Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 15035 del 16/06/2017


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Cassazione civile, sez. trib., 16/06/2017, (ud. 05/04/2017, dep.16/06/2017),  n. 15035

 

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. CAPPABIANCA Aurelio – Presidente –

Dott. GRECO Antonio – Consigliere –

Dott. ESPOSITO Antonio Francesco – Consigliere –

Dott. IANNELLO Emilio – rel. Consigliere –

Dott. LA TORRE Maria Enza – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso iscritto al n. 17102/2013 R.G. proposto da:

B.F., rappresentato e difeso dall’Avv. Giovanni

Serafino, con domicilio eletto in Roma, via G. Ferrari, n. 11,

presso lo studio dell’Avv. Massimo Tirone;

– ricorrenti –

contro

Agenzia delle entrate, rappresentata e difesa dall’Avvocatura

Generale dello Stato, con domicilio eletto in Roma, via dei

Portoghesi, n. 12, presso l’Avvocatura Generale dello Stato;

– controricorrente –

avverso la sentenza della Commissione tributaria regionale del

Molise, n. 43/3/12 depositata il 21 maggio 2012.

Udita la relazione svolta nella pubblica udienza del 5 aprile 2017

dal Consigliere Dott. Emilio Iannello;

udito l’Avv. Giovanni Serafino;

udito l’Avvocato dello Stato Bruno Dettori;

udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore

generale Dott. BASILE Tommaso, che ha concluso chiedendo

l’inammissibilità del ricorso o, in subordine, il rigetto.

Fatto

FATTI DI CAUSA

1. Pronunciando in controversia relativa all’impugnazione proposta dalla società S.A.C.I. S.r.l. e dal suo socio unico B.F. avverso avvisi di accertamento emessi per il recupero, a fini Irpeg, Irpef, Irap e Iva per l’anno d’imposta 2001, di ricavi non dichiarati dalla società (riferibili a un contratto di sublocazione di immobile intercorrente tra la predetta società e la consorella S.A.C.I. 2 S.r.l.) e del maggior reddito di capitale conseguentemente presunto in capo al socio, la C.T.R. del Molise accoglieva l’appello proposto dall’Ufficio, confermando gli accertamenti impugnati; respingeva, per contro, in mancanza di prova da parte della contribuente, la tesi difensiva secondo cui la sublocataria non aveva versato i canoni dovuti per l’anno in questione e disconosceva altresì la sussistenza di costi detraibili relativi ai canoni di locazione che a sua volta la contribuente, per la medesima unità immobiliare, era tenuta a corrispondere alla proprietaria, risultando dagli atti che in realtà tali canoni non erano mai stati versati.

2. Avverso tale sentenza B.F., in proprio e quale ex socio della S.A.C.I. S.r.l. (nelle more cancellata dal registro delle imprese), propone ricorso per cassazione, con due mezzi, cui resiste l’Agenzia delle entrate con controricorso.

Il ricorrente ha depositato memoria ex art. 378 cod. proc. civ..

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

1. Con il primo motivo di ricorso B.F. deduce violazione e falsa applicazione del D.P.R. n. 917 del 1986, art. 109, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, per non avere la C.T.R. fatto applicazione del principio di correlazione costi/ricavi in virtù del quale l’Ufficio, a fronte dei maggiori ricavi accertati rispetto a quelli risultanti dalla dichiarazione, avrebbe dovuto tener conto anche dei maggiori costi e oneri di competenza e, segnatamente, nella specie, di quelli rappresentati dal canone di locazione annuo dovuto alla proprietaria dell’immobile, indipendentemente dalla loro omessa contabilizzazione.

2. Con il secondo motivo il ricorrente denuncia violazione e falsa applicazione dell’art. 112 c.p.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4, assumendo che la C.T.R., nello statuire, in accoglimento dell’appello, la “conferma degli accertamenti impugnati” è incorsa in vizio di ultrapetizione, investendo tale statuizione anche un tema di lite (l’accertamento della maggiore Iva pretesa, dichiarato illegittimo con la sentenza di primo grado) sul quale, non essendo esso attinto da specifico motivo d’appello, si era formato il giudicato interno.

