Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 15035 del 15/07/2020

Cassazione civile sez. I, 15/07/2020, (ud. 02/07/2020, dep. 15/07/2020), n.15035

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE PRIMA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. CAMPANILE Pietro – Presidente –

Dott. PARISE Clotilde – Consigliere –

Dott. TERRUSI Francesco – Consigliere –

Dott. CAIAZZO Rosario – Consigliere –

Dott. CARADONNA Lunella – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso n. 1083/2019 proposto da:

O.H., rappresentata e difesa dall’Avv. Vittorio Sannover ed

elettivamente domiciliata presso il suo studio in Foggia, in virù

di mandato in calce al ricorso per cassazione.

– ricorrente –

contro

Ministero dell’Interno, in persona del Ministro in carica,

domiciliato ex lege in Roma, Via dei Portoghesi, 12, presso gli

uffici dell’Avvocatura Generale dello Stato.

– controricorrente –

avverso il decreto del Tribunale di BARI n. cronol. 8158/2018 del 10

novembre 2018;

udita la relazione della causa svolta nella Camera di consiglio del

02/07/2020 dal Consigliere Dott. Lunella Caradonna.

Fatto

FATTI DI CAUSA

1. O.H., nata in (OMISSIS), ha proposto ricorso avverso la decisione della Commissione territoriale competente dell’1 febbraio 2018, che aveva rigettato la domanda volta al riconoscimento dello status di rifugiato e le domande di protezione sussidiaria e umanitaria.

2. La richiedente ha dichiarato di essere nata a (OMISSIS) e di essersi poi trasferita a (OMISSIS) nel (OMISSIS); che aveva perso il suocero e il marito in seguito ad alcuni scontri con gli anziani del villaggio che avevano avanzato pretese su un terreno appartenente alla famiglia del marito; che era fuggita con i suoi tre figli piccoli per timore di essere uccisa e che non voleva tornare in patria per timore di essere uccisa dai familiari di suo marito che la stavano ancora cercando.

3. Il Tribunale ha rigettato il ricorso, ritenendo il racconto della richiedente generico e stereotipato e nel complesso contraddittorio e, quindi inattendibile

4. O.H. ricorre in cassazione con quattro motivi.

5. L’Amministrazione intimata ha depositato controricorso.

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

1. Con il primo motivo O.H. lamenta la violazione del D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 3, comma 5, non avendo applicato il Tribunale il principio dell’onere probatorio attenuato e per non avere valutato la credibilità della richiedente alla luce dei parametri stabiliti dal D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 3, comma 5.

1.1 Il motivo è inammissibile.

Come si evince dalla lettura del provvedimento impugnato, il Tribunale ha ritenuto che, proprio alla stregua del racconto della richiedente, non sussistevano i presupposti della protezione del D.Lgs. n. 251 del 2007, ex art. 7, poichè non erano state dedotte situazioni di persecuzione intesa quale vessazione o repressione violenta implacabile e ha, altresì, specificato le incongruenze e le contraddizioni del racconto alle pagine 2 e 3 del provvedimento impugnato.

Il Tribunale ha, quindi, compiuto un accertamento in fatto, non più censurabile in sede di legittimità, in esito al quale hanno ritenuto inattendibile la narrazione del richiedente, elemento questo di fondamentale importanza, poichè secondo la giurisprudenza della Corte di Cassazione “In materia di protezione internazionale, il richiedente è tenuto ad allegare i fatti costitutivi del diritto alla protezione richiesta, e, ove non impossibilitato, a fornirne la prova, trovando deroga il principio dispositivo, soltanto a fronte di un’esaustiva allegazione, attraverso l’esercizio del dovere di cooperazione istruttoria e di quello di tenere per veri i fatti che lo stesso richiedente non è in grado di provare, soltanto qualora egli, oltre ad essersi attivato tempestivamente alla proposizione della domanda e ad aver compiuto ogni ragionevole sforzo per circostanziarla, superi positivamente il vaglio di credibilità soggettiva condotto alla stregua dei criteri indicati nel D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 3, comma 5” (Cass., 12 giugno 2019, n. 15794).

Con la conseguenza che l’attenuazione dell’onere probatorio a carico del richiedente non esclude l’onere di compiere ogni ragionevole sforzo per circostanziare la domanda e con l’ulteriore corollario che il giudice deve valutare se le dichiarazioni del richiedente siano coerenti e plausibili, ma pur sempre a fronte di dichiarazioni sufficientemente specifiche e circostanziate.

Ciò nel rispetto dei principi affermati da questa stessa Corte sull’onere della prova in materia di protezione internazionale, materia che non si sottrae al principio dispositivo, pur nei limiti esposti in relazione al principio della cooperazione istruttoria del giudice, principio quest’ultimo che concerne il versante dell’allegazione e non quello della prova (Cass., 29 ottobre 2018, n. 27336).

