Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 15069 del 02/07/2014


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Civile Sent. Sez. L Num. 15069 Anno 2014
Presidente: VIDIRI GUIDO
Relatore: DORONZO ADRIANA

SENTENZA

sul ricorso 15010-2010 proposto da:
MARAFIOTI

MARIA

LUISA

C.F.

MRFMLS54S55D969Y,

elettivamente domiciliato in ROMA, VIA FLAMINIA 195,
presso lo studio dell’avvocato VACIRCA SERGIO, che lo
rappresenta e difende unitamente all’avvocato PAOLILLO
VINCENZO,giusta delega in atti;
– ricorrente –

2014

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contro

I.N.P.S. – ISTITUTO NAZIONALE DELLA PREVIDENZA SOCIALE
C.F. 80078750587, in persona del legale rappresentante
pro tempore, elettivamente domiciliato in ROMA, VIA

Data pubblicazione: 02/07/2014

CESARE BECCARIA 29, presso l’ Avvocatura Centrale
dell’Istituto, rappresentato e difeso dagli avvocati
RICCIO ALESSANDRO, PREDEN SERGIO, MAURO RICCI, giusta
delega in atti;
– controricorrente

di GENOVA, depositata il 22/01/2010 R.G.N. 1040/2008;
udita la relazione della causa svolta nella pubblica
udienza del 13/03/2014 dal Consigliere Dott. ADRIANA
DORONZO;
udito l’Avvocato VACIRCA SERGIO; per il rigetto del
ricorso.
udito l’Avvocato PATTERI ANTONELLA per delega PREDEN
SERGIO;
udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore
Generale Dott. FRANCESCA CERONI, che ha concluso per
il rigetto del ricorso.

avverso la sentenza n. 873/2010 della CORTE D’APPELLO

Udienza 13 marzo 2014
Aula A
Presidente Vidiri
Relatore Doronzo
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Svolgimento del processo
1.La Corte d’appello di Genova, in riforma della sentenza resa dal
Tribunale della stessa città, rigettava la domanda proposta da Maria

Luisa Marafioti, avente ad oggetto la condanna dell’Inps alla
rivalutazione ex art. 13, comma 8°, legge n.257/1992, e successive
modificazioni, dell’anzianità contributiva a seguito dell’esposizione
all’amianto subita dalla ricorrente durante la prestazione lavorativa
resa alle dipendenze di Telecom S.p.A. (già SIP) all’interno
dell’edificio denominato “Grattacielo” posto in Genova, alla via San
Vincenzo 2.
2. La Corte, dopo aver disposto la rinnovazione delle indagini peritali,
riteneva che le risultanze della consulenza tecnica meritassero di
essere condivise, in quanto in esse era stato tenuto adeguatamente
conto dell’esposizione ambientale, valutando la dispersione delle
polveri determinata dall’impianto di condizionamento, e si era
quantificataD in misura corretta e verosimile il tempo degli interventi
degli operatori della manutenzione su parti dell’edificio contenenti
amianto (smontaggio plafoniere, modifiche del layout, smontaggio
controsoffitto per passaggio cavi, operazioni di manutenzione sui fan
coils).
3. Contro la sentenza, la ricorrente propone ricorso per cassazione,
affidandolo a tre articolati motivi, illustrati da memoria ex art. 378
c.p.c. L’Inps resiste con controricorso.
Motivi della decisione
1. Con il primo motivo, la ricorrente censura la sentenza per “nullità

della sentenza e del procedimento per violazione del principio di
contestazione specifica in relazione al giudizio di primo grado e di
motivazione specifica dell’impugnazione. Violazione e falsa
applicazione artt. 416 e 434 c.p.c., violazione dell’art. 112 c.p.c.
Decisività dei vizi processuali. Art. 360, n. 5 c.p.c.- Insufficienza di

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motivazione sul fatto controverso e decisivo dell’esistenza in concreto
di un’esposizione all’amianto qualificata al fin di legge per omessa
valutazione dell’idoneità dei motivi di appello a determinare un esito
diverso del giudizio”.

