Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 1509 del 23/01/2020

Cassazione civile sez. I, 23/01/2020, (ud. 12/09/2019, dep. 23/01/2020), n.1509

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE PRIMA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. CAMPANILE Pietro – Presidente –

Dott. SAMBITO Maria Giovanna C. – Consigliere –

Dott. SCOTTI Umberto Luigi Cesare Giuseppe – Consigliere –

Dott. PARISE Clotilde – Consigliere –

Dott. VELLA Paola – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 29807/2018 proposto da:

G.A.A.A.G.A., elettivamente domiciliato in Roma,

v.le Giulio Cesare n. 14, presso lo studio dell’avvocato Ciprotti

Alessia, che lo rappresenta e difende unitamente all’avvocato

Marchesetti Roberta, per procura speciale allegata al ricorso;

– ricorrente –

contro

Ministero dell’interno;

– intimato –

avverso il decreto del TRIBUNALE di MILANO, depositato il 21/09/2018;

udita la relazione della causa svolta nella Camera di consiglio del

12/09/2019 dal Consigliere Dott. Paola VELLA.

Fatto

FATTI DI CAUSA

1. Il Tribunale di Milano ha rigettato il ricorso proposto dal cittadino pakistano G.A.A.A.G.A. per ottenere lo status di rifugiato, ovvero la protezione sussidiaria o quella umanitaria, avendo lasciato la sua regione di provenienza (Punjab) per il timore di essere arrestato e ucciso a causa del suo coinvolgimento politico all’interno del partito (OMISSIS), che nel 2014 aveva organizzato due manifestazioni di protesta, la prima il (OMISSIS) (cui egli aveva partecipato e che aveva visto il padre ferito e poi deceduto a causa degli scontri tra manifestanti e polizia), la seconda il 1 settembre davanti al parlamento di (OMISSIS) (cui egli non aveva partecipato, restando latitante per sette mesi).

2. Avverso detta decisione il richiedente ha proposto due motivi di ricorso per cassazione, preceduti da tre questioni di legittimità costituzionale. L’intimato Ministero dell’interno non ha svolto difese.

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

3. Vanno preliminarmente disattese le questioni incidentali di legittimità costituzionale del D.L. 17 febbraio 2017, n. 13, convertito con modificazioni dalla L. 13 aprile 2017, n. 46 (recante: “Disposizioni urgenti per l’accelerazione dei procedimenti in materia di protezione internazionale, nonchè per il contrasto dell’immigrazione illegale”), sollevate dal ricorrente per violazione della Costituzione, segnatamente dell’art. 77 Cost. (in relazione ai requisiti di necessità e urgenza), degli artt. 3 e 24 (quanto alla previsione del rito camerale) e dell’art. 111 (per la non reclamabilità del decreto di primo grado, con eliminazione del doppio grado di giudizio).

3.1. Si tratta invero di questioni ripetutamente dichiarate manifestamente infondate da questa Corte (ex multis, Cass. 17717/2018, 27700/2018, 28003/2018, 28119/2018, 32867/2018, 1876/2019) sulla base di motivazioni cui il Collegio presta adesione.

3.2. In particolare, i presupposti della straordinaria necessità ed urgenza non sono del tutto incompatibili con la scelta del legislatore di differire l’applicazione delle disposizioni introdotte con decreto legge (Corte Cost. 5/2018 e 16/2017); inoltre, con specifico riguardo al decreto legge in esame, il difetto di detti requisiti non può porsi rispetto alla disposizione transitoria che differisce di centottanta giorni dall’emanazione del decreto l’entrata in vigore del nuovo rito, trattandosi di previsione connaturata all’esigenza di predisporre un congruo intervallo temporale per l’entrata a regime di una complessa riforma processuale (Cass. 17717/2018).

3.3. Inoltre, la nuova disciplina non viola il diritto di difesa nè il principio del contraddittorio, poichè il rito camerale ex art. 737 c.p.c. – adottato anche nella trattazione di controversie in materia di diritti e status – è idoneo a garantire il contraddittorio anche nel caso in cui non sia disposta l’udienza, sia perchè tale eventualità è limitata alle ipotesi in cui, in ragione dell’attività istruttoria precedentemente svolta, essa appaia superflua, sia perchè in tale caso le parti sono comunque garantite dal diritto di depositare difese scritte (Cass. 17717/2018).

3.4. Infine, il principio del doppio grado di giudizio non ha copertura costituzionale, mentre il fatto che il procedimento de quo sia definito con decreto non reclamabile è giustificato dalle esigenze di celerità, tanto più che la fase giurisdizionale è comunque preceduta da una fase amministrativa che si svolge davanti alle commissioni territoriali, deputate ad acquisire, attraverso il colloquio con l’istante, l’elemento istruttorio centrale ai fini della valutazione della domanda di protezione (Cass. 27700/2018; 28119/2018).

