DELLE FINANZE, in persona del Ministro pro

tempore, rappresentato e difeso dall’Avvocatura Generale dello

Stato, presso i cui uffici in Roma, Via dei Portoghesi n. 12, è

domiciliato per legge;

– controricorrente –

nonchè sul ricorso successivo proposto da:

P.C., rappresentato e difeso, per procura speciale in calce

al ricorso, dagli Avvocati Antonella Barontini e Renzo Filoia,

elettivamente domiciliato presso lo studio della prima in Roma, via

Levico n. 9;

– ricorrente –

contro

MINISTERO DELL’ECONOMIA E DELLE FINANZE, in persona del Ministro pro

tempore, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello

Stato, presso i cui uffici in Roma, Via dei Portoghesi n. 12, è

domiciliato per legge;

– controricorrente –

avverso il decreto della Corte d’appello di Perugia n. 552/2014,

depositato il 26 marzo 2014.

Udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza dell’8

marzo 2016 dal Presidente relatore Dott. Stefano Petitti;

sentiti, per i ricorrenti, gli Avvocati Giovanni Romano e Antonella

Barontini.

Fatto

RITENUTO IN FATTO

che, con ricorso depositato presso la Corte d’appello di Perugia il 30 novembre 2010, D.F.M. e F.V. chiedevano la condanna del Ministero dell’economia e delle finanze al pagamento dei danni non patrimoniali derivati dalla irragionevole durata di un giudizio iniziato dinnanzi al TAR Lazio nel 1995, pendente alla data del primo ricorso e definito nel marzo del 2012 con sentenza che dichiarava perento il giudizio per molte parti e rigettava la domanda proposta dai ricorrenti che avevano presentato istanza di fissazione di udienza ai sensi del D.Lgs. n. 104 del 2010, art. 1, all. 3;

che il giudizio presupposto aveva ad oggetto l’accertamento del diritto dei ricorrenti, appartenenti all’Esercito, all’Aeronautica e alla Marina Militare, ad ottenere la corresponsione delle differenze economiche dovute a titolo di arretrati in applicazione della L. n. 23 del 1993, art. 1, con una decorrenza anteriore rispetto a quella stabilita da altra disposizione;

che con ricorso depositato il 23 aprile 2013 presso la Corte d’appello di Perugia, gli altri ricorrenti indicati in epigrafe, riassumevano la domanda di equa riparazione proposta, con ricorsi del gennaio e del febbraio 2010, dinnanzi alla Corte d’appello di Roma, poi dichiaratasi incompetente, relativa al medesimo giudizio presupposto;

che l’adita Corte d’appello, quanto al ricorso proposto dal D.F. e dal F., rilevava che, essendo stata l’istanza di prelievo presentata nel giudizio presupposto solo nel settembre 2009, la durata di quel giudizio valutabile ai fini dell’equa riparazione, era di due anni e sei mesi;

che quanto alla domanda degli altri ricorrenti, la Corte d’appello rilevava che la durata irragionevole del giudizio, espunti la durata ragionevole di tre anni e il periodo intercorso tra il 25 giugno 2008 (data di entrata in vigore del D.L. n. 112 del 2008, art. 1) e il 25 settembre 2009 (data di presentazione della istanza di prelievo) era stata di dodici anni e cinque mesi;

che la Corte d’appello riteneva tuttavia che la domanda non potesse essere accolta in quanto, la possibilità di un esito favorevole della pretesa era nulla fin dal momento della proposizione della domanda, poichè essa dipendeva da un’ipotesi di incostituzionalità, già negata dalla Corte costituzionale con la sentenza n. 455 del 1993 e poi ribadita con l’ordinanza n. 331 del 1999, alle quali i giudici amministrativi si erano attenuti in numerosissime pronunce;

che, dunque, ad avviso della Corte d’appello, la pretesa dei ricorrenti, incardinata nel 1995, era già allora manifestamente infondata e temeraria; condizione, questa, della quale la gran parte dei ricorrenti era consapevole, avendo omesso di presentare istanza di fissazione di udienza, lasciando così che il giudizio si concludesse con decreto di perenzione;

che, dunque, dovendosi escludere che i ricorrenti avessero subito un pregiudizio per la irragionevole durata del giudizio rigettava la domanda;

che per la cassazione di questo decreto D.F.M., + ALTRI OMESSI che P.C. ha proposto autonomo ricorso affidato del pari a due motivi;

che il Ministero ha resistito con controricorso ad entrambi i ricorsi.

