Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 15045 del 17/07/2015


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Civile Sent. Sez. L Num. 15045 Anno 2015
Presidente: VENUTI PIETRO
Relatore: MAISANO GIULIO

SENTENZA

sul ricorso 20925 2009 proposto da:

POSTE ITALIANE S.P.A. C.F. 97103880585, in persona
del legale rappresentante pro tempore, elettivamente
domiciliata in ROMA, VIA PO 25/B, presso lo studio
dell’avvocato PESSI ROBERTO, che la rappresenta e
difende giusta delega in atti;
– ricorrente –

2015

contro

1834

GRANARELLI

GIOVANNA

C. F.

GRNGNN69H66A271K,

elettivamente domiciliata in ROMA, VIA ITALO CARLO
FALBO 22, presso lo studio dell’avvocato ANGELO

Data pubblicazione: 17/07/2015

COLUCCI, che la rappresenta e difende, giusta delega
in atti;
– contrar:a:corrente –

avverso la sentenza n. 483/2008 della CORTE D’APPELLO
di ANCONA, depositata il 07/10/2008 R.G.N. 279/2007;

udienza del 23/04/2015 dal Consigliere Dott. GIULIO
MAISANO;
udito l’Avvocato BUTTAFOCO ANNA per delega verbale
‘PESSI ROBERTO;
udito l’Avvocato COLUCCI ANGELO;
udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore
Generale Dott. GIOVANNI GIACALONE che ha concluso per
il rigetto del ricorso.

udita la relazione della causa svolta nella pubblica

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
Con sentenza del 7 ottobre 2008 la Corte d’appello di Ancona ha
confermato la sentenza del Tribunale di Ancona del 20 marzo 2006 con la
quale era stata dichiarata la nullità del termine apposto al contratto di
lavoro stipulato da Poste Italiane s.p.a. con Granarelli Giovanna per il

periodo 7 marzo 2000 — 30 giugno 2000 ai sensi dell’art. 8 del CCNL 26
novembre 1994 per esigenze eccezionali conseguenti alla fase di
ristrutturazione degli assetti occupazionali in corso e in ragione della
graduale introduzione di nuovi processi produttivi ed in attesa
dell’attuazione del progressivo e completo equilibrio sul territorio delle
risorse umane. La Corte territoriale ha considerato che il contratto in
questione era stato stipulato oltre il termine di validità del contratto
collettivo che autorizzava l’apposizione del termine ai contratti di lavoro.
La stessa Corte territoriale ha pure considerato che la mera inerzia del
lavoratore non è indice della volontà di risolvere il rapporto per cui ha
escluso che il rapporto in questione si sia risolto per mutuo consenso.
Poste Italiane ha proposto ricorso per cassazione avverso tale sentenza
affidato a tre motivi illustrati da memoria.
Resiste la Granarelli con controricorso.
MOTIVI DELLA DECISIONE
Con il primo motivo si deduce violazione e/o falsa applicazione dell’art.
1372, comma 1 e 2 cod. civ. nonché omessa, insufficiente o contraddittoria
motivazione circa un fatto controverso e decisivo per il giudizio, e nullità
del procedimento ex art. 360, mi. 3, 4 e 5 cod. proc. civ. con riferimento
alla mancata considerazione della risoluzione del rapporto per mutuo
consenso.

,?

o

Con il secondo motivo del ricorso principale si lamenta violazione o falsa
applicazione degli artt. 1362, 1363 e segg., e omessa, insufficiente e/o
contraddittoria motivazione circa un fatto controverso e decisivo per il
giudizio ex art. 360, nn. 3 e 5 cod. proc. civ. con riferimento alla
considerata limitata efficacia temporale della previsione collettiva relativa

