Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 15091 del 02/07/2014


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Civile Sent. Sez. 2 Num. 15091 Anno 2014
Presidente: PICCIALLI LUIGI
Relatore: FALASCHI MILENA

Procedimento —
Produzionedocume
nti appello

SENTENZA

sul ricorso (iscritto al N.R.G. 19327/08) proposto da:
CALABRO’ ANNA, rappresentata e difesa, in forza di procura speciale a margine del ricorso,
dall’Avv.to Cinzia Tait del foro di Rovereto e dall’Avv.to Bruno Piccarozzi del foro di Roma e
domiciliata presso la cancelleria della Corte di Cassazione in Roma, piazza Cavour n. 1;
– ricorrente contro
CUMER MARCELLINO, rappresentato e difeso dall’Avv.to Piergiorgio Tezzele del foro di
Rovereto e dall’Avv.to Nunzio Roberto Valenza del foro di Roma, in virtù di procura speciale
apposta a margine del controricorso, e domiciliato presso la cancelleria della Corte di Cassazione
in Roma, piazza Cavour n. 1;
– controricorrente e ricorrente incidentale –

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Data pubblicazione: 02/07/2014

e contro
CALABRO’ CARMEN
– intimata nonché sul ricorso incidentale condizionato proposto dal Cumer nei confronti di Calabrò Anna

notificata il 23 maggio 2008.
Udita la relazione della causa svolta nell’udienza pubblica del 27 marzo 2014 dal
Consigliere relatore Dott.ssa Milena Falaschi;
udito l’Avv.to Nunzio Valenza, per parte resistente;
udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. Rosario
Giovanni Russo, che ha concluso per l’accoglimento del primo motivo, con assorbimento dei
restanti motivi del ricorso principale, in subordine, la rimessione alle SS.UU.; inammissibilità del
ricorso incidentale.

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
Con atto di citazione notificato 11 13 maggio 2003 Anna CALABRO’ evocava, dinanzi al Tribunale
di Rovereto, Marcellino CUMER e premesso di essere divenuta proprietaria a seguito di
aggiudicazione all’incanto, avanti al medesimo Tribunale di Rovereto, con decreti di trasferimento,
rispettivamente, del 4.5.1998 per la p.m. 2 e del 20.1.1999 per la p.m. 1 della p.ed. 442 in P.T.
913 C.C. Marco, confinante con immobile di proprietà del convenuto, esponeva che il confine tra
le due proprietà, tra loro divise da un cortile, avrebbe dovuto essere individuato dalla linea
continua A — B descritta nell’estratto di mappa/frazionamento n. 606 del 1987 e che il muro in
calcestruzzo esistente sul cortile non aveva, come preteso dal vicino, la funzione di delimitare il
confine, ma solo quella di contenimento e sostegno delle strutture seminterrate (magazzino ed
officina) insistenti sulla p.ed. 442; aggiungeva che il CUMER aveva iniziato a coltivare dall’aprile

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avverso la sentenza della Corte d’appello di Trento n. 333 depositata il 31 dicembre 2007 e

del 2003 delle vigne nella striscia compresa tra il predetto muro e l’effettivo confine, occupando
così illegittimamente parte della proprietà attorea. Tanto premesso, chiedeva di accertare il
confine tra i due fondi, con condanna del convenuto a rilasciare la parte di cortile indebitamente
occupata, previa eliminazione delle viti piantate.

