Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 15049 del 28/05/2021

Cassazione civile sez. I, 28/05/2021, (ud. 29/04/2021, dep. 28/05/2021), n.15049

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE PRIMA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. GENOVESE Francesco A. – Presidente –

Dott. PARISE Clotilde – Consigliere –

Dott. BELLE’ Roberto – Consigliere –

Dott. CAPRIOLI Maura – rel. Consigliere –

Dott. CARADONNA Lunella – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 16436/2020 proposto da:

I.G.L., elettivamente domiciliato in Pescara presso lo

Studio dell’avv. Danilo Colavincenzo, in via Anton Ludovico Antinori

nr 6;

– ricorrente –

contro

Ministero Dell’interno;

– resistente –

avverso il decreto del TRIBUNALE di L’AQUILA, depositata il

04/05/2020;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del

29/04/2021 da Dott. CAPRIOLI MAURA.

 

Fatto

FATTO E DIRITTO

Con Decreto n. 1075 /2020, il Tribunale di L’Aquila ha respinto la domanda di protezione internazionale proposta da I.G.L..

Il ricorrente aveva dedotto di provenire da (OMISSIS), regione dell'(OMISSIS) ((OMISSIS)); di aver intrattenuto una relazione sentimentale con una ragazza, la quale era rimasta incinta; di essere stato più volte minacciato dal fratello della donna e di aver denunciato il fatto alla polizia che lo aveva arrestato ma dopo 15 giorni era stato rimesso in libertà; di essere stato costretto a lasciare il proprio paese a causa delle continue minacce ricevute dal fratello della propria ragazza.

Il tribunale, ha valutato l’attendibilità del racconto dell’interessato alla stregua dei parametri fissati dal D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 3, comma 5, rilevando che questi,pur avendo raccontato una vicenda credibile per quella realtà, le dichiarazioni generiche erano connotate da una estrema genericità e non circostanziate evidenziando che, da un lato, non aveva prodotto copia della denuncia presentata e, dall’altro, che il pericolo paventato non fosse concreto. Ha ritenuto pertanto che le circostanze allegate non fossero comunque riconducibili ai presupposti per il riconoscimento dello status di rifugiato, essendo stata rappresentata una vicenda di carattere esclusivamente privato.

Riguardo alla protezione sussidiaria, la pronuncia ha giudicato insussistente il pericolo di un danno grave ai sensi del D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 14, lett. a) e b), mentre con riferimento all’ipotesi sub c), ha osservato che in (OMISSIS) non si configurava affatto una situazione di violenza indiscriminata, tantomeno con riferimento alla regione di provenienza del ricorrente.

In merito alla protezione umanitaria, il decreto ha negato una situazione di vulnerabilità soggettiva dell’interessato, evidenziando che questi non aveva conseguito un effettivo radicamento nel contesto italiano.

La cassazione del decreto è chiesta da I.G.L. con ricorso a due motivi.

Il Ministero è rimasto intimato.

Con il primo motivo si deduce ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3 la violazione e falsa applicazione del D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 2, comma 1, lett. g), art. 3, comma 3, lett. a), b) e c), comma 5, lett c) e del D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 8, comma 2, comma 3, art. 27, commi 1 e 1 bis.

Si lamenta che il Tribunale pur riconoscendo nella vicenda personale profili di rischio coincidenti con informazioni sulla (OMISSIS) e, in particolare, sugli ostacoli posti a matrimoni non graditi all’interno di famiglie connotate da diversità etniche o religiose, il Collegio non avrebbe vagliato la dichiarazione alla stregua dei parametri normativi venendo meno al dovere di cooperazione istruttoria assumendo informazioni aggiornate sul Paese d’origine.

Con il secondo motivo si denuncia ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5 la violazione e falsa applicazione di un fatto decisivo per il giudizio costituito dalla valutazione della condizione della (OMISSIS) in relazione alla condizione individuale del richiedente alla luce dei presupposti di cui al D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 14, lett. c) e alla protezione umanitaria di cui al D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 5, comma 6.

Si lamenta che il Tribunale, pur decidendo per la credibilità della vicenda ne avrebbe svuotato la consistenza fattuale in base alla valutazione della genericità della stessa riconducibile ad una carente valutazione di un fatto decisivo per il giudizio quale è la minaccia alla vita derivante dalla condizione generale della (OMISSIS) e dell'(OMISSIS) su cui non sono stati fatti i dovuti approfondimenti istruttori.