3. Con il proposto controricorso l’Agenzia delle entrate eccepisce preliminarmente l’inammissibilità del ricorso, per carenza di legittimazione in capo al ricorrente, in quanto proposto dallo stesso quale successore della S.A.C.I. S.r.l..

Tale eccezione è infondata.

Va invero riconosciuta legittimazione del ricorrente a proseguire il giudizio anche quale successore della suindicata società in ragione della documentata e, peraltro, non contestata sua qualità di socio della stessa, nelle more cancellata dal registro delle imprese.

E’ noto infatti che ai sensi dell’art. 2495 c.c. (nel testo, applicabile nel caso di specie ratione temporis, risultante dopo la riforma del diritto societario, attuata dal D.Lgs. 17 gennaio 2003, n. 6), a seguito dell’estinzione della società, si determina un fenomeno di tipo successorio, in virtù del quale l’obbligazione della società non si estingue ma si trasferisce ai soci, i quali ne rispondono, nei limiti di quanto riscosso a seguito della liquidazione o illimitatamente, a seconda che, pendente societate, fossero limitatamente o illimitatamente responsabili per i debiti sociali (Cass. Sez. U, 12/03/2013, n. 6070 e n. 6072).

L’effettiva liquidazione e ripartizione dell’attivo e, prima ancora, ovviamente, la sua sussistenza (tutte circostanze nel caso di specie per vero non provate e neppure allegate) – se costituisce fondamento sostanziale e misura (nonchè limite) della responsabilità di ciascuno dei successori – non può però anche ritenersi presupposto della assunzione, in capo al socio, della qualità stessa di successore e, correlativamente, della legittimazione ad causam ai fini della prosecuzione del processo ai sensi dell’art. 110 c.p.c..

Sul punto, per quanto sia noto l’opposto indirizzo espresso da diversi precedenti (Cass. 23/11/2016, n. 23916 e, in precedenza, Cass. 26/06/2015, n. 13259; ancora più esplicita Cass. 31/01/2017, n. 2444), ritiene questo collegio di dover prestare adesione a più recente orientamento, secondo cui quello precedente e qui abbandonato non può ritenersi in linea con i principi affermati dalle Sezioni Unite, che individuano, invece, sempre nei soci coloro che son destinati a succedere nei rapporti debitori già facenti capo alla società cancellata, ma non definiti all’esito della liquidazione, indipendentemente, dunque, dalla circostanza che essi abbiano goduto di un qualche riparto in base al bilancio finale di liquidazione (Cass. 07/04/2017, n. 9094).

Si osserva, infatti, nei citati arresti delle Sezioni Unite, con efficace sintesi, che “il successore che risponde solo intra vires dei debiti trasmessigli non cessa, per questo, di essere un successore; e se il suaccennato limite di responsabilità dovesse rendere evidente l’inutilità per il creditore di far valere le proprie ragioni nei confronti del socio, ciò si rifletterebbe sul requisito dell’interesse ad agire (ma si tenga presente che il creditore potrebbe avere comunque interesse all’accertamento del proprio diritto, ad esempio in funzione dell’escussione di garanzie) ma non sulla legittimazione passiva del socio medesimo”.