Con il terzo motivo si deduce violazione o falsa applicazione di norme di
diritto, e omessa, insufficiente o contraddittoria motivazione ex art. 360,
nn. 3 e 5 cod. proc. civ. con riferimento alla necessità della prova da parte
del lavoratore, del danno subito a causa dell’illegittima apposizione del
termine.
Il primo motivo è infondato. Come questa Corte ha più volte affermato
“nel giudizio instaurato ai fini del riconoscimento della sussistenza di un
unico rapporto di lavoro a tempo indeterminato, sul presupposto
dell’illegittima apposizione al contratto di un termine finale ormai scaduto,
affinché possa configurarsi una risoluzione del rapporto per mutuo
consenso, è necessario che sia accertata – sulla base del lasso di tempo
trascorso dopo la conclusione dell’ultimo contratto a termine, nonché del
comportamento tenuto dalle parti e di eventuali circostanze significative una chiara e certa comune volontà delle parti medesime di porre
definitivamente fine ad ogni rapporto lavorativo” (v. Cass. 10-11-2008 n.
26935, Cass. 28-9-2007 n. 20390, Cass. 17-12-2004 n. 23554, nonché da
ultimo Cass. 18-11-2010 n. 23319, Cass. 11-3-2011 n. 5887, Cass. 4-82011 n. 16932). La mera inerzia del lavoratore dopo la scadenza del
contratto a temine, quindi, “è di per sè insufficiente a ritenere sussistente
una risoluzione del rapporto per mutuo consenso” (v. da ultimo Cass. 1511-2010 n. 23057, Cass. 11-3-2011 n. 5887), mentre “grava sul datore di
lavoro”, che eccepisca tale risoluzione, “l’onere di provare le circostanze
dalle quali possa ricavarsi la volontà chiara e certa delle parti di volere

L

all’apposizione del termine ai rapporti di lavoro.

porre definitivamente fine ad ogni rapporto di lavoro” (v. Cass. 2-12-2002
n. 17070 e fra le altre da ultimo Cass. 1-2-2010 n. 2279, Cass. 15-11-2010
n. 23057, Cass. 11-3-2011 n. 5887). Tale principio, del tutto conforme al
dettato di cui agli art. 1372 e 1321 c.c., va ribadito anche in questa sede,
così confermandosi l’indirizzo prevalente ormai consolidato, basato in
sostanza sulla necessaria valutazione dei comportamenti e delle circostanze

di fatto, idonei ad integrare una chiara manifestazione consensuale tacita di
volontà in ordine alla risoluzione del rapporto, non essendo all’uopo
sufficiente il semplice trascorrere del tempo e neppure la mera mancanza,
seppure prolungata, di operatività del rapporto.
Al riguardo, infatti, non può condividersi il diverso indirizzo che, valorizza
esclusivamente il “piano oggettivo” nel quadro di una presupposta
valutazione sociale “tipica”, fondata sull’art. 1372 c.c., comma 1 e sui
principi di settore in materia di rapporto di lavoro subordinato (v. Cass. 67-2007 n. 15264 e da ultimo Cass. 5-6- 2013 n. 14209).
In primo luogo la norma codicistica non prevede affatto una valorizzazione
esclusiva del mero “piano oggettivo” e neppure stabilisce una sorta di
“clausola generale” che consenta una siffatta valorizzazione.
Stabilendo che il contratto “non può essere sciolto che per mutuo consenso
o per cause ammesse dalla legge”, la nonna richiede, anzi, chiaramente un
“mutuo consenso”, che ben può esprimersi con una manifestazione
negoziale tacita, attraverso comportamenti significativi tenuti dalle parti,
certamente valutabili anche sul piano oggettivo, ma pur sempre
Sct.

necessariamente concludenti, univoci e tali’ evidenziare una volontà
risolutoria o, se si vuole (nel quadro di una crescente “oggettivazione” del
contratto), un completo e definitivo disinteresse alla attuazione del rapporto
(v. fra le altre Cass. 29-3-1995 n. 3753, Cass. 15-6-2001 n. 8106, Cass. 119-2003 n. 13370, circa la necessità, comunque, che la durata della
cessazione della funzionalità di fatto del rapporto sia accompagnata da