1.1.- Deduce, in estrema sintesi, che, a fronte delle circostanze di fatto
allegate nel ricorso introduttivo del giudizio, l’istituto convenuto non
aveva svolto alcuna contestazione, né preso specifica posizione, con la
conseguenza che, in applicazione del principio di non contestazione,
la sua domanda avrebbe dovuto essere accolta senza bisogno di
ulteriori accertamenti.
1.1.2.- Sotto un secondo profilo, deduce l’inidoneità dei motivi di
appello a modificare l’esito del giudizio; al contrario, essi per come
erano formulati portavano al riconoscimento di un’esposizione
superiore a quella ritenuta dal consulente tecnico d’ufficio nominato in
primo grado, dal momento che non si contestavano le giornate di
esposizione all’amianto da parte della lavoratrice, ma solo la durata
giornaliera di ogni esposizione (pag. 15 ricorso per cassazione),
ritenuta inferiore a quella effettiva sulla base di due circostanze di
fatto smentite dalle risultanze di causa, ovvero l’ampiezza di ciascun
piano e il rapido dissolvimento delle fibre dopo ogni lavorazione.
1.2. – Il motivo, nella sua intera e complessa articolazione, è
infondato.
1.2.1. – Sul principio di non contestazione, deve rilevarsi che l’art. 416
(omologamente a quanto previsto dall’art. 167 c.p.c. per il rito
ordinario), imponendo al convenuto l’onere di prendere posizione sui
fatti costitutivi del diritto preteso dalla controparte, considera la “non
contestazione” un comportamento univocamente rilevante ai fini della

determinazione dell’oggetto del giudizio, con effetti vincolanti per il
giudice, che dovrà astenersi da qualsivoglia controllo probatorio del
fatto non contestato e dovrà ritenerlo sussistente, in quanto

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l’atteggiamento difensivo delle parti espunge il fatto stesso dall’ambito
degli accertamenti richiesti.
1.2.2. – Tuttavia, si precisa che, in tanto può porsi il problema della
contestazione del fatto ed assumere rilievo la non contestazione –

quale indice, in positivo e di per sé, di una linea difensiva
incompatibile con la negazione del fatto, – in quanto l’allegazione del
fatto, con tutti gli elementi costituenti ecl il suo contenuto variabile e
complesso, risulti connotata da precisione e specificità, tali da renderla
conforme al modello postulato dalla regola legale o contrattuale per
l’attribuzione del diritto.
Diversamente, il fatto resta, per ciò stesso, estraneo al potere – dovere
di contestazione, atteso il suo collegamento con quello di allegazione
(di cui costituisce riflesso processuale) posto dal citato art. 414 cod.
proc. civ., e la sua omessa deduzione (nella estensione dovuta) lo
restituisce interamente al “thema probandum” , come disciplinato
dall’art. 2697 c.c. (Cass., 8 aprile 2004, n. 6936).
1.2.3. – Ora, nell’atto introduttivo del giudizio, come trascritto nel
ricorso per cassazione in ossequio al principio di autosufficienza, la
ricorrente ha esposto una serie di circostanze di fatto caratterizzate da
estrema genericità e meramente indicative delle attività che si
svolgevano all’interno della sede di lavoro, ed in conseguenza delle
quali si asserisce essersi verificata la contaminazione ambientale con
le fibre di amianto.
La genericità emerge evidente laddove si usano espressioni come “più
volte” (lett. a ed e pag. 3 del ricorso) con riferimento ad un lungo arco

temporale (1970-1975, 1972-1987), o

“per alcuni anni”,

“ripetutamente”, “in continuazione”, “quasi mensilmente” (lett. g),

senza alcuna specificazione circa il numero degli interventi, le
concrete modalità di esecuzione, i tempi impiegati, e, soprattutto, circa
la quantità di amianto dispersa e la concreta esposizione della

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ricorrente alle fibre aeree, in ragione delle mansioni svolte e della
specifica collocazione del suo posto di lavoro.
1.2.4. – A fronte di tale genericità, non poteva sorgere in capo al
convenuto alcun obbligo di specifica contestazione, né tanto meno la