Diritto

CONSIDERATO IN DIRITTO

che il Collegio ha deliberato l’adozione della motivazione semplificata nella redazione della sentenza;

che con il primo del primo ricorso i ricorrenti deducono violazione e/o falsa ed erronea applicazione dell’art. 6, par. 1, della CEDU e contestuale violazione e/o falsa applicazione della L. n. 89 del 2001, art. 2, in ordine alla ritenuta esiguità della posta in gioco e al carattere collettivo della controversia;

che i ricorrenti, premesso che la disciplina dell’equa riparazione per la durata irragionevole del processo va conformata alla luce delle indicazioni offerte dalla giurisprudenza della Corte europea, censurano il decreto impugnato per avere valorizzato elementi inidonei ad escludere il diritto all’indennizzo, una volta accertata la violazione della durata ragionevole;

che, infatti, osservano i ricorrenti, nè il carattere collettivo del giudizio presupposto, nè e soprattutto la posta in gioco nel giudizio presupposto costituirebbero elementi valutabili nella prospettiva della sussistenza del pregiudizio indennizzabile, e comunque, nella specie, la posta in gioco era senz’altro rilevante;

che d’altra parte, proseguono i ricorrenti, non può neanche ritenersi che la scarsa possibilità di successo della pretesa azionata nel giudizio presupposto valga ad escludere il diritto all’indennizzo in relazione ad un giudizio protrattosi irragionevolmente; nè potrebbe essere riconosciuto rilievo alla tardata presentazione della istanza di prelievo, mentre la carenza di interesse attestata dal decreto di perenzione emesso nel giudizio presupposto, era maturata nell’ambito di un giudizio protrattosi per circa diciassette anni; con la precisazione che se la infondatezza della domanda era così manifesta non si comprendono le ragioni per le quali la definizione del giudizio è avvenuta a diciassette anni dal suo inizio;

che con il secondo motivo del primo ricorso – con il quale si denuncia violazione e/o falsa ed erronea applicazione dell’art. 6, par. 1 e art. 13 della CEDU, violazione della L. n. 89 del 2001, art. 2, in conseguenza delle modificazioni apportate del D.L. n. 112 del 2008, art. 54, comma 2, convertito dalla L. n. 133 del 2008, come modificato al D.Lgs. n. 104 del 2010, art. 3, comma 23, all. 4 – i ricorrenti, dopo avere ricordato le vicende normative e giurisprudenziali relative all’istanza di prelievo e alla sua incidenza sul giudizio di equa riparazione, sottolineano come la Corte europea dei diritti dell’uomo abbia chiarito che nei giudizi amministrativi la considerata a partire dalla data di deposito dell’atto introduttivo e sino alla data di deposito della sentenza, a prescindere dalla presentazione o no, o dalla ritardata presentazione, dell’istanza di prelievo da parte dell’interessato;

che con il primo motivo del secondo ricorso il ricorrente deduce violazione dell’art. 6, par. 1, della CEDU e della L. n. 89 del 2001, art. 2, rilevando che la natura collettiva del giudizio presupposto non incide sul diritto all’equa riparazione e che tale diritto va riconosciuto anche in caso di soccombenza, salve le ipotesi di temerarietà della lite o di abuso del processo, nella specie non ricorrenti, atteso che nella sentenza emessa dal TAR non si prospetta in alcun modo la temerarietà della domanda e la decisione di rigetto è motivata ampiamente e non solo con riferimento alle decisioni della Corte costituzionale richiamate nel decreto impugnato;

che con il secondo motivo del proprio ricorso il P. deduce ancora violazione dell’art. 6, par. 1, della CEDU e della L. n. 89 del 2001, artt. 2 e 2-bis, dolendosi del fatto che la Corte d’appello abbia attribuito rilievo alla perenzione del giudizio presupposto, peraltro intervenuto a diciassette anni dall’inizio del processo, atteso che tale conclusione non esclude la configurabilità del pregiudizio morale per il periodo precedente;

che entrambi i ricorsi sono fondati;

che quanto alla durata del giudizio presupposto, colgono nel segno le censure con le quali si evidenza la erroneità del decreto impugnato nella parte in cui, pur in presenza di un’istanza di prelievo, ha tuttavia ritenuto di dover espungere dalla durata del giudizio presupposto il segmento di sette mesi precedente alla presentazione della istanza di prelievo;

