Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 15046 del 17/07/2015


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Civile Sent. Sez. L Num. 15046 Anno 2015
Presidente: AMOROSO GIOVANNI
Relatore: TRIA LUCIA

SENTENZA

sul ricorso 3927-2013 proposto da:
LUCANA CARBURANTI S.R.L. C.F. 00090810763, in persona
del legale rappresentante pro tempore, domiciliata in
ROMA, PIAZZA CAVOUR, presso LA CANCELLERIA DELLA CORTE
SUPREMA DI

CASSAZIONE,

rappresentata e difesa

dall’avvocato SALVATORE PAOLO GUARINO, giusta delega
2015

in atti;
– ricorrente –

1867
contro

DI CARLO MARIA C.F. DCRMRA77T44G942U, elettivamente
domiciliata in ROMA, VIA COSSERIA N. 2, presso lo

Data pubblicazione: 17/07/2015

,

studio del dott. ALFREDO PLACIDI, rappresentata e
difesa dall’avvocato GIOVANNI SALVIA, giusta delega in
atti;
– controricorrente –

avverso la sentenza n. 378/2012 della CORTE D’APPELLO

udita la relazione della causa svolta nella pubblica
udienza del 28/04/2015 dal Consigliere Dott. LUCIA
TRIA;
udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore
Generale Dott. MARIO FRESA che ha concluso per il
rigetto del ricorso.

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di POTENZA, depositata il 08/11/2012 R.G.N. 480/2012;

Udienza del 28 aprile 2015— Aula A
n.13 del ruolo—RG n. 3927/13
Presidente: Amoroso – Relatore: Tria

1.— La sentenza attualmente impugnata accoglie l’appello di Maria Di Carlo avverso la
sentenza del Tribunale di Potenza n. 2040 del 2011 e, per l’effetto„ in riforma di tale sentenza
dichiara l’illegittimità del licenziamento intimato alla Di Carlo dalla LUCANIA CARBURANTI
s.r.l. in data 8 settembre 2005, condannando la suddetta società a reintegrare la dipendente nel posto
di lavoro e a corrisponderle l’importo delle retribuzioni globali dalla data del licenziamento fino
all’effettiva reintegra, oltre agli accessori di legge e ai contributi previdenziali e assistenziali.
La Corte d’appello di Potenza, per quel che qui interessa, precisa che:
a) va affermata, in primo luogo, la formazione del giudicato interno sulle statuizioni relative
al riconoscimento del diritto della Di Carlo al superiore inquadramento e al rigetto della domanda di
condanna al pagamento del compenso per lavoro straordinario;
b) è fondata la censura con la quale la lavoratrice contesta la sentenza di primo grado anzitutto
per avere erroneamente affermato la sussistenza del decremento del volume d’affari posto a base
della decisione di sopprimere il posto da lei occupato e quindi di licenziarla, sull’assunto secondo
cui la valutazione del trend involutivo avrebbe dovuto essere rapportata all’intero settore
ricevimento e non valutata solo sulla base dei dati del settore produttivo congressi;
c) in effetti, dall’istruttoria svolta è emerso che: a) la dipendente è stata assunta come addetta
anche al ramo commerciale; b) la datrice di lavoro non ha dimostrato la mancanza di commesse per
tale ramo; e) il settore congressuale non era un settore autonomo, ma era inserito nel ramo
commerciale e la dipendente, nel settore congressuale, non ricopriva un ruolo apicale, impegnativo
della volontà della società, ma aveva un ruolo organizzativo di complemento, svolto non alle dirette
dipendenze del direttore, ma alle dipendenze del capo ricevimento;
d) ne consegue che già al momento dell’assunzione della dipendente, secondo la società, il
settore congressuale non viveva un trend positivo, il che porta ad escludere che si sia verificata la
“mancanza di commesse” nel corso del rapporto lavorativo, posta a base del licenziamento;
e) di qui il difetto di prova sull’esatto adempimento dell’obbligo del repechage, da modulare
sull’intero settore commerciale, tanto più che è emerso che non vi è stato alcun ridimensionamento
dell’azienda dopo il recesso in oggetto e anzi non vi è stata alcuna soppressione delle mansioni della
Di Carlo, essendo stata anche assunta una nuova unità per il ricevimento;
I) il licenziamento è, pertanto, illegittimo ed è garantito da tutela reale, con risarcimento
integrale, in difetto di eccezione di aliunde perceptum.