domanda poteva ritenersi provata senza ulteriori accertamenti.
Ciò che infatti viene in rilievo, con riferimento alla specifica domanda
proposta, sono le conseguenze che da tale tipo di interventi fa derivare
la ricorrente, e che l’Inps non condivide, ovvero la concreta
esposizione della ricorrente, per oltre dieci anni, all’amianto con un
livello di concentrazione delle fibre superiore a quello indicato nel
decreto n. 277 del 1991.
1.2.5. – Tale circostanza, unitamente a quella riguardante la specifica
lavorazione praticata e l’ambiente in cui tale lavorazione è stata svolta
per più di dieci anni, costituisce uno degli elementi costitutivi della
domanda, la cui prova grava sulla parte ricorrente, ai sensi dell’articolo
2697 c.c. (Cass., 1 agosto 2005, n. 16118).
Non è peraltro in dubbio che l’esposizione all’amianto, pur costituendo
un fatto ai fini della ripartizione dell’onere probatorio, possa essere
accertata con l’ausilio di una consulenza tecnica di ufficio, diretta non
solo ad accertare con indagini di carattere tecnico-scientifico le
caratteristiche specifiche dell’ambiente lavorativo e la presenza di
amianto, ma anche la concentrazione della sostanza in questione ed il
tempo di esposizione del lavoratore in ragione delle mansioni in
concreto svolte nell’arco temporale previsto.
Si tratta, tuttavia, di accertamenti connotati da una forte componente
valutativa, che sottrae l’allegazione della esistenza di esposizione
qualificata all’amianto al principio di non contestazione (cfr. Cass., 8
marzo 2007, n. 5299).
1.2.5. – Anche l’altro profilo del motivo di ricorso, riguardante la
specificità dei motivi di appello, è infondato.

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1.2.6. – Le ragioni di doglianza dell’Inps sono evidenziate con
puntualità e chiare77a nella parte espositiva della sentenza (pagg. 2 e
3): esse attengono a specifiche censure mosse alla consulenza tecnica
d’ufficio espletata nel corso del primo grado del giudizio, riguardanti

l’inesatta attribuzione di valori di esposizione ad attività (quali gli
interventi di manutenzione ordinaria e straordinaria dell’impianto di
condizionamento, le operazioni di smontaggio e montaggio delle
plafoniere di pannelli del controsoffitto) riferiti all’addetto che esegue
direttamente tale tipo di operazioni su materiale contenente amianto, e
non invece al lavoratore non addetto a tali lavori; nonché l’inesatta
ricostruzione dei lavori eseguiti; ed infine le valutazioni circa la
misura dell’esposizione, ritenuta inferiore alla soglia legale.
1.2.7. – Il giudice del merito ha dunque specificato le ragioni che lo
hanno indotto a dispone la rinnovazione della consulenza tecnica
d’ufficio in considerazione delle critiche svolte dall’appellante – così
peraltro rispondendo anche all’eccezione di inammissibilità
dell’appello -, nonché dell’opportunità di rendere omogenee le
decisioni di altre controversie pendenti dinanzi al suo ufficio,
nominando un consulente tecnico per tutte le controversie riguardanti
le medesime questioni.
1.2.8. Quanto all’altra questione, relativa alla idoneità dei motivi di
appello a sovvertire la decisione del giudice di primo grado, la parte
mostra di non distinguere tra enucleazione e specificazione del motivo
di appello, che è requisito di ammissibilità del gravame – e che il
giudice ha ritenuto sussistente – e fondatezza dello stesso (idoneità a
sovvertire la decisione), la quale può conseguire solo dall’esame nel
merito del motivo e dal giudizio sulla sua fondatezza. Non ricorre
quindi alcuna violazione dell’art. 434 c.p.c.
2. Anche il secondo motivo di ricorso è infondato. Con esso
l’appellante si duole della violazione dell’art. 196 c.p.c., in relazione
agli artt. 441 e 445 c.p.c., per violazione del contraddittorio e del
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principio di giusto processo, nonché dell’insufficiente motivazione sul
fatto controverso e decisivo dell’esistenza in concreto di gravi motivi
idonei a giustificare la rinnovazione della CTU in grado di appello.
2.1. In particolare, la ricorrente sottolinea che, in assenza di