Peraltro, come pure condivisibilmentre osservato nel citato precedente di Cass. n. 9094 del 2017, che i soci abbiano goduto, o no, di un qualche riparto in base al bilancio finale di liquidazione non è dirimente neanche ai fini dell’esclusione dell’interesse ad agire del Fisco creditore. Si è al riguardo ipotizzato il caso, che le stesse Sezioni Unite hanno esaminato, di diritti e beni non compresi nel bilancio di liquidazione della società estinta, i quali pur sempre si trasferiscono ai soci, in regime di contitolarità o comunione indivisa, con la sola esclusione delle mere pretese, ancorchè azionate o azionabili in giudizio, e dei crediti ancora incerti o illiquidi, la cui inclusione in detto bilancio avrebbe richiesto un’attività ulteriore (giudiziale o extragiudiziale), il cui mancato espletamento da parte del liquidatore consente di ritenere che la società vi abbia rinunciato, a favore di una più rapida conclusione del procedimento estintivo (vedi, al riguardo, Cass. 19 ottobre 2016, n. 21105, che ha riconosciuto l’interesse ad agire del creditore che abbia esperito azione revocatoria ove la società debitrice alienante si sia estinta per cancellazione dal registro delle imprese). La possibilità di sopravvenienze attive o anche semplicemente la possibile esistenza di beni e diritti non contemplati nel bilancio non consentono, dunque, di escludere l’interesse dell’Agenzia a procurarsi un titolo nei confronti dei soci, in considerazione della natura dinamica dell’interesse ad agire, che rifugge da considerazioni statiche allo stato degli atti.

Non può conseguentemente dubitarsi nemmeno della sussistenza in capo all’ex socio della legittimazione attiva, pur in caso di incertezza o attuale mancanza di attivo e, conseguentemente, del relativo riparto, essa discendendo dalla qualità di successore che, per le esposte considerazioni, occorre comunque riconoscere al socio anche in tale contesto.

4. Venendo quindi all’esame dei motivi del ricorso principale, deve rilevarsi l’infondatezza del primo di essi.

Secondo pacifico indirizzo della giurisprudenza di legittimità, invero, in tema di accertamento delle imposte sui redditi, l’onere della prova dei presupposti di deducibilità dei costi ed oneri concorrenti alla determinazione del reddito d’impresa, ivi compresa la loro inerenza e la loro diretta imputazione ad attività produttive di ricavi, tanto nella disciplina del D.P.R. n. 597 del 1973 e del D.P.R. n. 598 del 1973, che del D.P.R. n. 917 del 1986, incombe al contribuente. Inoltre, poichè nei poteri dell’amministrazione finanziaria in sede di accertamento rientra la valutazione della congruità dei costi e dei ricavi esposti nel bilancio e nelle dichiarazioni, con negazione della deducibilità di parte di un costo sproporzionato ai ricavi o all’oggetto dell’impresa, l’onere della prova dell’inerenza dei costi, gravante sul contribuente, ha ad oggetto anche la congruità dei medesimi (v. Cass., Sez. 5, n. 4554 del 25/02/2010, Rv. 611839; Sez. 5, n. 11240 del 30/07/2002, Rv. 556397).

Nel caso di specie la C.T.R. si è pienamente conformata a tale principio e non si vede, pertanto, sotto tale profilo, spazio alcuno per le censure svolte dal ricorrente, il quale in buona sostanza sembra postulare, senza alcun fondamento, l’esistenza di una regola contraria che imponga di presumere sempre e comunque l’esistenza di costi correlati ai maggiori ricavi accertati.

5. E’ altresì infondato il secondo motivo di ricorso.

I motivi dell’appello accolto dalla C.T.R., riguardando la legittimità della presunzione di maggiori ricavi, come tali rilevanti nella ricostruzione delle basi imponibili di ciascuna delle diverse imposte cui sono riferibili accertamenti, investivano indubbiamente questi ultimi con riferimento a tutte le maggiori imposte pretese, di guisa che non può ritenersi incorrere in ultrapetizione la statuita legittimità degli accertamenti medesimi nella loro interezza.

6. Il ricorso pertanto va rigettato, con la conseguente condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali, liquidate come da dispositivo.

PQM

 

rigetta il ricorso. Condanna il ricorrente al pagamento, in favore della controricorrente, delle spese processuali liquidate in Euro 6.500 per compensi, oltre alle spese prenotate a debito.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1-quater, inserito dalla L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso principale, a norma del comma 1-bis, dello stesso art. 13.

Così deciso in Roma, il 5 aprile 2017.

Depositato in Cancelleria il 16 giugno 2017

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