Si duole che il primo giudice non avrebbe svolto alcuna verifica circa la condizione dei diritti umani e sulla situazione socio-politica del Paese d’origine. Il primo motivo è infondato.

In tema di protezione internazionale, infatti, l’accertamento del giudice del merito deve avere, anzitutto, ad oggetto la credibilità soggettiva del richiedente il quale, infatti, ha l’onere di compiere ogni ragionevole sforzo per circostanziare la domanda del D.Lgs. n. 251 del 2007, ex art. 3, comma 5, lett. a), essendo possibile solo in tal caso considerare “veritieri” i fatti narrati (cfr. Cass. n. 27503 del 2018).

In materia di protezione internazionale, in effetti, il richiedente è tenuto ad allegare i fatti costitutivi del diritto alla protezione richiesta, ed, ove non impossibilitato, a fornirne la prova, trovando deroga il principio dispositivo, a fronte di un’esaustiva allegazione, attraverso l’esercizio del dovere di cooperazione istruttoria e di quello di tenere per veri i fatti che lo stesso richiedente non è in grado di provare, soltanto qualora lo stesso, oltre ad essersi attivato tempestivamente alla proposizione della domanda e ad aver compiuto ogni ragionevole sforzo per circostanziarla, superi positivamente il vaglio di credibilità soggettiva condotto alla stregua dei criteri indicati nel D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 3, comma 5 (Cass. n. 8367 del 2020, in motiv.; Cass. n. 15794 del 2019; conf., Cass. n. 19197 del 2015).

La valutazione d’inattendibilità delle dichiarazioni rese dal richiedente costituisce, peraltro, un apprezzamento di fatto rimesso al giudice del merito (Cass. n. 27503 del 2018) che, in quanto tale, può essere denunciato, in sede di legittimità, solo ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 5 e cioè per omesso esame di una o più di circostanze la cui considerazione avrebbe consentito, secondo parametri di elevata probabilità logica, una ricostruzione dell’accaduto idonea ad integrare gli estremi della fattispecie rivendicata.

Ciò premesse va osservato che nella specie con riguardo al diniego dello status di rifugiato o della protezione sussidiaria ai sensi dell’art. 14, lett. a) e b), le censure non attingono la complessiva argomentazione della pronuncia, che ha reputato decisiva la natura privata della lite e l’impossibilità di sussumere i fatti narrati tra le ipotesi di danno grave (quale pericolo di essere sottoposto alla pena capitale, alla tortura o ad altro trattamento inumano o degradante), conferendo il dovuto rilievo anche alla collocazione cronologica delle descritte vicende personali, ormai ampiamente datate.

Va osservato che le liti tra privati per ragioni proprietarie o familiari non possono essere addotte come causa di persecuzione o danno grave, nell’accezione offerta dal D.Lgs. n. 251 del 2007, trattandosi di “vicende private” estranee al sistema della protezione internazionale, non rientrando nè nelle forme dello status di rifugiato (art. 2, lett. e), nè nei casi di protezione sussidiaria (art. 2, lett. g), atteso che i c.d. soggetti non statuali possono considerarsi responsabili della persecuzione o del danno grave ove lo Stato, i partiti o le organizzazioni che controllano lo Stato o una parte consistente del suo territorio, comprese le organizzazioni internazionali, non possano o non vogliano fornire protezione contro persecuzioni o danni gravi, ma con riferimento ad atti persecutori o danno grave non imputabili ai medesimi soggetti non statuali, ma da ricondurre allo Stato o alle organizzazioni collettive di cui all’art. 5, lett. b) citato decreto (Cass. 9043/2019; Cass. 18148/2020).

Il tribunale, inoltre, ha ritenuto che non sia ravvisabile il rischio per il richiedente di subire in caso di rimpatrio nel Paese d’origine un danno grave ai sensi del D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 14, lett. c), vale a dire la minaccia grave e individuale alla vita o alla persona derivante dalla violazione indiscriminata in situazione di conflitto armato interno o internazionale.