epoca della sua realizzazione a cura dei danti causa dell’attrice, il muretto in calcestruzzo aveva
segnato il confine tra le due proprietà ed egli aveva da allora pacificamente coltivato le vigne
anche sulla porzione di area in contesa, per cui di recente si era solo limitato a sostituire alcune
piante vecchie, in via riconvenzionale subordinata, chiedeva accertarsi il suo acquisto della zona
per intervenuta usucapione, oltre ad ottenere di chiamare in causa Carmen CALABRO’,
comproprietaria del cortile, la quale rimaneva contumace, il giudice adito, espletata istruttoria
anche con c.t.u., rigettava la domanda attorea.
In virtù di rituale appello interposto dalla medesima Anna CALABRO’, con il quale si doleva della
incompleta istruttoria espletata dal giudice di prime cure, nonché della inattendibilità delle
dichiarazioni rese dai Calabrò, Carmen e Francesco, prodotta ulteriore documentazione allegata
all’atto di citazione in appello (atto di compravendita a misura del 1971 fra Francesco Calabrò e
Marcellino Cumer; successiva compravendita fra Francesco Calabrò e Marco Calabrò; copie delle
partite tavolari; atti relativi alla Ciemic s.n.c.; progetti edilizi), la Corte di appello di Trento, nella
resistenza dell’appellato, il quale riproponeva in via subordinata la declaratoria di usucapione,
rigettava il gravame.
A sostegno della decisione adottata la corte territoriale evidenziava, in via prioritaria, che la
eventuale fondatezza dell’impugnazione dipendeva unicamente dalla introduzione nel giudizio
della sopra richiamata documentazione, prodotta in sede di impugnazione dalla appellante, di cui
però non poteva tenersi conto, in quanto alla luce della sentenza delle SS.UU. della Corte di
Cassazione (n. 8203 del 2005), che subordinava l’ammissione di nuovi mezzi di prova alla

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Instaurato il contraddittorio, nella resistenza del CUMER, il quale assumeva che fin dal 1985,

dimostrazione, posta a carico della parte che li allegava, di non averli potuti produrre prima per
causa a lei non imputabile ovvero nell’ipotesi di convincimento del giudice della indispensabilità
degli stessi per la decisione, senza che alcuno dei casi ricorresse nella specie; in particolare, la
seconda ipotesi doveva postulare qualcosa in più della mera rilevanza dei fatti dedotti, da

determinanti ai fini della decisione, con l’ulteriore precisazione che si doveva trattare di documenti
nuovi, la cui ammissione non era stata chiesta in precedenza, e per i quali non si era verificata la
decadenza di cui all’art. 184 c.p.c..
Nel merito, rilevava che le prove testimoniali assunte, univoche e concordanti, avevano
dimostrato come le parti avessero pattuito, perlomeno con comportamenti concludenti, la
erezione di un muretto che, in concreto, dal momento della sua realizzazione aveva esercitato —
senza che nessuno se ne lamentasse — la funzione di confine delimitativo delle vicine proprietà
immobiliari.
Per la cassazione della sentenza della Corte di appello di Trento agisce Anna CALABRO’, sulla
base di tre motivi, cui resiste il CUMER con controricorso, contenente anche ricorso incidentale
condizionato, affidato ad un unico mezzo, illustrato pure da memoria ex art. 378 c.p.c., non
espletate difese da Carmen CALABRO’, regolarmente intimata.

MOTIVI DELLA DECISIONE
Va preliminarmente esaminata l’eccezione di inammissibilità del ricorso sollevata dal
resistente con riferimento agli artt. 360, 366 e 366 bis c.p.c. per non essere state rispettate le
regole quanto ai quesiti di diritto (plurimi), oltre a consistere in una richiesta di rivalutazione delle
risultanze istruttorie.
L’eccezione è infondata alla luce del principio, convalidato dalle SS.UU. di questa Corte (sentenza
31 marzo 2009 n. 7770), secondo cui nessuna prescrizione è rinvenibile nelle norme processuali,

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individuare nella verificata impossibilità di acquisire altrimenti la conoscenza di quelle circostanze

che ostacolino la duplice denunzia con unico mezzo, di vizi di violazione di legge e di motivazione
in fatto (cfr. anche Cass. 18 gennaio 2008 n. 976), fermo restando che in tale caso il motivo si
deve concludere – come, del resto, è avvenuto nella specie – con una pluralità di quesiti, ciascuno
dei quali contenga un rinvio all’altro, al fine di individuare su quale fatto controverso vi sia stata,