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circostanze e modalità tali da evidenziare un siffatto disinteresse).
In altre parole, non può prescindersi dal presupposto che la risoluzione per
mutuo consenso tacito costituisce pur sempre una manifestazione negoziale
che, in quanto tale, seppure tacita, non può essere configurata su un piano
esclusivamente oggettivo. D’altra parte, il mero decorso del tempo e la

delle ipotesi tipiche fissate dalla legge, di per sè è irrilevante. Nè può essere
sufficiente al fme della risoluzione del rapporto per mutuo consenso tacito
la mera cessazione della funzionalità di fatto del rapporto stesso, tanto più
che nel rapporto di lavoro possono anche intervenire numerose ipotesi di
sospensione, previste dalla legge o derivanti dalla volontà delle parti (v. fra
le altre Cass. 7- 7-1998 n. 6615). Orbene nella fattispecie la Corte di
merito, dopo aver richiamato la giurisprudenza prevalente di legittimità, ha
rilevato che 0.~.~.eci , “vuoi l’obiettivo dato cronologico, vuoi le
considerazioni soggettive che si sono svolte escludono che l’appellata abbia
inteso, per facta concludentia, risolvere il rapporto con Poste Italiane”. Tale
accertamento di fatto, conforme ai principi sopra richiamati, risulta altresì
congruamente motivato e resiste alla censura della ricorrente.
Pure il secondo motivo è infondato. Osserva il Collegio che la Corte di
merito ha attribuito rilievo decisivo alla considerazione che il contratto in
esame è stato stipulato, per esigenze eccezionali ai sensi dell’art. 8 del
CCNL del 1994, come integrato dall’accordo aziendale 25 settembre 1997,
in data successiva al 30 aprile 1998 (e anteriormente alla operatività del
CCNL del 2001), in epoca cioè in cui “era venuta meno la contrattazione
autorizzatoria”. Tale considerazione, in base all’indirizzo ormai consolidato
in materia dettato da questa Corte (con riferimento al sistema vigente
anteriormente al CCNL del 2001 ed al d.lgs. n. 368 del 2001), è sufficiente
a sostenere l’impugnata decisione, in relazione alla nullità del termine
apposto al contratto de quo. Al riguardo, sulla scia di Cass. S.U. 2 marzo

mera inerzia del lavoratore costituiscono un semplice fatto che, al di fuori

2006 n. 4588, è stato precisato che “l’attribuzione alla contrattazione
collettiva, ex art. 23 della legge n. 56 del 1987, del potere di definire nuovi
casi di assunzione a termine rispetto a quelli previsti dalla legge n. 230 del
1962, discende dall’intento del legislatore di considerare l’esame congiunto
delle parti sociali sulle necessità del mercato del lavoro idonea garanzia per

della predeterminazione della percentuale di lavoratori da assumere a
termine rispetto a quelli impiegati a tempo indeterminato) e prescinde,
pertanto, dalla necessità di individuare ipotesi specifiche di collegamento
fra contratti ed esigenze aziendali o di riferirsi a condizioni oggettive di
lavoro o soggettive dei lavoratori ovvero di fissare contrattualmente limiti
temporali all’autorizzazione data al datore di lavoro di procedere ad
assunzioni a tempo determinato” (v. Cass. 4 agosto 2008 n. 21063, Cass. 20
aprile 2006 n. 9245, Cass. 7 marzo 2005 n. 4862, Cass. 26 luglio 2004 n.
14011). “Ne risulta, quindi, una sorta di “delega in bianco” a favore dei
contratti collettivi e dei sindacati che ne sono destinatari, non essendo
questi vincolati alla individuazione di ipotesi comunque omologhe a quelle
previste dalla legge, ma dovendo operare sul medesimo piano della
disciplina generale in materia ed inserendosi nel sistema da questa
delineato.” (v., fra le altre, Cass. 4 agosto 2008 n. 21062, Cass. 23 agosto
2006 n. 18378). In tale quadro, ove però, come nel caso di specie, un limite
temporale sia stato previsto dalle parti collettive (anche con accordi
integrativi del contratto collettivo) la sua inosservanza determina la nullità
della clausola di apposizione del termine (v. fra le altre Cass. 23 agosto
2006 n. 18383, Cass. 14 aprile 2005 n. 7745, Cass. 14 febbraio 2004 n.
2866). In particolare, quindi, come questa Corte ha costantemente
affermato e come va anche qui ribadito, “in materia di assunzioni a termine
di dipendenti postali, con l’accordo sindacale del 25 settembre 1997,
integrativo dell’art. 8 del CCNL 26 novembre 1994, e con il successivo