In effetti, ai fini del riconoscimento della protezione sussidiaria, di cui al D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 14, lett. c), la nozione di violenza indiscriminata in situazioni di conflitto armato, interno o internazionale, va accertata in conformità della giurisprudenza della Corte di Giustizia UE (sentenza 30 gennaio 2014, in causa C-285/12), secondo cui il conflitto armato interno rileva solo se, eccezionalmente, possa ritenersi che gli scontri tra le forze governative di uno Stato e uno o più gruppi armati, o tra due o più gruppi armati, siano all’origine di una minaccia grave e individuale alla vita o alla persona del richiedente la protezione sussidiaria: il grado di violenza indiscriminata deve aver, pertanto, raggiunto un livello talmente elevato da far ritenere che un civile, se rinviato nel Paese o nella regione in questione, correrebbe, per la sua sola presenza sul territorio, un rischio effettivo di subire detta minaccia (Cass. n. 18306 del 2019). La decisione impugnata, a seguito di un accertamento in fatto che non è stato oggetto di una specifica censura per il mancato esame di uno o più fatti decisivi, ha escluso la sussistenza di tale eventualità. Il tribunale, infatti, ha ritenuto che, alla luce delle informazioni aggiornate, la situazione generale della (OMISSIS), con particolare riguardo alla zona di (OMISSIS), e cioè dell'(OMISSIS), non presenta una situazione di violenza generalizzata e che, nella zona di rimpatrio del richiedente, non vi è alcun conflitto armato.

Va, in definitiva, ribadito che, in tema di protezione internazionale, ai fini della dimostrazione della violazione del dovere di collaborazione istruttoria gravante sul giudice di merito, non può, difatti procedersi alla mera prospettazione, in termini generici, di una situazione complessiva del Paese di origine del richiedente diversa da quella ricostruita dal giudice, sia pure sulla base del riferimento a fonti internazionali alternative o successive a quelle utilizzate dal giudice e risultanti dal provvedimento decisorio, ma occorre che la censura dia atto in modo specifico degli elementi di fatto idonei a dimostrare che il giudice di merito abbia deciso sulla base di informazioni non più attuali, dovendo la censura contenere precisi richiami, anche testuali, alle fonti alternative o successive proposte, in modo da consentire a questa Corte l’effettiva verifica circa la violazione del dovere di collaborazione istruttoria.

Con riguardo alla protezione umanitaria giova ricordare che il riconoscimento del diritto al permesso di soggiorno per motivi umanitari di cui al D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 5, comma 6, al cittadino straniero che abbia realizzato un grado adeguato di integrazione sociale in Italia, deve fondarsi su una effettiva valutazione comparativa della situazione soggettiva ed oggettiva del richiedente con riferimento al Paese d’origine, al fine di verificare se il rimpatrio possa determinare la privazione della titolarità e dell’esercizio dei diritti umani, al di sotto del nucleo ineliminabile costitutivo dello statuto della dignità personale, in correlazione con la situazione d’integrazione raggiunta nel Paese d’accoglienza (cfr. Cass., Sez. Un., n. 29459 del 2019; Cass. n. 4455 del 2018).

Al di là delle ipotesi di tale privazione, il diritto di cui si tratta non può essere affermato in considerazione del contesto di generale e non specifica compromissione dei diritti umani accertato in relazione al Paese di provenienza, atteso che il rispetto del diritto alla vita privata di cui all’art. 8 CEDU, può soffrire ingerenze legittime da parte di pubblici poteri finalizzate al raggiungimento d’interessi pubblici contrapposti quali quelli relativi al rispetto delle leggi sull’immigrazione (v. Cass. n. 17072 del 2018).

Nè è ipotizzabile un obbligo dello Stato italiano di garantire allo straniero “parametri di benessere”, o quello di impedire, in caso di ritorno in patria, il sorgere di situazioni di ” estrema difficoltà economica e sociale”, in assenza di qualsivoglia effettiva condizione di vulnerabilità che prescinda dal risvolto prettamente economico (v. Cass. n. 3681 del 2019).

Nella specie il Tribunale ha dato conto del fatto che la vicenda dedotta in giudizio non prospettava alcuna specifica situazione di rischio ricollegabile ad un clima di generale violazione dei diritti umani nel paese di origine, ma una vicenda di carattere esclusivamente privato, ponendo in rilievo un difetto di allegazione delle circostanze legittimanti l’emissione del permesso di soggiorno per l’assenza di qualsivoglia situazione di vulnerabilità.

Il ricorso va pertanto rigettato.

Nessuna determinazione in punto spese per la mancata attività difensiva del Ministero.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso; nulla per le spese; ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello per il ricorso, ove dovuto, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.

Così deciso in Roma, il 29 aprile 2021.

Depositato in Cancelleria il 28 maggio 2021

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