In particolare – anche qualora il ricorso sia formulato con riferimento solo al n. 3 o al n. 4 dell’ad.
360 c.p.c. – la formulazione di distinti e plurimi quesiti di diritto non può ritenersi contrastante, di
per sè, con la disposizione dell’ad. 366 bis c.p.c. per il solo fatto che questa esige che il motivo si
concluda, a pena di inammissibilità, con “un quesito”; e ciò non solo, perché il motivo di ricorso
può essere articolato con riferimento a diverse e concorrenti violazioni di legge, con la
conseguenza che il quesito deve rispecchiare ciascuna di tali articolazioni, potendo ben assumere
una forma, anche dal punto di vista grafico, separata (Cass. 9 giugno 2010 n. 13868) – essendo,
anzi, necessario che il motivo formalmente unico, ma in effetti articolato in profili autonomi e
differenziati di violazioni di legge diverse, si concluda con la formulazione di tanti quesiti per
quanto sono i profili fra loro autonomi e differenziati in realtà avanzati (Sez. Unite 9 marzo 2009 n.
5624) – ma anche perché la funzione del quesito, di sintesi logico-giuridica della questione
sottoposta al vaglio del giudice di legittimità, non può dirsi elusa, quando esso sia formulato per
più punti e questi consistano in più proposizioni, intimamente connesse, che, per la loro funzione
unitaria, sotto il profilo logico e giuridico, risultino complessivamente idonee, pur sovrapponendosi
parzialmente, a far comprendere senza equivoci la violazione denunciata ed a richiedere alla
Code di affermare un principio di diritto contrario a quello posto a base della decisione impugnata
(Cass. 6 novembre 2008 n. 26737).
L’eccezione di inammissibilità nei termini sopra precisati va, dunque, rigettata, salvo quanto si
andrà a precisare di seguito con riferimento ai singoli quesiti.

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oltre che un difetto di motivazione, anche un errore di qualificazione giuridica del fatto.

Anche per ciò che attiene al secondo profilo, che verrà preso in considerazione nell’ambito
di ciascun mezzo, l’eccezione si appalesa infondata per le ragioni che verranno illustrate.
Venendo all’esame del ricorso principale, con il primo motivo la ricorrente lamenta
violazione e falsa applicazione del disposto di cui agli artt. 345, comma 3, 184, 183, comma 6 (ex

punto controverso e decisivo per il giudizio. In sintesi, lamenta che il giudice distrettuale abbia
introdotto dei limiti nell’acquisizione della prova documentale in deroga all’art. 345, comma 3,
c.p.c., norma che prevede due ipotesi, alternative e non sovrapponibili: la prima, costituisce il
caso della rimessione in termini, la seconda, del tutto sganciata dalla prima, quella della
indispensabilità, pur nelle avvenute preclusioni di cui all’art. 184 c.p.c., relativamente al primo
grado di giudizio. In tal senso, del resto, sarebbe lo stesso arresto delle Sezioni Unite della Corte
di legittimità, non essendo necessario che la parte debba dimostrare anche l’impossibilità ad essa
non imputabile di una loro anteriore produzione. Prosegue la ricorrente deducendo che la
motivazione prescinde completamente dalla previsione di alternatività delle due ipotesi ed il vizio
in cui sarebbe incorso il giudice del gravame sarebbe strettamente correlato all’errata percezione
del dato normativo di cui all’art. 345 in rapporto all’art. 184 e all’art. 184 bis c.p.c., contraddicendo
la premessa del sillogismo. Aggiunge che così verrebbe ad essere assunto dalla locuzione un
significato oltremodo restrittivo, lesivo del diritto di difesa delle parti, con vanificazione della
ricerca della verità materiale. In altri termini, la Corte di merito parrebbe avere confuso il concetto
di mera rilevanza con il concetto di indispensabilità, laddove al concetto di mera rilevanza ha
collegato il concetto di idoneità a consentire il ribaltamento della decisione assunta dal primo
giudice, senza avvedersi che proprio il concetto espresso darebbe corpo e contenuto alla
locuzione ‘mezzi di prova ritenuti indispensabili’. La documentazione allegata all’atto di appello,
d’altro canto, è finalisticamente destinata a chiarire la linea di demarcazione tra i fondi, facendo
riferimento al titolo originario di acquisto e agli atti in esso richiamati. L’illustrazione complessiva