Non si può, quindi, dire omessa alcuna attività da parte del giudice di merito, perchè proprio la genericità delle dichiarazioni rese dalla ricorrente e le incongruenze presenti nelle stesse non hanno consentito di valutare la loro coerenza e plausibilità rispetto alle condizioni generali del paese di origine, nè la ricorrente ha indicato il contenuto delle allegazioni da verificare, quand’anche in via ufficiosa.

2. Con il secondo motivo O.H. lamenta l’omessa valorizzazione di prove e riscontri perchè il Tribunale non aveva indicato le sicure fonti internazionali prese a riscontro della situazione del luogo d’origine.

2.1 Il motivo è inammissibile.

In proposito, va ribadito il principio per cui “Nei giudizi di protezione internazionale, a fronte del dovere del richiedente di allegare, produrre o dedurre tutti gli elementi e la documentazione necessari a motivare la domanda, la valutazione delle condizioni socio-politiche del Paese d’origine del richiedente deve avvenire, mediante integrazione istruttoria officiosa, tramite l’apprezzamento di tutte le informazioni, generali e specifiche di cui si dispone pertinenti al caso, aggiornate al momento dell’adozione della decisione, sicchè il giudice del merito non può limitarsi a valutazioni solo generiche ovvero omettere di individuare le specifiche fonti informative da cui vengono tratte le conclusioni assunte, potendo incorrere in tale ipotesi, la pronuncia, ove impugnata, nel vizio di motivazione apparente” (Cass., 22 maggio 2019, n. 13897; Cass., 17 maggio 2019, n. 13449; Cass., 26 aprile 2019, n. 11312).

Nel caso di specie, la decisione impugnata soddisfa i suindicati requisiti, posto che essa indica le fonti in concreto utilizzate, aggiornate a giugno 2017, a pag. 3 del provvedimento impugnato, e il contenuto delle notizie sulla condizione del Paese tratte da dette fonti, consentendo in tal modo alla parte la duplice verifica della provenienza e della pertinenza dell’informazione.

3. Con il terzo motivo O.H. lamenta la violazione del D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 8, art. 14, lett. c), D.Lgs. n. 251 del 2007, non avendo il Tribunale riconosciuto la sussistenza di una minaccia grave alla vita del cittadino derivante da una situazione di violenza indiscriminata.

3.1 Il motivo è inammissibile.

Il Tribunale ha evidenziato che il paese di provenienza della ricorrente non evidenzia particolari criticità sotto il profilo della sicurezza, all’infuori di talune zone, ben diverse da quelle di provenienza della ricorrente e che nella zona di provenienza della ricorrente (Edo State) non risulta esservi l’esistenza di un conflitto armato in senso stretto, concentrato, invece, per la presenza dell’organizzazione terroristica di (OMISSIS), nel nord del paese.

A fronte di tale accertamento, le circostanze indicate dalla ricorrente, non risultano decisive in quanto non vengono dedotte situazioni di violenza idonee ad integrare il presupposto previsto dal D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 14, lett. c).

Questa Corte ha affermato, anche di recente, che, ai fini del riconoscimento della protezione sussidiaria del D.Lgs. n. 251 del 2007, ex art. 14, lett. c), la nozione di violenza indiscriminata in situazione di conflitto armato, interno o internazionale, dev’essere interpretata nel senso che il conflitto armato interno rileva solo se, eccezionalmente, possa ritenersi che gli scontri tra le forze governative di uno Stato o uno o più gruppi armati, o tra due o più gruppi armati, siano all’origine di una minaccia grave ed individuale alla vita o alla persona del richiedente la protezione sussidiaria (Cass., 2 ottobre 2019, n. 24647).

Ciò in conformità con la giurisprudenza della Corte di giustizia dell’Unione Europea secondo cui i rischi a cui è esposta in generale la popolazione di un paese o di una parte di essa di norma non costituiscono di per sè una minaccia individuale da definirsi come danno grave, potendo l’esistenza di un conflitto armato interno portare alla concessione della protezione sussidiaria solamente nella misura in cui si ritenga eccezionalmente che gli scontri tra le forze governative di uno Stato e uno o più gruppi armati o tra due o più gruppi armati siano all’origine di una minaccia grave e individuale alla vita o alla persona del richiedente la protezione sussidiaria, ai sensi dell’art. 14, lett. c), della direttiva, a motivo del fatto che il grado di violenza indiscriminata che li caratterizza raggiunge un livello talmente elevato da far sussistere fondati motivi per ritenere che un civile rinviato nel paese in questione o, se del caso, nella regione in questione correrebbe, per la sua sola presenza sul territorio di questi ultimi, un rischio effettivo di subire la detta minaccia Europea (Corte di Giustizia, causa C-285/12, Diakitè, sentenza 30 gennaio 2014 e causa C-465/07, Elgafaji, sentenza 17 febbraio 2009).

