Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 15058 del 17/07/2015


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Civile Sent. Sez. L Num. 15058 Anno 2015
Presidente: STILE PAOLO
Relatore: MANNA ANTONIO

SENTENZA

sul ricorso 18112-2012 proposto da:
COOP LIGURIA SOCIETÀ COOPERATIVA DI CONSUMO C.F.
00103220091, in persona del legale rappresentante pro
tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA
FLAMINIA 195, presso lo studio dell’avvocato SERGIO
VACIRCA, che la rappresenta e difende unitamente agli
2015
1374

avvocati STEFANO GHIBELLINI, ALESSANDRO GHIBELLINI,
giusta delega in atti;
– ricorrente contro

CIMA GIANLUCA C.F. CMIGLC69P28E463S, LERTOLA SILVANA

Data pubblicazione: 17/07/2015

C.F.

LRTSVN67H60E463S,

DI

FRAIA

DINA

C.F.

DFRDNI68M47E463J, FERRI MORENO C.F. FRRMRN68R02A373Y,
ZITOLO

MARCELLO

C.F.

ZTLMCL56M25L725N,

tutti

elettivamente domiciliati in ROMA, PIAZZA
DELL’EMPORIO 16/A, presso lo studio degli avvocati

rappresentano e difendono giusta delega in atti;

controricorrenti

avverso la sentenza n. 316/2012 della CORTE D’APPELLO
di GENOVA, depositata il 27/03/2012 R.G.N. 578/2011;
udita la relazione della causa svolta nella pubblica
udienza del 24/03/2015 dal Consigliere Dott. ANTONIO
MANNA;
udito l’Avvocato GHIBELLINI ALESSANDRO;
udito l’Avvocato DEL PUNTA RICCARDO;
udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore
Generale Dott. ALBERTO CELESTE che ha concluso per
l’accoglimento del ricorso.

ILARIA PAGNI, RICCARDO DEL PUNTA, che li

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Ud. 24.3.15
Coop. Liguria c. Cima + altri
Estensore: dott. Antonio Manna

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
Con sentenza depositata il 28.3.12 la Corte d’appello di Genova rigettava il
gravame della Coop. Liguria Società Cooperativa di Consumo contro la pronuncia

con cui 1’8.10.10 il Tribunale della Spezia aveva dichiarato illegittimi perché
sproporzionati i licenziamenti disciplinari intimati da detta Coop. a Gianluca Cima,
Dina Di Fraia, Moreno Ferri, Silvana Lertola e Marcello Zitolo, con conseguente
ordine di reintegra nel posto di lavoro di detti dipendenti e con le conseguenze
economiche ex art. 18 Stat.
Gli addebiti riguardavano l’appropriazione di beni aziendali, ossia di alcuni
prodotti alimentari del supermercato gestito dalla suddetta Coop., che i lavoratori
avevano consumato su luogo di lavoro.
Per la cassazione della sentenza ricorre Coop. Liguria Società Cooperativa di
Consumo affidandosi a quattro motivi.
Gianluca Cima, Dina Di Fraia, Moreno Ferri, Silvana Lertola e Marcello Zitolo
resistono con controricorso.
Le parti hanno depositato memoria ex art. 378 c.p.c.

MOTIVI DELLA DECISIONE
1- Con il primo motivo il ricorso lamenta violazione e falsa applicazione dell’art.
2119 c.c. e vizio di motivazione nella parte in cui la gravata pronuncia ha ritenuto
che i fatti non siano tali da giustificare la massima sanzione espulsiva (il
licenziamento senza preavviso) considerata la tenuità del valore dei generi
alimentari consumati e la scarsa consapevolezza dei lavoratori di commettere un
illecito: obietta la ricorrente che tutti i lavoratori erano stati condannati in sede
penale per i medesimi fatti e che lo stesso contegno da loro tenuto dimostra la
consapevolezza della gravità dell’appropriazione; sotto il profilo oggettivo, cioè
quello relativo alla ritenuta tenuità del danno, la Corte territoriale non ha
considerato che l’impossessamento di beni aziendali dà luogo, secondo le statistiche
prodotte nel corso del giudizio, a danni ingenti, fenomeno assai diffuso all’interno