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art. 184 bis) e 359 c.p.c., oltre ad omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione circa un

del mezzo è completata dalla formulazione del seguente quesito di diritto: “dica la suprema Corte
di Cassazione: 1. Se il disposto di cui all’art. 345 III comma c.p.c., il quale fissa le deroghe al
principio di inammissibilità dei nuovi mezzi di prova, pone in via alternativa e non concorrente i
requisiti ai fini dell’ammissione di nuovi mezzi di prova, condizionando l’ammissibilità

debba dimostrare anche l’impossibilità ad essa non imputabile di una loro anteriore produzione; b)
alla dimostrazione della parte di non aver potuto proporre la prova in primo grado per causa ad
essa non imputabile;
2. se il giudice sia abilitato alla ammissione dei nuovi mezzi di prova, in conformità al
disposto di cui all’art. 345, terzo comma, c.p.c., in entrambe le ipotesi alternative, e non
concorrenti previste, nella ricorrenza dei presupposti richiesti, e come normativamente e
tassativamente indicati dalla norma citata, nonostante le già verificatesi preclusioni di cui all’art.
183, sesto comma, ex art. 184 bis c.p.c., e in particolar modo nonostante Io spirare dei termini
fissati per la formulazione dei mezzi di prova costituende, per la produzione di documenti, nonché
per l’eventuale prova contraria;
3. se la locuzione ‘nuovi mezzi di prova…indispensabili’ debba essere intesa e interpretata
quali mezzi di prova idonei, per il loro spessore contenutistico, a fornire un contributo decisivo
all’accertamento della verità materiale, capaci di determinare un positivo accertamento dei fatti di
causa, decisivo talvolta anche per giungere ad un completo rovesciamento della decisione cui è
pervenuto il giudice di primo grado, senza che la parte debba dimostrare anche l’impossibilità ad
essa non imputabile di una loro anteriore produzione”.

Premesso — quanto alla ammissibilità del motivo – che la censura evidenzia nitidamente nel
proprio seno i profili attinenti la ricostruzione del fatto e passa successivamente alla trattazione
delle doglianze relative all’interpretazione ovvero alla applicazione dell’art. 345 c.p.c.,
contestando la correttezza della pronuncia per la mancata acquisizione dei documenti prodotti

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alternativamente a) alla valutazione di indispensabilità del mezzo di prova, senza che la parte

con l’atto di appello, chiedendo una statuizione sulla regola iuris della indispensabilità dei nuovi
mezzi di prova che valorizzi la legittimità dell’ingresso dei predetti atti; esso è però da ritenere
infondato.

nuovi documenti in grado di appello, l’art. 345 c.p.c., comma 3, va interpretato, secondo l’ormai
consolidato orientamento di questa Corte nel senso che esso fissa il principio della
inammissibilità di mezzi di prova nuovi (cioè non richiesti in precedenza e, quindi, anche delle
produzioni documentali, in coerenza con la disciplina dettata dell’ad. 184 c.p.c. e segg., che
impone limiti di decadenza per la formulazione delle richieste istruttorie già nel giudizio di primo
grado), indicando nello stesso tempo i limiti di tale regola e cioè consentendo l’ammissione ove
le parti dimostrino di non avere potuto proporli prima per causa ad esse non imputabile, ovvero
nel convincimento del giudice della indispensabilità degli stessi per la decisione. Tale
orientamento si è consolidato dopo le sentenze 20.4.2005 n. 8202 e n. 8203 delle Sezioni unite
di questa Corte, seppure pronunciata con riferimento all’ad. 437 c.p.c. (formulato in termini
identici all’ad. 345 c.p.c. con riferimento al divieto di “nuovi mezzi di prova” in appello), nella
quale si è ritenuto che la produzione di documenti rientri nei “nuovi mezzi di prova” che per
regola generale non sono ammessi nel giudizio di appello. L’interpretazione di cui alla citata
pronunzia è stata successivamente seguita dalla costante giurisprudenza di questa Code anche
per i processi non regolati dal rito del lavoro (v. ad es. Cass. 26 giugno 2007 n. 14766 e, da
ultimo, Cass. 1 giugno 2012 n. 8877) ed è condivisa da questo Collegio, per le ragioni in essa
enunciate. Prima della suddetta decisione, ancorché fosse nettamente maggioritario il diverso
orientamento che consentiva le nuove produzioni documentali in appello, non mancavano
contrarie decisioni.