Alla luce degli enunciati principi, la censura del ricorrente si risolve in una generica critica del ragionamento logico posto dal giudice di merito a base dell’interpretazione degli elementi probatori del processo e, in sostanza, nella richiesta di una diversa valutazione degli stessi, ipotesi integrante un vizio motivazionale non più proponibile in seguito alla modifica dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, apportata dal D.L. 22 giugno 2012, n. 83, art. 54, convertito con modificazioni dalla L. 7 agosto 2012, n. 134, che richiede che il giudice di merito abbia esaminato la questione oggetto di doglianza, ma abbia totalmente pretermesso uno specifico fatto storico, e si esaurisce nella “mancanza assoluta di motivi sotto l’aspetto materiale e grafico”, nella “motivazione apparente”, nel “contrasto irriducibile tra affermazioni inconciliabili” e nella “motivazione perplessa e obiettivamente incomprensibile”, mentre resta irrilevante il semplice difetto di “sufficienza” della motivazione. (Cass., 13 agosto 2018, n. 20721).

4. Con il quarto motivo O.H. lamenta la violazione del D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 5, comma 6, mancando del tutto l’esame della sussistenza dei requisiti per la protezione umanitaria.

4.1 Il motivo è inammissibile.

Il Tribunale ha evidenziato che gli elementi acquisiti nel processo non offrivano alcuna evidenza in ordine ad una peculiare situazione di vulnerabilità della ricorrente e che non era sufficiente, a tali fini, la relazione psicologica prodotta che parlava di disturbo post traumatico da stress, peraltro in fase recessiva, e di stupro, evento di cui non vi era traccia nell’audizione in Commissione; nè poteva ritenersi sussistente un percorso di integrazione in ragione della sola durevole permanenza nel territorio italiano.

Sul punto, deve rammentarsi che il diritto al permesso di soggiorno per motivi umanitari presuppone l’esistenza di situazioni non tipizzate di vulnerabilità dello straniero, risultanti da obblighi internazionali o costituzionali, conseguenti al rischio del richiedente di essere immesso, in esito al rimpatrio, in un contesto sociale, politico ed ambientale idoneo a costituire una significativa ed effettiva compromissione dei suoi diritti fondamentali (Cass., 22 febbraio 2019, n. 5358).

Con particolare riferimento al parametro dell’inserimento sociale e lavorativo dello straniero in Italia, questo, tuttavia, può assumere rilevanza non quale fattore esclusivo, bensì quale circostanza che può concorrere a determinare una situazione di vulnerabilità personale da tutelare mediante il riconoscimento di un titolo di soggiorno (Cass. 23 febbraio 2018, n. 4455).

Ed infatti, il riconoscimento del diritto al permesso di soggiorno per motivi umanitari deve fondarsi su una effettiva valutazione comparativa della situazione soggettiva ed oggettiva del richiedente con riferimento al paese d’origine, al fine di verificare se il rimpatrio possa determinare la privazione della titolarità e dell’esercizio dei diritti umani, al di sotto del nucleo ineliminabile costitutivo dello statuto della dignità personale, in correlazione con la situazione d’integrazione raggiunta nel Paese d’accoglienza e, tuttavia, non può essere riconosciuto al cittadino straniero il diritto al permesso di soggiorno per motivi umanitari, considerando, isolatamente ed astrattamente, il suo livello di integrazione in Italia, nè il diritto può essere affermato in considerazione del contesto di generale e non specifica compromissione dei diritti umani accertato in relazione al Paese di provenienza atteso che il rispetto del diritto alla vita privata di cui all’art. 8 CEDU, può soffrire ingerenze legittime da parte di pubblici poteri finalizzate al raggiungimento d’interessi pubblici contrapposti quali quelli relativi al rispetto delle leggi sull’immigrazione, particolarmente nel caso in cui lo straniero non possieda uno stabile titolo di soggiorno nello Stato di accoglienza, ma vi risieda in attesa che sia definita la sua domanda di riconoscimento della protezione internazionale (Cass., 28 giugno 2018, n. 17072; Cass., Sez. U., 13 novembre 2019, n. 29459).

Nel caso di specie, la ricorrente non ha mai assolto, nell’intero ricorso, l’onere di allegare e descrivere le circostanze di fatto, personali e peculiari, anche diverse da quelle poste a fondamento delle altre ed infondate domande di protezione, che costituiscono riscontro della sussistenza della condizione di grave violazione dei diritti umani e, per ciò solo, giustificative della richiesta di protezione umanitaria

5. Il ricorso va, conclusivamente, dichiarato inammissibile.

Le spese di lite seguono la soccombenza e sono liquidate come in dispositivo.

P.Q.M.

Dichiara inammissibile il ricorso.

Condanna O.H. alla rifusione, in favore del Ministero dell’Interno, delle spese del giudizio di legittimità, che si liquidano nella somma di Euro 2.100, oltre alle spese prenotate a debito.

Ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater, nel testo introdotto dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17, si dà atto della la sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis, ove dovuto.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio, il 2 luglio 2020.

Depositato in Cancelleria il 15 luglio 2020

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