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del supermercato della cooperativa ricorrente, al punto da essere stato più volte
segnalato dall’addetto alla sorveglianza Vatteroni.
Analoghe censure vengono, in sostanza, fatte valere con il secondo motivo sotto

forma di violazione e falsa applicazione dell’art. 2106 c.c. e di vizio di motivazione
sull’elemento intenzionale delle infrazioni, atteso che la stessa sentenza impugnata
da un lato ha svalutato l’elemento soggettivo delle condotte considerata la
disinvoltura, se non l’abitualità, delle appropriazioni, dall’altro non ha considerato
che proprio tale disinvoltura nel consumare prodotti alimentari dimostra, invece, la
gravità delle condotte medesime.
Con il terzo motivo il ricorso denuncia violazione e falsa applicazione degli artt.
1362 e 1363 c.c. e degli artt. 161 e 179 CCNL per i dipendenti da imprese della
distribuzione cooperativa, disposizioni contrattuali che prevedono il licenziamento
per giusta causa in caso di appropriazione sul luogo di lavoro di beni aziendali o di
terzi.
Con il quarto motivo il ricorso si duole di violazione e falsa applicazione degli
artt. 2697 c.c., 5 legge n. 604/66, 115 e 116 c.p.c., nonché di vizio di motivazione,
per avere la Corte territoriale trascurato che dall’istruttoria testimoniale è emerso, a
riprova della consapevolezza dell’illiceità delle condotte da parte dei lavoratori, che
essi hanno occultato la merce sottratta e adottato particolari cautele per non essere
scoperti; a tal fine il ricorso richiama varie risultanze processuali.

2- I primi tre motivi di ricorso — da esaminarsi congiuntamente perché connessi —
non possono essere accolti.
Si premetta che il perimetro del giudizio di questa Corte Suprema in tema di
giusta causa o giustificato motivo soggettivo di licenziamento è dato
dall’interpretazione delle norme cd. elastiche, ossia a variabile contenuto
assiologico, che richiedono all’interprete giudizi di valore su regole o criteri etici o
di costume o proprie di discipline e/o di ambiti anche extragiuridici.
Gli esempi, nell’ordinamento, sono innumerevoli: oltre ai concetti di giusta causa
o di giustificato motivo si pensi a quelli di buona fede nelle trattative, interesse del
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Estensore: doti. Antonio Manna

minore, concorrenza sleale, vincolo pertinenziale, carattere creativo dell’opera
dell’ingegno, importanza dell’inadempimento, danno ingiusto, stato di bisogno etc.
Ora, nulla quaestio circa l’astratta riconducibilità dell’appropriazione di beni

aziendali al concetto di giusta causa o giustificato motivo soggettivo di
licenziamento di cui agli artt. 2119 c.c. e 1 e 3 legge n. 604/66 e di cui alla
contrattazione collettiva applicata ai rapporti di lavoro in discorso.
Ma, proprio perché quella di giusta causa o giustificato motivo è una nozione
legale, la previsione della contrattazione collettiva non vincola il giudice di merito.
Egli — anzi — ha il dovere, in primo luogo, di controllare la rispondenza delle
pattuizioni collettive disciplinari al disposto dell’art. 2106 c.c. e rilevare la nullità di
quelle che prevedono come giusta causa o giustificato motivo di licenziamento
condotte per loro natura assoggettabili, ex art. 2106 c.c., solo ad eventuali sanzioni
conservative (il giudice non può — invece – fare l’inverso, cioè estendere il catalogo
delle giuste cause o dei giustificati motivi di licenziamento oltre quanto stabilito
dall’autonomia delle parti: cfr. Cass. 22.2.13 n. 4546; Cass. 17.6.11 n. 13353; Cass.
29.9.95 n. 19053; Cass. 15.2.96 n. 1173).
Solo dopo che tale verifica consenta di escludere la nullità delle clausole del
contratto collettivo in tema di comportamenti passibili di licenziamento e comunque
faccia ritenere che l’infrazione disciplinare sia astrattamente sussumibile sotto la
specie della giusta causa o del giustificato motivo di recesso, il giudice deve poi
apprezzare in concreto (e non in astratto) la gravità degli addebiti, essendo pur
sempre necessario che essi rivestano il carattere di grave negazione dell’elemento
essenziale della fiducia e che la condotta del dipendente sia idonea a porre in
dubbio la futura correttezza del suo adempimento, in quanto sintomatica di un certo
atteggiarsi del prestatore rispetto all’adempimento dei futuri obblighi lavorativi
(cfr., ex aliis, Cass. n. 2013/12; Cass. n. 2906/05; Cass. n. 16260/04; Cass. n.
5633/01).
In altre parole, vertendosi in materia disciplinare, va sempre in concreto esaminata
la gravità dell’infrazione sotto il profilo oggettivo e soggettivo e sotto quello della
futura affidabilità del dipendente a rendere la prestazione dedotta in contratto.