4. Passando all’esame dei motivi, il primo è articolato su tre livelli, nei quali si deduce segnatamente: la violazione dell’art. 1 della Convenzione di Ginevra del 1951, D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 3 e del D.Lgs. n. 25 del 2008, artt. 8,10 e 27, per avere il tribunale disatteso il principio del necessario accertamento all’attualità della situazione geopolitica del Pakistan, ed in particolare della regione del Punjab, in cui i conflitti sono andati progressivamente degenerando, causando centinaia di morti e feriti; la violazione del D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 2, comma 1, lett. g), per non essersi il tribunale avveduto del concreto pericolo di morte che il richiedente correrebbe “se rientrasse nel suo paese d’origine, visto che è già stato, per la sua militanza politica, oggetto di carcerazioni arbitrarie, risolte solo corrompendo le autorità e versando tutti i risparmi di famiglia per aver salva la vita”; infine (ed in subordine) la violazione del D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 5, comma 6 e del D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 32, comma 3, per avere il tribunale minimizzato il percorso di integrazione intrapreso dal ricorrente, di giovane età, trascurando di considerare “che, se costretto a far rientro in patria, lo straniero vedrebbe compromessa in modo apprezzabile la sua dignità e il suo diritto ad un’esistenza ibera e dignitosa, che risulta aver raggiunto nel nostro paese”.

5.1. Il complesso motivo può trovare accoglimento limitatamente al profilo della protezione sussidiaria del D.Lgs. n. 251 del 2007, ex art. 14, lett. c).

6. Il tribunale invero, dopo una rigorosissima analisi diretta ad individuare ogni possibile profilo di contraddittorietà o non esaustività nelle dichiarazioni rese dal ricorrente, ha escluso il riconoscimento dello status di rifugiato politico, ritenendo, nella sua discrezionalità valutativa, che “pur volendo credere al racconto del ricorrente”, “il suo marginale e recentissimo interessamento per la politica” (collocato tra gli anni 2011 e 2013) e la sua (certa) partecipazione ad un’unica manifestazione (quella del 1 settembre 2014), “non possano costituire elemento tale da giustificare un timore di persecuzione per motivi politici”.

7. Invece, nell’esaminare la domanda di protezione sussidiaria ai sensi del D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 14, lett. c), con riguardo specifico alla regione del Punjab ha escluso la sussistenza di un conflitto armato generalizzato attingendo, però, a fonti non aggiornate all’attualità, in quanto riferibili agli anni 2016 e metà 2017, senza indagare sull’aggravarsi della situazione segnalata dal ricorrente, sino a concludere che, “sebbene il Punjab si caratterizzi per una forte instabilità – anche dovuta alle operazioni di sicurezza che continuano a mietere numerose vittime – ritiene il Collegio, contrariamente a parte della giurisprudenza di merito (prodotta dalla difesa), che la zona di provenienza del ricorrente non possa dirsi caratterizzata da un conflitto armato interno”.

7.1. Al riguardo si devono rammentare le peculiarità che, nel giudizio sulla protezione internazionale, assumono l’onere probatorio del richiedente e il dovere di cooperazione tra richiedente e autorità competente nell’acquisizione e valutazione della prova (artt. 10-16 direttiva 2013/32/UE; D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 3; D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 8, comma 3 e art. 27), tanto da integrare una indiscutibile attenuazione del principio dispositivo, in funzione del principio generale di tutela giurisdizionale effettiva, sancito dagli artt. 6 e 13 della CEDU e ribadito dall’art. 47 della Carta dei diritti fondamentali dell’UE (Cass. 11564/2015 e 21255/2013).

7.2. In particolare, l’art. 46 della direttiva 2013/32/UE prevede che gli Stati membri sono tenuti ad assicurare al richiedente protezione internazionale o sussidiaria un rimedio effettivo dinanzi ad un giudice, attraverso “l’esame completo ed ex nunc degli elementi di fatto e di diritto compreso, se del caso, l’esame delle esigenze di protezione internazionale ai sensi della direttiva 2011/95/UE, quanto meno nei procedimenti di impugnazione del giudice di primo grado”.