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SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

2.— Il ricorso della LUCANIA CARBURANTI s.r.l. domanda la cassazione della sentenza per
tre motivi; resiste, con controricorso, Maria Di Carlo.
MOTIVI DELLA DECISIONE
I — Sintesi dei motivi di ricorso

1.1.— Con il primo motivo si denunciano, in relazione all’art. 360, n. 3 e n. 4, cod. proc. civ.:
a) violazione degli artt. 115 e 116 cod. proc. civ., nonché dell’art. 2909 cod. civ.; b) nullità della
sentenza per violazione del giudicato interno.
Si sostiene che la Corte d’appello, dopo avere esattamente posto in luce la connessione con la
“congressistica” dell’assunzione, delle prestazioni e del licenziamento della Di Carlo, ha tratto da
tale premessa delle conseguenze del tutto avulse dall’istruttoria svolta quando ha affermato che: a)
la dipendente è stata assunta come addetta anche al ramo commerciale; b) la datrice di lavoro non
ha dimostrato la mancanza di commesse per tale ramo; c) il settore congressuale non era un settore
autonomo, ma era inserito nel ramo commerciale e la dipendente, nel settore congressuale, non
ricopriva un ruolo apicale, impegnativo della volontà della società, ma aveva un ruolo organizzativo
di complemento, svolto non alle dirette dipendenze del direttore, ma alle dipendenze del capo
ricevimento.
Si assume che il suddetto punto della motivazione sarebbe non solo intrinsecamente
contraddittorio — perché, in parte, vi si affermerebbe la distinzione tra i due suddetti rami
dell’azienda e in parte se ne riterrebbe la unitarietà — ma sarebbe in contrasto con la statuizione,
passata in giudicato, con la quale il giudice di primo grado ha riconosciuto il diritto della dipendente
ad ottenere il terzo livello retributivo, in conseguenza della sua autonomia operativa nel settore
congressuale, unita alla responsabilità esecutiva per tale settore.
1.2.— Con il secondo motivo si denuncia, in relazione all’art. 360, n. 3, cod. proc. civ.,
violazione applicazione dell’art. 41 Cost., ulteriore violazione degli artt. 115 e 116 cod. proc. civ.,
“errata valutazione dell’istruttoria”.
Si contesta la statuizione della sentenza impugnata nella quale la Corte potentina — entrando
nel merito delle scelte aziendali, secondo la ricorrente — ha affermato che dalle risultanze probatorie
è emerso che, secondo la società, il settore congressuale non viveva un trend positivo già al
momento dell’assunzione della dipendente, il che porta ad escludere che si sia verificata la
“mancanza di commesse” nel corso del rapporto lavorativo, posta a base del licenziamento.
Si aggiunge che, invece, dalle risultanze istruttorie sarebbe emerso con chiarezza che la Di
Carlo ricopriva una posizione lavorativa del tutto peculiare assolutamente unica in organico,
soppressa la quale, essendo occupati i posti di pari o minore valenza, il licenziamento è stato una
scelta obbligata.
1.3.— Con il terzo motivo si denunciano: a) in relazione all’art. 360, n. 3, cod. proc. civ.,
violazione e omessa applicazione dell’art. 228 cod. proc. civ.; b) in relazione all’art. 360, n. 5, cod.
proc. civ., omesso esame di un fatto decisivo che è stato oggetto di discussione tra le parti.
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I .— Il ricorso è articolato in tre motivi.

Si sostiene che la Corte territoriale avrebbe erroneamente omesso di esaminare l’eccezione
dell’aliunde perceptum, affermando che non vi era stata alcuna proposizione di tale eccezione,
quando la stessa lavoratrice, in sede di interrogatorio formale in primo grado — che, ad avviso della
ricorrente, ha il valore di una confessione giudiziale — aveva confermato di avere svolto attività
lavorativa dopo il licenziamento.