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Si tratta di valutazioni in punto di fatto (in quanto tali insindacabili in sede di
legittimità: cfr., ex aliis, Cass. n. 7948/11) che i giudici d’appello hanno eseguito
con motivazione immune da vizi logico-giuridici, giungendo alla conclusione

(condivisa da tutti i giudici di merito che nella precedente fase cautelare e nel primo
grado hanno conosciuto della presente controversia) che le infrazioni addebitate agli
odierni controricorrenti non siano di gravità tale, riguardo sia all’elemento oggettivo
che a quello soggettivo, da minare in modo irrimediabile il rapporto fiduciario tra le
parti.
In proposito la gravata pronuncia ha accertato la particolare tenuità del danno,
trattandosi di beni di scarso valore commerciale (secondo quel che si legge in
sentenza, un succo di frutta, quattro merendine, una bevanda in bottiglia, due
spremute di frutta e una vaschetta di gelato, il tutto ripartito fra i cinque lavoratori)
e consumati sullo stesso luogo di lavoro senza ricorrere a loro occultamento o ad
altre precauzioni sintomatiche della consapevolezza dell’ illiceità della condotta.
Né nella motivazione della gravata pronuncia si ravvisa la contraddizione
denunciata in ricorso, che risiederebbe nell’avere la Corte territoriale da un lato
svalutato l’elemento soggettivo delle condotte considerata la disinvoltura delle
appropriazioni, dall’altro omesso di considerare che proprio tale disinvoltura nel
consumare prodotti alimentari dimostrerebbe, invece, la gravità delle condotte
medesime: si tratta, infatti, solo di un diverso profilo sotto il quale le condotte
possono esaminarsi e che può teoricamente essere sintomatico tanto dell’ingenuità
di chi ritenga di non fare nulla di male nel consumare una merendina, quanto di un
abituale atteggiamento di noncuranza verso la conservazione dei beni aziendali.
Ma, giova ribadire, questo è il più classico degli apprezzamenti di merito, che
risente delle particolari connotazioni circostanziali e personali della vicenda
sottoposta all’esame dell’autorità giudiziaria.
Obietta la società ricorrente che per tali fatti i controricorrenti sono stati
condannati in sede penale: ma il giudicato penale concerne solo l’accertamento dei
fatti materiali che costituiscono l’area comune dei due processi (quello civile e
quello penale), senza vincolare l’autonomo apprezzamento del giudice del lavoro in

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termini di configurabilità della giusta causa o del giustificato motivo di
licenziamento, non potendosi automaticamente far discendere la sanzione di natura
privatistica da quella penalistica, trattandosi di illeciti e relative sanzioni che hanno

finalità e presupposti diversi.
Sostiene, ancora, la ricorrente che l’impossessamento di beni aziendali determina,
secondo le statistiche prodotte nel corso del giudizio, danni ingenti per il
supermercato: ma si tratta, da un lato, d’un accertamento di merito precluso a questa
Corte e, dall’altro, di un dato statistico che, sebbene idoneo ad inquadrare il
fenomeno nelle sue linee generali, nulla dice circa le singole personali
responsabilità dei controricorrenti, che ovviamente non possono essere chiamati a
rispondere di impossessamenti dovuti a terzi (altri loro colleghi o clienti del
supermercato).
Da ultimo, non giova alla ricorrente il richiamo – che si legge nella sua memoria
ex art. 378 c.p.c. – a Cass. n. 6219/14, perché anche in tale sentenza questa Corte
Suprema ha ribadito il principio che la valutazione sulla proporzionalità
dell’addebito rispetto alla sanzione irrogata è riservata al giudice di merito,
valutazione in quella occasione svolta senza vizi motivazionali.
Dunque, è ben possibile che la maggiore o minore gravità di infrazioni
astrattamente analoghe vengano, legittimamente, giudicate in modo diverso dai
giudici di merito, trattandosi — in realtà — di apprezzamenti non comparabili fra loro
perché devono essere calati in irripetibili contesti lavorativi e personali.

3- Neppure il quarto motivo di ricorso può essere accolto, in quanto
sostanzialmente inteso a sollecitare una generale rivisitazione del materiale
probatorio mediante accesso diretto agli atti per verificare l’esattezza della gravata
pronuncia, operazione non consentita in sede di legittimità.

4- In conclusione, il ricorso è da rigettarsi.
Le spese del giudizio di legittimità, liquidate come da dispositivo, seguono la
soccombenza.

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P.Q.M.
La Corte
rigetta il ricorso e condanna parte ricorrente a pagare le spese del giudizio di

professionali, oltre accessori come per legge.
Così deciso in Roma, in data 24.3.2015.

legittimità, liquidate in euro 100,00 per esborsi e in euro 4.000,00 per compensi

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