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Nei giudizi, come il presente, instaurati dopo il 30 aprile 1995, con riguardo alla produzione di

Questo regime di preclusioni incontra peraltro un limite non solo nella dimostrata impossibilità di
formulare tempestivamente la richiesta istruttoria, come riconosciuto già dall’art. 184 bis c.p.c.,
per il giudizio di primo grado, ma anche nella ritenuta indispensabilità della prova ai fini della
decisione della causa. La citata sentenza delle Sezioni unite di questa corte ha chiaramente

proporre prima per cause ad esse non imputabili, è abilitato ad ammettere, nonostante le già
verificatesi preclusioni, solo quelle prove che ritenga – nel quadro delle risultanze istruttorie già
acquisite – indispensabili”.
Questo il quadro normativo e giurisprudenziale di riferimento sulla questione.
Nella specie, la corte di merito dopo l’affermazione di principio di cui sopra, ha vagliato la
documentazione prodotta nella determinante prospettiva di stabilire quando una prova possa
definirsi indispensabile ai fini della decisione. L’esame, giova ribadirlo, affrontato sotto il profilo di
rito, rilevando ai fini dell’accertamento di una preclusione processuale all’ammissibilità di una
richiesta istruttoria di parte (cfr Cass. 17 giugno 2009 n. 14098), ha comportato la decisione della
medesima corte distrettuale di non considerare “indispensabili” le prove documentali prodotte, in
quanto doveva essere postulato qualcosa in più della mera rilevanza dei fatti dedotti, ‘da
individuare nella verificata impossibilità di acquisire altrimenti la conoscenza di quelle circostanze
che siano determinanti ai fini della decisione’, con la conseguenza che per la loro acquisizione
occorreva che non si fosse verificata la decadenza di cui all’ad. 184 c.p.c..
Sul punto il Collegio osserva che la motivazione in limine della decisione impugnata dà conto
proprio ed esaustivamente di tale ritenuta inammissibilità, in conformità all’indirizzo richiamato,
per cui è sufficiente che, come attesta il giudice di merito, l’assenza di un quid pluris rispetto alla
mera rilevanza dei fatti comprovati dai nuovi documenti prodotti con l’atto di appello (Cass.
SS.UU. nn. 8202 e 8203 del 2005), secondo un’accezione di specificità che appare compatibile,
diversamente da quanto contestato dall’appellante, qui ricorrente, anche dalla correlazione

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riconosciuto infatti che “il giudice, oltre a quelle prove che le parti dimostrino di non aver potuto

dell’art. 345, comma 3, con l’art. 184 c.p.c.. In altri termini, l’indispensabilità — incontestato che
non sia stata neanche dedotta l’altra evenienza di essere incorsa in decadenza per causa ad
essa non imputabile — deve apprezzarsi necessariamente in relazione alla decisione di primo
grado e al modo in cui essa si è formata, sicchè solo ciò che la decisione afferma a commento