Il — Esame delle censure
2.- Il ricorso non è da accogliere, per le ragioni di seguito esposte.
3.- I primi due motivi — da esaminare congiuntamente, data la loro intima connessione — sono
inammissibili.
3.1.- Nonostante il formale richiamo alla violazione di norme di legge, contenuto
nell’intestazione di entrambi i suddetti motivi, tutte le censure, sostanzialmente, si risolvono nella
denuncia di vizi di motivazione della sentenza impugnata per errata valutazione del materiale
probatorio acquisito, ai fini della ricostruzione dei fatti e quindi finiscono con l’esprimere un mero,
quanto inammissibile, dissenso rispetto alle motivate valutazioni di merito delle risultanze
probatorie di causa effettuate dalla Corte d’appello.
Deve essere ricordato, al riguardo, che la denuncia di un vizio di motivazione, nella sentenza
impugnata con ricorso per cassazione — anche nel testo dell’art. 360, n. 5, cod. proc. civ. applicabile
nella specie — non conferisce al giudice di legittimità il potere di riesaminare autonomamente il
merito della intera vicenda processuale sottoposta al suo vaglio, ma soltanto quello di controllare,
sotto il profilo della correttezza giuridica e della coerenza logico-formale, le argomentazioni svolte
dal giudice del merito, al quale spetta in via esclusiva l’accertamento dei fatti, all’esito della
insindacabile selezione e valutazione della fonti del proprio convincimento.
Con la conseguenza che — secondo il consolidato e condiviso orientamento della
giurisprudenza di questa Corte (vedi, per tutte: Cass. S.U. 27 dicembre 1997, n. 13045 e di recente,
fra le tante: Cass. 18 marzo 2013, n. 6710; Cass. 10 gennaio 2014, n. 377) il vizio di motivazione
deve emergere dall’esame del ragionamento svolto dal giudice del merito, quale risulta dalla
sentenza impugnata, e può ritenersi sussistente solo quando, in quel ragionamento, sia rinvenibile
traccia evidente del mancato (o insufficiente) esame di punti decisivi della controversia, prospettati
dalle parti o rilevabili d’ufficio, ovvero quando esista insanabile contrasto tra le argomentazioni
complessivamente adottate, tale da non consentire l’identificazione del procedimento logicogiuridico posto a base della decisione.
Non rileva, invece, la mera divergenza tra valore e significato, attribuiti dallo stesso giudice di
merito agli elementi da lui vagliati, ed il valore e significato diversi che, agli stessi elementi, siano
attribuiti dal ricorrente ed, in genere, dalle parti.
In altri termini, il controllo di logicità del giudizio di fatto — consentito al giudice di
legittimità — non equivale alla revisione del “ragionamento decisorio”, ossia dell’opzione che ha
condotto il giudice del merito ad una determinata soluzione della questione esaminata: infatti una
revisione siffatta si risolverebbe, sostanzialmente, in una nuova formulazione del giudizio di fatto,

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riservato al giudice del merito, e risulterebbe affatto estranea alla funzione assegnata
dall’ordinamento al giudice di legittimità.

Pertanto le censure sono prive di fondamento, in quanto la ricostruzione della fattispecie,
effettuata dalla Corte potentina e supportata da congrua motivazione, non risulta idoneamente
smentita dalla ricorrente e d’altra parte, è jus receptum che in tema di licenziamento per giustificato
motivo oggettivo determinato da ragioni tecniche, organizzative e produttive, compete al giudice —
che non può, invece, sindacare la scelta dei criteri di gestione dell’impresa, espressione della libertà
di iniziativa economica tutelata dall’art. 41 Cost. — il controllo in ordine all’effettiva sussistenza del
motivo addotto dal datore di lavoro, in ordine al quale il datore di lavoro ha l’onere di provare,
anche mediante elementi presuntivi ed indiziari, l’effettività delle ragioni che giustificano
l’operazione di riassetto. (vedi, per tutte: Cass. 14 maggio 2012, n. 7474; Cass. 11 luglio 2011, n.
15157).
Dalla sentenza impugnata — non efficacemente contestata, sul punto, nel presente ricorso — si
evince che la Corte territoriale, proprio esercitando il controllo che le competeva sulla sussistenza
del giustificato motivo oggettivo addotto dalla datrice di lavoro, è pervenuta, senza alcuna
contraddizione, alla conclusione che: a) la dipendente è stata assunta come addetta anche al ramo
commerciale; b) la datrice di lavoro non ha dimostrato la mancanza di commesse per tale ramo; c) il
settore congressuale non era un settore autonomo, ma era inserito nel ramo commerciale e la
dipendente, nel settore congressuale, non ricopriva un ruolo apicale, impegnativo della volontà della
società, ma aveva un ruolo organizzativo di complemento, svolto non alle dirette dipendenze del
direttore, ma alle dipendenze del capo ricevimento.
A fronte di una simile ricostruzione, la prospettazione da parte della ricorrente di un
coordinamento dei dati acquisiti al processo asseritamente migliore o più appagante rispetto a
quello adottato nella sentenza impugnata, viene a riguardare aspetti del giudizio interni all’ambito di
discrezionalità di valutazione degli elementi di prova e dell’apprezzamento dei fatti che è proprio
del giudice del merito, in base al principio del libero convincimento del giudice, tanto che la
violazione degli artt. 115 e 116 cod. proc. civ. è apprezzabile, in sede di ricorso per cassazione, nei
limiti del vizio di motivazione di cui all’art. 360, primo comma, numero 5, cod. proc. civ., e deve
emergere direttamente dalla lettura della sentenza, non già dal riesame degli atti di causa,
inammissibile in sede di legittimità (Cass. 26 marzo 2010, n. 7394; Cass. 6 marzo 2008, n. 6064;
Cass. 20 giugno 2006, n. 14267; Cass. 12 febbraio 2004, n. 2707; Cass. 13 luglio 2004, n. 12912;
Cass. 20 dicembre 2007, n. 26965; Cass. 18 settembre 2009, n. 20112).
Ipotesi, quest’ultima, che non si verifica nella specie.
4.- Anche il terzo motivo è inammissibile, in quanto le censure in esso proposte risultano
formulate senza il dovuto rispetto del principio di specificità dei motivi di ricorso per cassazione —
da intendere alla luce del canone generale “della strumentalità delle forme processuali” — in base al
quale il ricorrente che denunci il difetto di motivazione su un’istanza di ammissione di un mezzo
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3.2.- Nella specie le valutazioni delle risultanze probatorie operate dal Giudice di appello sono
congruamente motivate e l’iter logico—argomentativo che sorregge la decisione è chiaramente
individuabile, non presentando alcun profilo di violazioni di legge o di manifesta illogicità o
insanabile contraddizione.