7.3. Ne consegue che, sebbene “il richiedente sia tenuto a produrre tutti gli elementi necessari a motivare la domanda, spetta tuttavia allo Stato membro interessato cooperare con tale richiedente nel momento della determinazione degli elementi significativi della stessa. Tale obbligo di cooperazione in capo allo Stato membro implica, pertanto, concretamente che, se, per una qualsivoglia ragione, gli elementi forniti dal richiedente protezione internazionale non sono esaustivi, attuali o pertinenti, è necessario che lo Stato membro interessato cooperi attivamente alla procedura per consentire di riunire tutti gli elementi atti a sostenere la domanda. Peraltro, uno Stato membro riveste una posizione più adeguata del richiedente per l’accesso a determinati documenti” (Corte giust. UE, C-277/11, p. 65).

7.4. Anche la giurisprudenza della CEDU sull’art. 13 della Convenzione, tenuto conto “della natura irreversibile del danno che può essere causato nell’ipotesi di realizzazione del rischio tortura o maltrattamenti”, rileva che “l’effettività di un ricorso ai sensi dell’art. 13, richiede imperativamente un attento controllo da parte di un’autorità nazionale, un esame autonomo e rigoroso di ogni censura secondo la quale vi è motivo di credere a un rischio di trattamento contrario all’art. 3 (CEDU, 21 gennaio 2011, M.S.S. c. Belgio e Grecia, par. 293)”.

7.5. Sulla base dei riferiti principi, la giurisprudenza di questa Corte si è orientata nel senso che: i) il dovere di cooperazione istruttoria va posto in correlazione alla valutazione di credibilità soggettiva del richiedente, la quale però non è rimessa alla mera opinione del giudice, dovendo essere il risultato di una valutazione compiuta non già sulla base della mera mancanza di riscontri oggettivi di quanto narrato dal richiedente, bensì secondo la griglia predeterminata di criteri di cui al D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 3, comma 5 (Cass. 26921/2017, 8282/2013, 24064/2013, 16202/2012); ii) negli ambiti non assorbiti dall’eventuale difetto di credibilità, accertato nei termini appena indicati, sussiste il potere-dovere di cooperazione istruttoria del giudice, finalizzato ad acquisire ex officio una completa conoscenza della situazione legislativa e sociale dello Stato di provenienza, onde accertare la fondatezza e l’attualità del timore di danno grave dedotto (Cass. 19716/2018); iii) una volta che il richiedente abbia adempiuto all’onere di allegare i fatti costitutivi del suo diritto, sorge il potere-dovere del giudice di accertare, anche d’ufficio, se ed in quali limiti si registrino nel Paese straniero d’origine le problematiche dedotte e i rischi paventati (Cass. 17069/2018); iv) spetta al giudice della protezione internazionale il compito di colmare le lacune informative, avendo egli l’obbligo di informarsi in modo adeguato e pertinente alla richiesta – soprattutto con riferimento alle condizioni generali del Paese d’origine, allorquando le indicazioni fornite dal richiedente siano deficitarie o mancanti, avvalendosi dei poteri officiosi di indagine e di informazione di cui al D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 8, comma 3, anche attraverso il cd. C.O.I. (Country of Origin Information) – e verificare se la situazione di esposizione a pericolo per l’incolumità fisica indicata dal ricorrente, ove astrattamente sussumibile nelle tipologie tipizzate di rischio, sia effettivamente sussistente nel Paese nel quale dovrebbe essere disposto il rientro al momento della decisione (Cass. 7333/2015, 14998/2015, 17576/2017); v) il giudice non deve valutare nel merito la fondatezza dell’eventuale accusa allegata dal richiedente, ma deve accertare, ai sensi del D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 8, comma 2 e art. 14, lett. c), se tale accusa sia reale, cioè effettivamente rivolta al richiedente nel suo Paese, e dunque suscettibile di rendere attuale il rischio di persecuzione o di danno grave in relazione alle conseguenze possibili secondo l’ordinamento straniero (Cass. 2875/2018).

8. Orbene, con riguardo alla valutazione della situazione attualmente esistente nella regione del Punjab, il decreto impugnato non risulta rispettoso dei richiamati principi, nei termini sopra esposti.

9. Resta assorbito il secondo motivo, riguardante la violazione delle norme in tema di protezione umanitaria.

10. Il decreto impugnato va quindi cassato con rinvio al Tribunale di Milano, in diversa composizione, anche che per la statuizione sulle spese del presente giudizio di legittimità.

PQM

Accoglie il primo motivo di ricorso, nei sensi di cui in motivazione. Dichiara assorbito il secondo. Cassa il decreto impugnato in relazione al motivo accolto e rinvia al Tribunale di Milano – sezione specializzata in materia di protezione internazionale, in diversa composizione, cui demanda di provvedere anche sulle spese del giudizio di legittimità.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio, il 12 settembre 2019.

Depositato in Cancelleria il 23 gennaio 2020

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