ulteriore che, nel contraddittorio in primo grado e nella relativa istruzione, non era apparso come
utile e necessario (v. Cass. 5 dicembre 2011 n. 26020), con la conseguenza che, se la
formazione della decisione è avvenuta in una situazione nella quale lo sviluppo del contraddittorio
e delle deduzioni istruttorie avrebbero consentito alla parte di avvalersi di detto mezzo di prova
(già in primo grado), perché funzionale alle proprie ragioni, deve escludersi che la `nuova’ prova
sia indispensabile, per essere la mancata introduzione della stessa imputabile alla negligenza
della parte, secondo una condotta processuale ispirata all’assicurazione del massimo di
possibilità di azione e difesa. Non si può prospettare come indispensabile la prova che tale
appariva o poteva soggettivamente apparire – al di là della sua concreta efficacia ed utilitas durante lo svolgimento del contraddittorio in primo grado e prima della formazione delle
preclusioni probatorie. Se lo si consentisse, le preclusioni probatorie in primo grado diverrebbero
meramente derisorie. L’indispensabilità deve, invece, confrontarsi con il tenore della decisione di
primo grado, nel senso che deve essere soltanto quando la decisione evidenzia sul piano
probatorio (cioè a commento delle risultanze probatorie acquisite) la necessità di un apporto

delle risultanze istruttorie acquisite deve evidenziare la necessità di un apporto probatorio

probatorio, che, invece, nel pregresso contraddittorio in primo grado e nella relativa istruzione non
era viceversa apprezzabile come utile e necessario, per avere, ad esempio, il giudice rilevato un
profilo della controversia non dibattuto. Ricostruito in questo senso, il concetto di indispensabilità
non collide con un impianto processuale imperniato sulle preclusioni e si presenta anzi
perfettamente armonico.

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m

Alla luce di quanto sopra discende che nel caso in esame, l’avere la corte di merito rilevato la non
indispensabilità della prova proprio sul presupposto della producibilità dei documenti nei termini di
rito (ex art. 184 c.p.c.), costituendo — nell’assunto della appellante – adeguato sostegno probatorio
alla tesi esposta in citazione, non pare possa fare dubitare della correttezza di detto giudizio,

alla pretesa titolarità del diritto dominicale dell’area pure disconosciuta nella decisione impugnata
(v. pag. 12 della sentenza).

La motivazione censurata è dunque congrua e logica in punto di mancata ammissione dei
documenti, giacché connette il quadro probatorio da valutare alle originarie tesi difensive di
entrambe le parti, ritenendo che la decisione di primo grado non abbia apportato l’esigenza di
opportuna trattazione di nuove questioni (cfr ari. 183, comma 3, c.p.c.) ovvero di una diversa
circostanza storica anche riferibile in via diretta alla vicenda esposta nei rispettivi atti dalle parti.

Per completezza, osserva il Collegio di non avere aderito alla richiesta del Procuratore generale
di rimessione della questione alle Sezioni Unite dal momento che le pronunce di questa Corte
richiamate (Cass. n. 26020 del 2011 e Cass. n. 7441 del 2011) si inseriscono nel solco del
consolidato orientamento giurisprudenziale, per l’appunto introdotto con le sentenze nn. 8202 e
8203 del 2005, chiarendone la portata in relazione ad elementi già ricompresi ma non
sufficientemente sottolineati, postulando in entrambi gli arresti l’estensione del principio di diritto
affermato dalle Sezioni Unite esattamente riferito ed inteso anche dalla dottrina come relativo ai
documenti in genere.

Con il secondo motivo è denunciata la violazione ed errata applicazione del disposto di
cui agli artt. 948, 950 e 2729 c.c., oltre ad omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione in
ordine ad un fatto controverso e decisivo, per avere la corte distrettuale erroneamente applicato
l’istituto del negozio giuridico di accertamento, sia pur per comportamenti concludenti, in