La ricorrente — muovendo, oltretutto, dalla premessa dell’attribuzione del valore di
confessione all’interrogatorio formale, premessa che non trova corrispondenza nella consolidata
giurisprudenza di questa Corte: vedi, per tutte: Cass. 6 agosto 2014, n. 17719 e Cass. 18 settembre
2009, n. 20104 — nel sostenere che la Corte d’appello avrebbe erroneamente omesso di esaminare
l’eccezione dell’aliunde perceptum non ha dimostrato che tale eccezione era stata correttamente
proposta né ha allegato l’interrogatorio formale di primo grado della lavoratrice nel quale
l’interessata avrebbe dichiarato di avere svolto attività lavorativa dopo il licenziamento.

III — Conclusioni
5.- In sintesi, il ricorso deve essere respinto. Le spese del presente giudizio di cassazione —
liquidate nella misura indicata in dispositivo — seguono la soccombenza., dandosi atto della
sussistenza dei presupposti di cui all’art. 13, comma 1-quater, del d.P.R. n. 115 del 2002, introdotto
dall’art. 1, comma 17, della legge n. 228 del 2012.

P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso e condanna la società ricorrente al pagamento delle spese del
presente giudizio di cassazione, liquidate in euro 100,00 (cento/00) per esborsi, euro 3500,00
(tremilacinquecento/00) per compensi professionali, oltre accessori come per legge.
Ai sensi dell’art. 13, comma 1-quater, del d.P.R. n. 115 del 2002, introdotto dall’art. 1,
comma 17, della legge n. 228 del 2012, si dà atto della sussistenza dei presupposti per il
versamento, da parte della ricorrente principale, dell’ulteriore importo a titolo di contributo
unificato, pari a quello dovuto per il ricorso principale, a norma del comma 1-bis dello stesso art.
13.
Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della Sezione lavoro, il .j c9/4 /2 Ori 5 –

istruttorio o sulla valutazione di un documento o di risultanze probatorie o processuali, ha l’onere di
indicare nel ricorso specificamente le circostanze oggetto della prova o il contenuto del documento
trascurato od erroneamente interpretato dal giudice di merito (trascrivendone il contenuto
essenziale), fornendo al contempo alla Corte elementi sicuri per consentirne l’individuazione e il
reperimento negli atti processuali, potendosi così ritenere assolto il duplice onere, rispettivamente
previsto dall’art. 366, primo comma, n. 6, cod. proc. civ. (a pena di inammissibilità) e dall’art. 369,
secondo comma, n. 4 cod. proc. civ. (a pena di improcedibilità del ricorso), nel rispetto del relativo
scopo, che è quello di porre il Giudice di legittimità in condizione di verificare la sussistenza del
vizio denunciato senza compiere generali verifiche degli atti e soprattutto sulla base di un ricorso
che sia chiaro e sintetico (vedi, per tutte: Cass. SU 11 aprile 2012, n. 5698; Cass. SU 3 novembre
2011, n. 22726; Cass. 14 settembre 2012, n. 15477; Cass. SU 3 novembre 2011, n. 22726).

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