Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 15073 del 19/06/2017


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Cassazione civile, sez. lav., 19/06/2017, (ud. 23/03/2017, dep.19/06/2017),  n. 15073

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. NOBILE Vittorio – Presidente –

Dott. NEGRI DELLA TORRE Paolo – Consigliere –

Dott. LORITO Matilde – rel. Consigliere –

Dott. LEO Giuseppina – Consigliere –

Dott. AMENDOLA Fabrizio – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 12130-2011 proposto da:

POSTE ITALIANE S.P.A., C.F. (OMISSIS), in persona del legale

rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIALE

MAZZINI 134, presso lo studio dell’avvocato LUIGI FIORILLO, che la

rappresenta e difende, giusta delega in atti;

– ricorrente –

contro

L.V.N.;

– intimata –

avverso la sentenza n. 3206/2010 della CORTE D’APPELLO di ROMA,

depositata il 05/05/2010 R.G.N. 9987/06.

Fatto

RILEVATO

CHE:

con sentenza depositata il 5/5/2010 la Corte d’appello di Roma, in riforma della pronuncia di primo grado, accertava la nullità del termine apposto al contratto di lavoro intercorso fra Poste Italiane s.p.a. e L.V.N. dal 1/6/01 al 30/8/01 per “incrementi di attività in dipendenza di eventi eccezionali o esigenze produttive particolari e di carattere temporaneo che non sia possibile soddisfare con il normale organico” e l’instaurazione tra le parti un rapporto a tempo indeterminato, con condanna della società al pagamento delle retribuzioni maturate dalla messa in mora (24/3/2004) al decorso del triennio dalla cessazione del rapporto (30/8/2004).

Per la cassazione della decisione della Corte territoriale ricorre Poste Italiane S.p.A. affidandosi a cinque motivi.

La parte intimata non ha svolto attività difensiva.

Diritto

CONSIDERATO

CHE:

1. con il presente ricorso si lamenta violazione e falsa applicazione dell’art. 2697 c.c. e della L. n. 230 del 1962, art. 3, in quanto si sostiene che la Corte di merito è incorsa in errore nel riversare sulla società l’onere probatorio del rispetto della clausola di contingentamento, mentre sarebbe spettato alla lavoratrice, che aveva sostenuto l’illegittimità del contratto a termine per l’asserita violazione della predetta clausola prevista dalla contrattazione collettiva, provare le ragioni della dedotta illegittimità;

2. si deduce altresì violazione dell’art. 112 c.p.c., degli artt. 115 e 116 c.p.c. e dell’art. 2697 c.c., in quanto si assume che la Corte d’appello non aveva posto a fondamento della propria decisione il prospetto contenente i dati delle assunzioni a termine prodotto dalla società, bensì la documentazione attestante la procedura di informazione sindacale prevista dall’art. 25 CCNL del 2001 relativa ai dati numerici in previsione futura e, in ogni caso, la prova dell’osservanza della clausola di contingentamento doveva desumersi dalla mancanza di contestazioni al riguardo da Parte delle organizzazioni sindacali; inoltre, la Corte non aveva dato ingresso alla prova testimoniale richiesta da entrambe le parti e nemmeno aveva cercato di acquisire le prove relative alla clausola di contingentamento nell’ambito dei suoi poteri istruttori; si chiede di accertare se l’uso dei poteri istruttori d’ufficio si presenti come un potere-dovere del cui esercizio o del cui mancato esercizio il giudice debba dare adeguata motivazione;

3. si lamenta violazione e falsa applicazione dell’art. 25 CCNL del 2001 e L. n. 56 del 1987, art. 23, per avere i giudici di merito ritenuto che la violazione della clausola di contingentamento produca conseguenze sanzionatorie sul singolo contratto a termine;

4. detti motivi, che possono congiuntamente trattarsi siccome connessi, sono infondati;

come è stato affermato da questa Corte e va qui ribadito (v., per tutte, Cass. n. 17535/14 e Cass. n. 839/10), nel regime di cui alla L. 28 febbraio 1987, n. 56, la facoltà delle organizzazioni sindacali di individuare ulteriori ipotesi di legittima apposizione del termine al contratto di lavoro è subordinata dall’art. 23 alla determinazione delle percentuali di lavoratori che possono essere assunti con contratto a termine sul totale dei dipendenti; pertanto, non è sufficiente l’indicazione del numero massimo di contratti a termine, occorrendo altresì, a garanzia di trasparenza ed a pena di invalidità dell’apposizione del termine nei contratti stipulati in base all’ipotesi individuata ex art. 23 citato, l’indicazione del numero dei lavoratori assunti a tempo indeterminato, sì da potersi verificare il rapporto percentuale tra lavoratori stabili e a termine. L’onere della prova dell’osservanza di detto rapporto è a carico del datore di lavoro, in base alle regole di cui alla L. 18 aprile 1962, n. 230, art. 3, secondo cui incombe al datore di lavoro dimostrare l’obiettiva esistenza delle condizioni che giustificano l’apposizione di un termine al contratto di lavoro” (v. in tal senso Cass. n. 21100/12);

la determinazione da parte della contrattazione collettiva, in conformità di quanto previsto dalla L. n. 56 del 1987, art. 23, della percentuale massima di contratti a termine rispetto a quelli di lavoro a tempo indeterminato nella azienda, è stabilita per la validità della clausola appositiva del termine per le causali individuate dalla medesima contrattazione collettiva (cfr., ad es., Cass. n. 20398/12);

si è anche avuto occasione di statuire (Cass. n. 14283/11, Cass. n. 4767/15) che in materia d’assunzione a termine dei lavoratori subordinati, anche nella vigenza della, L. 28 febbraio 1987, n. 56, è applicabile la disposizione di cui alla L. n. 230 del 1962, art. 3, in materia d’onere della prova a carico del datore di lavoro sulle condizioni che giustificano l’apposizione de termine al contratto di lavoro;