che, infatti, questa Corte ha affermato che, nel caso in cui nel giudizio presupposto si sia verificato il presupposto processuale della domanda di equa riparazione ai sensi del D.L. 25 giugno 2008, n. 112, art. 54, comma 2, convertito, con modificazioni, dalla L. n. 133 del 2008, deve escludersi che il periodo di tempo decorso anteriormente alla avvenuta presentazione dell’istanza di prelievo sia irrilevante al fine del computo del termine di durata ragionevole del giudizio (Casa. n. 25447 del 2013);

che, nel merito, il decreto impugnato si fonda sulla ratio decidendi secondo cui la domanda proposta nel giudizio presupposto dai ricorrenti era non solo manifestamente infondata, ma addirittura temeraria;

che, tuttavia, nel caso di specie, dal decreto impugnato emerge che la Corte d’appello ha desunto la consapevolezza della infondatezza della pretesa azionata nel giudizio presupposto facendo riferimento ad un elemento – la pronuncia della Corte costituzionale n. 455 del 1993 – che non risulta decisivo, atteso che la questione posta nel giudizio presupposto concerneva l’estensione del trattamento retributivo già riconosciuto al personale dell’Arma dei Carabinieri ai sottufficiali dell’esercito, con la medesima decorrenza del primo;

che in relazione a tale tipologia di controversia, nello scrutinare analoghi ricorsi aventi ad oggetto decreti della Corte d’appello di Perugia concernenti domande di equa riparazione proposte con riferimento a giudizi amministrativi nei quali si poneva la questione della estensione ai militari del trattamento economico previsto – per il periodo 1986-1991 – per i Carabinieri e altri corpi di polizia, questa Corte (Cass. n. 19478 del 2014) ha avuto modo di ritenere immune dalle proposte censure la decisione della Corte d’appello secondo cui la consapevolezza, in capo ai ricorrenti, che la loro domanda, la quale postulava la proposizione di una questione di legittimità costituzionale, fosse manifestamente infondata e insuscettibile, in quanto tale, di arrecare pregiudizio per la protrazione del processo oltre il limite della ragionevole durata, poteva considerarsi maturata solo nell’anno 1999, per effetto della pronuncia della Corte costituzionale n. 331;

che, d’altra parte, non può non rilevarsi che la pronuncia della Corte costituzionale del 1993, citata nel decreto impugnato, non poteva costituire precedente idoneo a fondare la consapevolezza, in capo ai ricorrenti, della manifesta infondatezza della domanda da loro proposta, anche perchè tale domanda postulava la dichiarazione di illegittimità costituzionale delle disposizioni della L. n. 23 del 1993, non direttamente scrutinate dalla citata decisione;

che appaiono quindi fondate le censure volte ad evidenziare la erroneità della affermazione che la consapevolezza della manifesta infondatezza della domanda con conseguente temerarietà della domanda stessa – potesse essere insorta in capo ai ricorrenti prima ancora della proposizione della domanda, potendo la stessa essere ragionevolmente fatta risalire al 1999, e cioè alla decisione della Corte costituzionale n. 331, la cui motivazione, secondo quanto già ritenuto dalla Corte d’appello di Perugia con decreti risultati immuni dalle censure proposte con il relativo ricorso per cassazione, rendeva evidente la impossibilità di pervenire ad una soluzione favorevole rispetto alle pretese azionate dai ricorrenti anche nei giudizi aventi ad oggetto la decorrenza del disposto adeguamento;

che la identità della questione sottoposta a scrutinio in questa sede e quella oggetto di esame nella sentenza n. 19478 del 2014, impone di accogliere (così come del resto già avvenuto con le sentenze n. 27567 del 2014 e n. 22169 del 2015) entrambi i ricorsi;

che il decreto impugnato va quindi cassato, con rinvio alla Corte d’appello di Perugia perchè, alla luce dei rilievi prima evidenziati, proceda a nuovo esame della domanda, nonchè alla regolamentazione delle spese del giudizio di cassazione.

PQM

La Corte accoglie i ricorsi; cassa il decreto impugnato e rinvia la causa, anche per le spese del giudizio di cassazione, alla Corte d’appello di Perugia, in diversa composizione.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezione Sesta Civile – 2 della Corte Suprema di Cassazione, il 8 marzo 2016.

Depositato in Cancelleria il 20 luglio 2016

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