indicazioni di fatto o dati nuovi rispetto a quelli già valutati nella
prima consulenza, ovvero in assenza di vizi o gravi lacune
dell’indagine peritale già effettuata, la facoltà suddetta trova np un
limite nella necessaria ricorrenza di gravi motivi, nella specie
insussistenti e comunque non enunciati. Per di più, nella fattispecie in
esame, la duplicazione dell’indagine si appalesava superflua avendo il
consulente nominato nel giudizio di primo grado già fornito completa
ed esauriente risposta ai quesiti formulati (e reiterati nell’ordinanza del
giudice di secondo grado) circa l’entità della esposizione ad amianto
subita dalla lavoratrice interessata. E parimenti completa ed esaustiva
era la precedente indagine peritale in ordine all’ambiente di lavoro.
Pertanto il rinnovo della consulenza d’ufficio disposta dai giudici di
appello non trovava giustificazione, essendo priva di qualsiasi
motivazione, come pure prive di motivazione erano le diverse
conclusioni cui era pervenuto il consulente nominato nel secondo
grado del giudizio partendo dalla identica situnione oggettiva già
esaminata dal primo consulente.
2.2. – Il motivo è infondato.
2.2.1. – La consulenza tecnica non è un mezzo di prova, bensì un
mezzo istruttorio sottratto alla disponibilità delle parti e affidato al
prudente apprezzamento del giudice, al quale spetta decidere sulla
esaustività degli accertamenti già compiuti e valutare l’opportunità di
disporre indagini tecniche suppletive o integrative di quelle già
espletate, ovvero di sentire a chiarimenti il consulente, nonché di
procedere alla rinnovazione delle indagini con la nomina di altri
consulenti; e l’esercizio di tale potere (così come il suo mancato
esercizio) non può essere sindacato in sede di legittimità sotto il
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profilo del difetto di motivazione, salvo che l’esigenza di procedere ad
una nuova consulenza (o di chiamare il consulente a chiarimenti o,
ancora, di effettuare accertamenti suppletivi o integrativi) sia stata
segnalata dalle parti e il giudice non ritenga di accogliere la relativa

istanza (vedi Cass. 25 novembre 2003, n. 17906; Cass., 15 luglio
2011,n. 15666).
2.2.2. – Si è precisato che la consulenza tecnica d’ufficio è mezzo
istruttorio (e non una prova vera e propria) sottratta alla disponibilità
delle parti ed affidata al prudente apprezzamento del giudice di merito,
rientrando nel suo potere discrezionale la valutazione di disporre la
nomina dell’ausiliario giudiziario (Cass. 26 giugno 2012, n. 10671).
2.2.3. – La Corte d’appello ha peraltro compiutamente motivato le
ragioni per le quali ha ritenuto di disporre il rinnovo della consulenza,
ritenuta necessaria in considerazione degli specifici motivi di appello
proposti dall’INPS, sicché anche sotto il profilo del difetto di
motivazione il motivo non può essere accolto.
3. – Con il terzo motivo, la parte denuncia ai sensi dell’art. 360, n. 5
c.p.c., “l’insufficiente e contraddittoria motivazione circa il fatto
decisivo del mancato superamento della soglia di 0,1 fibre per
centimetro cubo e dei vari aspetti del calcolo necessari al computo
dell’esposizione; omessa pronuncia su fatti decisivi considerati o non
considerati dal c.t.u. nel suddetto calcolo. Erronea ricognizione della
fattispecie concreta”. In particolare, censura la sentenza perché, nel

rigettare la domanda, si è basata unicamente sulle risultanze della
c.t.u., senza tenere in considerazione le critiche ad essa formulate
nonché gli esiti della prima c.t.u. e valutando le risultante documentali
e testimoniali acquisite “esclusivamente nella interpretazione datane
della (dalla: n.d.e.) seconda consulenza”.

Questo motivo è infondato, oltre a presentare profili di
inammissibilità.

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3.1. – La confutazione delle critiche alla c.t.u. avanzate dall’odierna
ricorrente, così come delle conclusioni raggiunte dal consulente
nominato nel primo grado, è implicita nel giudizio di piena
attendibilità ed esaustività dell’elaborato tecnico che la Corte di merito