i lavoratori ed efficace salvaguardia per i loro diritti (con l’unico limite

accordo attuativo, sottoscritto in data 16 gennaio 1998, le parti hanno
convenuto di riconoscere la sussistenza della situazione straordinaria,
relativa alla trasformazione giuridica dell’ente ed alla conseguente
ristrutturazione aziendale e rimodulazione degli assetti occupazionali in
corso di attuazione, fino alla data del 30 aprile 1998. Ne consegue che deve
1998, per carenza del presupposto normativo derogatorio, con l’ulteriore
conseguenza della trasformazione degli stessi contratti a tempo
indeterminato, in forza dell’art. 1 della legge 18 aprile 1962 n. 230” (v., fra
le altre, Cass. 1 ottobre 2007 n. 20608; Cass. 28 novembre 2008 n. 28450;
Cass. 4 agosto 2008 n. 21062; Cass. 27 marzo 2008 n. 7979, Cass.
18378/2006 cit.). Tanto basta per respingere il motivo di ricorso in esame
relativo al limite temporale a cui sono subordinate le assunzioni a termine.
delle Poste Italiane, così confermandosi la declaratoria di nullità del
termine apposto al contratto de quo.
Il terzo motivo è inammissibile per carenza di valido quesito di diritto,
risulta del tutto generico e non pertinente rispetto alla fattispecie, in quanto
si risolve nella enunciazione in astratto delle regole vigenti nella materia,
senza enucleare il momento di conflitto rispetto ad esse del concreto
accertamento operato dai giudici di merito (in tal senso v. fra le altre Cass.
4 gennaio 2001 n. 80). Il quesito di diritto, richiesto a pena di
inammissibilità del relativo motivo, in base alla giurisprudenza consolidata
di questa Corte, deve infatti essere formulato in maniera specifica e deve
essere chiaramente riferibile alla fattispecie dedotta in giudizio (v. ad es.
Cass. S.U. 5 gennaio 2007 n. 36), dovendosi pertanto ritenere come
inesistente un quesito generico e non pertinente. Del resto è stato anche
precisato che “è inammissibile il motivo di ricorso sorretto da quesito la
cui formulazione si risolve sostanzialmente in una omessa proposizione
del quesito medesimo, per la sua inidoneità a chiarire l’errore di diritto

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escludersi la legittimità delle assunzioni a termine cadute dopo il 30 aprile