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peraltro non specificamente impugnato quanto alla decisività dei documenti proprio in relazione

relazione alla realizzazione del muretto in calcestruzzo e quindi del regolamento amichevole della
linea di confine, in difetto dei presupposti richiesti, in particolare, la data di realizzazione del
muro, una situazione di incertezza in merito alla estensione dei fondi. Infatti prima della
realizzazione del muro e in presenza della rete metallica, non sussisteva alcuna situazione di

favore del CUMER attuato soltanto a titolo di favore e di cortesia. Di converso avrebbero dovuto
essere valorizzate le risultanze peritali — ad avviso della ricorrente — in termini di consistenza del
muro in calcestruzzo con funzione di contenimento della fascia di terreno limitrofa. La Corte di
legittimità ha sempre richiesto un comportamento condiviso, in termini di realizzazione congiunta
delle opere, per ritenere provato il negozio di accertamento per facta concludentia, mentre nella
specie c’era stato solo un comportamento unilaterale. Con la conseguenza che non poteva farsi
ricorso alle presunzioni, le quali richiedono una pluralità di fatti noti, convergenti nella
dimostrazione del fatto ignoto, difettando anche il requisito della gravità e la relativa motivazione
risulta meramente apparente. A conclusione del mezzo viene posto il seguente quesito di diritto:
“dica la suprema Corte di Cassazione: a) se il requisito della gravità prescritto dall’art. 2729 c.c. si
riferisce al grado di convincimento che le presunzioni sono idonee a produrre; se requisito di
precisione imponga che i fatti noti, da cui muove il ragionamento probabilistico e il percorso che
si seguono non siano vaghi, ma ben determinati nella loro realtà storica; se con il requisito di
concordanza si prescrive che la prova sia fondata su una pluralità di fatti noti convergenti nella
dimostrazione del fatto ignoto; b) se il negozio di accertamento relativo alla determinazione del
confine e relazione al disposto di cui all’art. 950 c. c. adempie alla funzione di eliminare
l’incertezza su di una situazione giuridica preesistente e presuppone pertanto l’esistenza di una
situazione di incertezza in ordine alla linea di confine, adempiendo il negozio di accertamento alla
funzione di eliminare detta incertezza nonché di fissare i fatti e i rapporti; c) se il negozio di
accertamento per facta concludentia implica e richiede l’adozione di un comportamento condiviso

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incertezza, risultando il confine certo, come individuato nel 1971, e la disponibilità del terreno in

tra i confinanti, e posto in essere d’accordo tra loro, restando escluso in ipotesi di comportamento
unilaterale, senza partecipazione di una delle parti contendenti”.
Le enunciate censure sono infondate.
La sentenza impugnata, nell’ambito delle risultanze processuali poste a base del convincimento

assunte, le parti avevano pattuito la edificazione di un muretto in calcestruzzo o quanto meno lo
stesso era stato realizzato di comune accordo ed ha osservato che tale materiale separazione tra
i fondi aveva assunto, ‘senza che nessuno se ne lamentasse’, fin dall’origine la funzione di
confine fra le ridette proprietà vicine, indice attendibile di un accordo tra le parti sulla
determinazione della linea di confine in oggetto frutto di un regolamento amichevole che
integrava un negozio di accertamento libero da forme.
In proposito la ricorrente, pur ammettendo la non contestazione degli altri confinanti nella
realizzazione del muro da quo, asserisce che in realtà non ricorressero i presupposti per un
regolamento amichevole del confine, ossia la esistenza di uno stato di incertezza in merito alla
estensione dei fondi (in presenza di una rete metallica che già nel 1971 individuava la linea di
confine) e il mancato accertamento della data di edificazione del muro, dovendosi dare rilevanza
alle risultanze peritali che assegnavano al muro in calcestruzzo una funzione di contenimento
della fascia di terreno limitrofa. Orbene tale ultima deduzione, in generale, si risolve
inammissibilmente in una prospettazione di una realtà diversa ed a lei più favorevole rispetto a
quella evidenziata dal giudice di appello all’esito di un accertamento di fatto sorretto da
motivazione congrua e priva di vizi logici.
Ciò premesso, il Collegio ritiene che il rilievo attribuito dalla sentenza impugnata alla edificazione
di comune accordo tra i confinanti del muro per demarcare le rispettive proprietà e la
configurazione di tale accordo come un negozio di accertamento sono corretti e conformi
all’orientamento giurisprudenziale elaborato in tale motivazione da questa Corte.