motiva riferendo della correttezza della metodica seguita dal proprio
ausiliare – determinazione del tempo e della consistenza della
esposizione all’amianto effettuata, in relazione alle mansioni svolte da
ciascuno dei lavoratori, con l’utilizzo dei criteri, scientificamente
validi, apprestati, per la valutazione del rischio in attività similari,
dalla banca dati Amyant, generalmente accreditata – e concludendo nel
senso della non sussistenza di un rischio maggiore di quello indicato
dal CTU, perché non suffragato in causa da oggettivi elementi di
riscontro.
3.2. – Va comunque ricordato che secondo i principi ripetutamente
affermati da questa Corte, e condivisi dal Collegio, le conclusioni
della consulenza tecnica d’ufficio disposta dal giudice non possono
utilmente essere contestate in sede di ricorso per cassazione mediante
la pura e semplice contrapposizione ad esse di diverse valutazioni,
perché tali contestazioni si rivelano dirette, non già ad un riscontro
della correttezza del giudizio formulato dal giudice di appello, bensì
ad una diversa valutazione delle risultanze processuali, inammissibile
in sede di legittimità (Cfr. Cass., 17 aprile 2004, n. 7341; Cass., 30
agosto 2004, n. 17639).
L’art. 360 n. 5, c.p.c., infatti, conferisce alla Corte di Cassazione il
potere di controllare, sotto il profilo logico-formale e della correttezza
giuridica, l’esame e la valutazione fatta dal giudice del merito al quale
soltanto spetta individuare le fonti del proprio convincimento e,
all’uopo, valutarne le prove, controllarne l’attendibilità e la
concludenza, e scegliere, tra le risultanze probatorie, quelle ritenute
idonee a dimostrare i fatti in discussione. Tale principio, tuttavia, non
impone affatto che l’obbligo di motivazione debba estrinsecarsi in
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maniera

standardizzata con l’indicazione

della specifica

individuazione delle fonti probatorie ritenute idonee a suffragare la
ricostruzione operata dal giudice, potendo egli attestare di aver
compiuto le predette operazioni con una formula sintetica, ovvero

richiamando, a sostegno del suo convincimento, l’elaborato peritale
(Cass., 22 luglio 2004, n. 13747).
In altri termini, il controllo di logicità del giudizio di fatto, consentito
dall’art. 360, primo comma, n. 5 cod. proc. civ., non equivale alla
revisione del “ragionamento decisorio”, ossia dell’opzione che ha
condotto il giudice del merito ad una determinata soluzione, posto che
ciò si tradurrebbe in un nuova formulazione del giudizio di fatto, in
contrasto con la funzione assegnata dall’ordinamento al giudice di
legittimità (da ultimo, Cass., ord., 7 gennaio 2014, n. 91).
3.3. – Deve altresì ricordarsi che, qualora il ricorrente in sede di
legittimità denunci l’omessa o incongrua valutazione di un documento
ovvero di una prova testimoniale, il vizio di motivazione può ritenersi
sussistente soltanto nel caso di totale obliterazione del documento o di
elementi deducibili dal documento, oppure dalla deposizione, che si
palesino idonei a condurre – secondo una valutazione che la Corte di
cassazione esprime sul piano astratto e in base a criteri di
verosimiglianza – ad una decisione diversa da quella adottata dal
giudice di merito. Nella denuncia di questo vizio, il ricorrente ha
dunque l’onere, per il principio di autosufficienza del ricorso per
cassazione, di riprodurre il tenore esatto del documento, ovvero della
prova testimoniale, il cui omesso esame è denunciato, riportandone il
contenuto nella sua integrità, in modo da permettere siffatta
valutazione di decisività, essendo insufficienti i richiami

“per

relationem” agli atti della precedente fase del giudizio, inammissibili

in sede di legittimità (Cass., 28 febbraio 2006, n. 4405).
3.4. – Si afferma così che il ricorrente ha dunque il duplice onere imposto dall’art. 366, primo comma, n. 6, cod. proc. civ. e dall’art.
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369, secondo comma, n. 4 cod. proc. civ., a pena di improcedibilità
del ricorso – di indicare esattamente nel ricorso in quale fase
processuale ed in quale fascicolo di parte si trovi il documento in
questione, e di indicarne il contenuto, trascrivendolo o riassumendolo

nel ricorso (v. Cass., Sez. Un., 3 novembre 2011, n. 22726; da ultimo,
Cass., sez.un., ord. 7 novembre 2013, n. 25038; Cass., 7 febbraio
2011, n. 2966).
3.5. — Il motivo in esame non rispetta questi principi.
La ricorrente, invero, svolge una serie di considerazioni tese a
confutare l’operato del c.t.u., e per far ciò assembla parti di
deposizioni testimoniali acquisite in altri giudizi, circostanze
asseritamente incontestate, stralci dei precedenti atti difensivi e brani
tratti dalla consulenza svolta nel giudizio di primo grado in un unico
contesto argomentativo, in cui sovrappone e mescola elementi fattuali
— che assume documentalmente provati — con considerazioni di tipo
induttivo-deduttivo, spesso accompagnate da interrogativi e calcoli
che, piuttosto che costituire una verifica matematica dei suoi assunti,
sono modulati in funzione di asseverare le proprie tesi difensive,

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