5. quanto all’esercizio dei poteri istruttori, si rimarca che detto potere ha carattere discrezionale e, quindi, la determinazione assunta del giudice di merito di ammetterla o meno si sottrae al sindacato di legittimità, tanto più che i poteri istruttori officiosi di cui all’art. 421 c.p.c., pur essendo preordinati al superamento di una meccanica applicazione della regola di giudizio fondata sull’onere della prova, non possono sopperire alle carenze probatorie delle parti;

nel rito del lavoro, l’esercizio di poteri istruttori d’ufficio, nell’ambito del contemperamento del principio dispositivo con quello della ricerca della verità, involge un giudizio di opportunità rimesso ad un apprezzamento meramente discrezionale, che può essere sottoposto al sindacato di legittimità soltanto come vizio di motivazione, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, qualora la sentenza di merito non adduca un’adeguata spiegazione per disattendere la richiesta di mezzi istruttori relativi ad un punto della controversia che, se esaurientemente istruito, avrebbe potuto condurre ad una diversa decisione (vedi Cass. 25/5/2010 n.12717);

il mancato esercizio da parte del giudice dei suddetti poteri non è, inoltre, censurabile con ricorso per cassazione ove la parte non abbia investito lo stesso giudice di una specifica richiesta in tal senso, indicando anche i relativi mezzi istruttori(cfr. Cass. 23/10/2014 n. 22534);

nello specifico la Corte territoriale ha già dato conto con giudizio congruo ed esente da vizi di tipo logico-giuridico, del materiale documentale ritenendo con adeguata valutazione, che la documentazione prodotta conteneva solo la previsione di future assunzioni, palesandosi peraltro priva di ogni riferimento al periodo controverso;

ha anche specificato che era irrilevante la mancata obiezione delle organizzazioni sindacali in merito alle periodiche comunicazioni circa il numero delle future assunzioni a termine, sia perchè tali comunicazioni erano inidonee a rappresentare il quadro occupazionale nei termini imposti dall’art. 25 CCNL del 2001, sia perchè l’oggetto dell’onere della prova non era la procedura consultiva sindacale, bensì la condizione di legittimità. della singola assunzione;

in ogni caso la deduzione relativa alla applicabilità della percentuale dell’8% desumibile dal doc. 21 versato in atti presenta evidenti profili di inammissibilità per la novità della questione che non risulta sollevata nel giudizio di merito;

6. con riferimento al penultimo motivo, con il quale si deduce che nè la L. n. 56 del 1987, art. 23 nè il c.c.n.l. 2001 correlano alcuna sanzione al superamento dei limiti percentuali contrattualmente previsti, deve darsi continuità alla giurisprudenza di questa Corte secondo cui la determinazione, da parte della contrattazione collettiva in conformità a quanto previsto dalla L. n. 56 del 1987, art. 23, della percentuale massima di contratti a termine rispetto a quelli di lavoro a tempo indeterminato in azienda è stabilita per la validità della clausola appositiva del termine per le causali individuate dalla medesima contrattazione collettiva (cfr., ex aliis, Cass. n. 21214/13);

7. con l’ultimo motivo è dedotta violazione e falsa applicazione degli art. 1206, 1207, 1271, 1218, 1219, 1223, 2094, 2099 e 2697 c.c. lamentandosi l’omesso accertamento in ordine allo svolgimento da parte del lavoratore, di ulteriore attività in epoca successiva alla scadenza del termine – ed invocandosi l’applicazione della L. n. 183 del 2010, art. 32, comma 5 quale ius superveniens; la doglianza attinente all’aliunde perceptum deve ritenersi assorbita in quanto va accolta l’istanza di applicazione dello jus superveniens di cui alla L. n. 183 del 2010, art. 32 quale ius superveniens, alla stregua del principio affermato da questa Corte secondo cui in tema di ricorso per cassazione, la censura ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, può concernere anche la violazione di disposizioni emanate dopo la pubblicazione della sentenza impugnata, ove retroattive e, quindi, applicabili al rapporto dedotto, atteso che non richiede necessariamente un errore, avendo ad oggetto il giudizio di legittimità non l’operato del giudice, ma la conformità della decisione adottata all’ordinamento giuridico (vedi Cass. S.U. 27/10/2016 n. 21691);

8. il ricorso va pertanto accolto in relazione all’ultimo motivo ed entro i limiti descritti, con la cassazione della sentenza impugnata e rinvio, anche per la regolazione delle spese del giudizio di legittimità, alla Corte d’Appello designata in dispositivo.

PQM

 

accoglie l’ultimo motivo di ricorso nei sensi di cui in motivazione, rigetta gli altri; cassa la sentenza impugnata in relazione al motivo accolto, e rinvia, anche per le spese del presente giudizio, alla Corte d’Appello di Roma in diversa composizione.

Così deciso in Roma, il 23 marzo 2017.

Depositato in Cancelleria il 19 giugno 2017

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