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maturato, ha in particolare evidenziato che, secondo la univoche e concordanti prove testimoniali

Invero in tema di individuazione della linea di confine tra due fondi è possibile che le parti
procedano ad un regolamento amichevole della linea di confine stessa mediante un negozio di
accertamento libero da forme inteso a risolvere un contrasto, sia pure solo virtuale (Cass. 25
maggio 1973 n. 1548; Cass. 29 novembre 1996 n. 10626; Cass. 3 maggio 2001 n. 6589),

in cui i proprietari dei fondi limitrofi erigano, d’accordo tra loro, una rete metallica per delimitarli
(così Cass. 5 giunto 1997 n. 4994 richiamata dalla stessa sentenza, orientamento confermato da
Cass. 21 febbraio 2008 n. 4437); né la doglianza circa l’utilizzazione delle presunzioni coglie nel
segno, per avere il giudice del gravame fondato il suo convincimento sulle dichiarazioni
testimoniali, sottolineando la loro attendibilità in quanto provenienti da persone, come la terza
chiamata in causa e Calabrò Francesco, che avrebbero avuto semmai un interesse contrario a
quello del Cumer.
Il terzo motivo, con il quale la ricorrente denuncia la violazione ed errata applicazione
degli artt. 2730, 2733 e 2735 c.c. per avere la corte territoriale attribuito valenza probatorie alle
dichiarazioni rese dalla terza chiamata, Carmen CALABRO’, qualificandole quali confessione,
mentre le stesse erano dirette non già alla ricognizione di una situazione di fatto, bensì
contenenti delle valutazioni e dei giudizi, come emerge chiaramente dai capitoli articolati, pone il
seguente quesito di diritto: “dica la suprema Corte di Cassazione:

a) se affinché una

dichiarazione sia qualificabile come confessione, la stessa debba constare dell’elemento
soggettivo, consistente nella consapevolezza e volontà di ammettere e riconoscere la verità di un
fatto, a sé sfavorevole, e favorevole all’altra parte, e non già la formulazione di un giudizio di
un’opinione”.
Anche detto motivo è privo di pregio, giacchè le critiche, con il correlato quesito di diritto, sono
eccentriche rispetto alla ratio decidendi della sentenza impugnata, posto che esse evocano le
disposizioni in tema di dichiarazioni confessorie, laddove il convincimento del giudice di merito,

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negozio di accertamento che può essere concluso anche per “facta concludentia”, come nel caso

con ogni evidenza, si fonda sulle deposizioni testimoniali, con la conseguenza che quelle rese
dalla terza chiamata — neanche chiarito se in sede di interrogatorio libero o formale — hanno
avuto la funzione solo di elementi sussidiari di convincimento, utilizzati al fine del riscontro e della
valutazione delle prove già acquisite. D’altra parte rientra nel potere discrezionale del giudice di

di sindacato in sede di legittimità (così Cass. 22 luglio 2010 n. 17239 e Cass. 26 agosto 2003 n.
12500).
La corte di merito risulta, pertanto, avere fatto buon governo di detti principi con valutazione non
specificamente censurata dalla ricorrente.
Venendo al ricorso incidentale condizionato proposto dal Cumer, con il quale insiste
nell’acquisto per intervenuta usucapione dell’area de qua, resta assorbito dalla pronuncia di
rigetto del ricorso principale.
Conclusivamente, il ricorso principale va rigettato, assorbito quello incidentale condizionato, con
condanna della ricorrente, in quanto soccombente, al pagamento delle spese di questo giudizio
di cassazione, liquidate come in dispositivo.

P.Q.M.

La Corte, rigetta il ricorso principale, assorbito quello incidentale condizionato;
condanna la ricorrente alla rifusione delle spese del giudizio di Cassazione, che liquida in
complessivi €. 2.200,00, di cui €. 200,00 per esborsi, oltre a spese forfettarie ed accessori, come
per legge.
Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della 2″ Sezione Civile, il 27 marzo 2014.

merito la scelta relativa alla concreta utilizzazione di tale strumento processuale, non suscettibile

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