imputato alla sentenza impugnata in riferimento alla concreta fattispecie”
(v. Cass. S.U. 30 ottobre 2008 n. 26020), dovendo in sostanza il quesito
integrare (in base alla sola sua lettura) la sintesi logico-giuridica della
questione specifica sollevata con il relativo motivo (cfr. Cass. 7 aprile 2009
n. 8463). Peraltro neppure può ignorarsi che nella fattispecie anche la
in quanto si incentra nella doglianza circa la mancanza di una verifica da
parte della Corte territoriale sul punto, senza che la ricorrente indichi se e
in che modo il punto stesso (per nulla trattato nell’impugnata sentenza) sia
stato oggetto di specifico motivo di appello da parte della società (cfr. Cass.
15 febbraio 2003 n. 2331, Cass. 10 luglio 2001 n. 9336).
In memoria si invoca lo jus superveniens, costituito dal disposto della L.
n. 183 del 2010, art. 32, in tema di risarcimento danni in caso di
illegittima apposizione del termine al contratto di lavoro.
Con riferimento alla tutela indennitaria introdotta dal Legislatore del 2010
va ribadita l’inammissibilità della relativa domanda, stante la ritenuta
inammissibilità del motivo di ricorso riguardante il risarcimento del danno
che comporta il passaggio in giudicato della relativa statuizione.
È stato infatti ritenuto (tra le tante, Cass. 4363/2009) che la formazione
della cosa giudicata per mancata impugnazione, o per inammissibile
impugnazione, su un determinato capo della sentenza investita dal
gravame, può verificarsi soltanto con riferimento ai capi della stessa
sentenza completamente autonomi, in quanto concernenti questioni affatto
indipendenti da quelle investite dai motivi di impugnazione, perché
fondate su autonomi presupposti di fatto e di diritto, tali da consentire che
ciascun capo conservi efficacia precettiva anche se gli altri vengono
meno, mentre, invece, non può verificarsi sulle affermazioni contenute
nella sentenza che costituiscano mera premessa logica della statuizione
adottata, ove quest’ultima sia oggetto del gravame. Infatti, ove fosse stata ./fi

illustrazione del motivo risulta del tutto generica e priva di autosufficienza

&

travolta la prima statuizione sull’illegittimità del termine sarebbe
fatalmente venuta meno la statuizione sul quantum, in forza dell’effetto
fn.coudia cw;

espansivo previsto dall’art. 336 cod. proc. civ., ithel la riforma o la

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cassazione produce effetti sui capi dipendenti. Si cita, in questi casi,
l’istituto del giudicato apparente, destinato cioè a venir meno ove venga
quest’ultima venga confermata, non può che formarsi la preclusione sulla
questione del quantum, in quanto non sottoposta ad impugnazione o
comunque impugnata in modo dichiarato inammissibile, come nel caso in
esame. in altri termini, ove fossero state accolte, in questa sede, le censure
proposte sulla illegittimità del termine apposto al rapporto di lavoro,
sarebbe stata travolta la dipendente decisione sul quantum, ma una volta
che la prima è stata confermata, non è consentito alla Corte di esaminare
la seconda, nei cui confronti non è stata proposta valida impugnazione. Né
questi principi possono essere travolti dallo ius superveniens, in quanto la
relativa applicazione deve pur sempre essere coordinata con il regime
delle impugnazioni. È stato infatti affermato (ex multis, Cass.
15357/2012) che i principi della rilevabilità, anche d’ufficio, dello ius
superveniens e della sua applicabilità nei giudizi in corso non operano
indiscriminatamente, ma devono essere coordinati con quelli che regolano
l’onere dell’impugnazione e le relative preclusioni, con la conseguenza che
la loro operatività trova ostacolo nel giudicato interno formatosi in
relaziont alle questioni, sulla decisione delle quali avrebbe dovuto
incidere la normativa sopravvenuta, e nella conseguente inesistenza di
controversie in atto sui relativi punti. .?‘’ In altri termini, il passaggio in
giudicato della statuizione relativa al risarcimento, preclude il diritto di
invocare lo ius superveniens retroattivo.
Il ricorso sulla base delle esposte considerazioni, in conclusione, va
rigettato.

id

travolta la statuizione principale di sostegno. Una volta però che

Le spese di giudizio, liquidate in dispositivo, seguono la soccombenza.
P.Q.M.
La Corte di Cassazione rigetta il ricorso;
Condanna la ricorrente al pagamento delle spese di giudizio liquidate in
complessive E 100,00 per esborsi ed

e 3.500,00 per compensi professionali

Così deciso in Roma il 23 aprile 2015.

oltre accessori di legge.

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