Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 15013 del 07/07/2011

Cassazione civile sez. I, 07/07/2011, (ud. 29/04/2011, dep. 07/07/2011), n.15013

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE PRIMA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. ROVELLI Luigi Antonio – Presidente –

Dott. SALVAGO Salvatore – rel. Consigliere –

Dott. FORTE Fabrizio – Consigliere –

Dott. GIANCOLA Maria Cristina – Consigliere –

Dott. CAMPANILE Pietro – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso 11901/2010 proposto da:

IMPRESA STEFANELLI S.R.L. (c.f. (OMISSIS)), in persona del legale

rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA

TARANTO 95 – PAL. B, SC. D, INT. 2, presso l’avvocato MONACO Mauro,

che la rappresenta e difende unitamente all’avvocato ALTAMURA FRANCO,

giusta procura in calce al ricorso;

– ricorrente –

contro

ZURIGO S.A., COMUNE DI CASALPUSTERLENGO, S.M. (C.F.

(OMISSIS)), B.G., N.T., AXA

ASSICURAZIONI S.P.A. (C.F. (OMISSIS)), T.M. (C.F.

(OMISSIS)), UBI ASSICURAZIONI S.P.A.;

– intimati –

nonchè da:

B.G. (c.f. (OMISSIS)), S.M. (c.f.

(OMISSIS)), elettivamente domiciliati in ROMA, VIA F. DENZA

15, presso l’avvocato IZZO ANIELLO, che li rappresenta e difende

unitamente all’avvocato BARBETTA EDGARDO, giusta procura a margine

del controricorso e ricorso incidentale;

– controricorrenti e ricorrenti incidentali –

contro

ZURICH INSURANCE PUBLIC LIMITED COMPANY (c.f. (OMISSIS)), nella

qualità di avente causa per cessione del portafoglio di ZURICH

INSURANCE COMPANY S.A. – COMPAGNIA DI ASSICURAZIONI, in persona del

Procuratore pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA G.G.

BELLI 27, presso l’avvocato PIERI-NERLI GIOVANNI, che la rappresenta

e difende unitamente all’avvocato CATTANEO DANIELE, giusta procura in

calce al controricorso al ricorso incidentale;

– controricorrente al ricorso incidentale –

contro

COMUNE DI CASALPUSTERLENGO, N.T., AXA ASSICURAZIONI S.P.A.,

IMPRESA STEFANELLI S.R.L., T.M., UBI ASSICURAZIONI

S.P.A.;

– intimati –

nonchè da:

COMUNE DI CASALPUSTERLENGO (LO) (c.f. (OMISSIS)), in persona del

Sindaco pro tempore, elettivamente domiciliato in ROMA, VIA DI

RIPETTA 142, presso l’avvocato FERRARI GIUSEPPE FRANCO, che lo

rappresenta e difende, giusta procura a margine del controricorso e

ricorso incidentale;

– controricorrente e ricorrente incidentale –

contro

ZURIGO S.A., B.M., B.G., N.T., AXA

ASSICURAZIONI S.P.A., IMPRESA STEFANELLI S.R.L., T.M.,

UBI ASSICURAZIONI S.P.A.;

– intimati –

nonchè da:

IMPRESA STEFANELLI S.R.L. (c.f. (OMISSIS)), in persona del legale

rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA

TARANTO 95 – PAL. B, SC. D, INT. 2, presso l’avvocato MONACO MAURO,

che la rappresenta e difende unitamente all’avvocato ALTAMURA FRANCO,

giusta procura in calce al ricorso notificato;

– controricorrente e ricorrente incidentale –

contro

ZURIGO S.A., COMUNE DI CASALPUSTERLENGO, S.M.,

B.G., N.T., AXA ASSICURAZIONI S.P.A.,

T.M., UBI ASSICURAZIONI S.P.A.;

– intimati –

nonchè da:

COMUNE DI CASALPUSTERLENGO (LO) (c.f. (OMISSIS)), in persona del

Sindaco pro tempore, elettivamente domiciliato in ROMA, VIA DI

RIPETTA 142, presso l’avvocato FERRARI GIUSEPPE FRANCO, che lo

rappresenta e difende, giusta procura a margine del controricorso e

ricorso incidentale;

– controricorrente e ricorrente incidentale –

contro

ZURIGO S.A., S.M., B.G., N.T., AXA

ASSICURAZIONI S.P.A., IMPRESA STEFANELLI S.R.L., T.M.,

UBI ASSICURAZIONI S.P.A.;

– intimati –

avverso la sentenza n. 2358/2009 della CORTE D’APPELLO di MILANO,

depositata il 11/09/2009;

udita la relazione della causa svolta nella Pubblica udienza del

29/04/2011 dal Consigliere Dott. SALVATORE SALVAGO;

udito, per la ricorrente principale, l’Avvocato MAURO MONACO che ha

chiesto l’accoglimento del ricorso principale ed il rigetto degli

incidentali;

udito, i controricorrenti e ricorrenti incidentali B. e

S., l’Avvocato ANIELLO IZZO che ha chiesto il rigetto del

ricorso principale e comunque si riporta agli scritti;

udito, per la controrìcorrente al ricorso incidentale ZURIGO S.A.,

l’Avvocato PIERI NERLI che ha chiesto il rigetto del ricorso

principale riportandosi agli scritti;

udito, per il controricorrente e ricorrente incidentale Comune,

l’Avvocato CHIARA GIUBILEO, con delega, che ha chiesto il rigetto del

ricorso principale, l’accoglimento dei propri incidentali;

udito il P.M., in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

CESQUI Elisabetta, che ha concluso per il rigetto di tutti i ricorsi.

Fatto

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

1. Il Tribunale di Lodi, con sentenza del 14 aprile 2004, condannava il comune di Casalpusterlengo al pagamento del saldo pari ad Euro 19.022,07 dei lavori di adeguamento tecnologico della piscina comunale affidati in appalto alla impresa Stefanelli s.r.l. con contratto del 6 maggio 1996; condannava quest’ultima al risarcimento dei danni provocati al comune per i vizi ed i difetti dell’opera nella complessiva misura di Euro 33.308,22, nonchè per il ritardo con cui la stessa era stata consegnata nella misura di Euro 7.230,40;

e dichiarava il difetto di giurisdizione del giudice ordinario sulla richiesta di manleva del comune nei confronti degli architetti B.G. e S.M., progettisti dell’opera.

In parziale accoglimento dell’appello del comune, la Corte di appello di Milano, con sentenza dell’11 settembre 2009 (per quanto qui ancora interessa) ha dichiarato, invece, la giurisdizione del giudice ordinario su quest’ultima richiesta; ha respinto i contrapposti motivi di gravame dell’impresa e del comune reciprocamente formulati, e confermato la condanna dei progettisti a rifondere alla s.a. Zurigo le spese processuali. Ha osservato: a) che era inammissibile la pretesa risarcitoria dell’impresa appaltatrice per le dedotte carenze progettuali, in mancanza di tempestiva riserve al riguardo; b) che nessun corrispettivo le spettava per i lavori non previsti dal capitolato che la stessa asseriva di aver eseguito, mancando al riguardo la necessaria autorizzazione della stazione appaltante; c) che era ammissibile la richiesta risarcitoria del comune per i vizi e le difformità dell’opera riscontrati già in sede di collaudo definito il 10 dicembre 1997 e fatti valere prima dello spirare del termine di prescrizione di cui all’art. 1667 cod. civ.: tuttavia correttamente liquidata dal Tribunale con riferimento ai soli difetti manifestati durante il collaudo suddetto, e con esclusione quindi di quelli autonomamente accertati dalla consulenza tecnica; d) che il comune aveva diritto anche alla penale determinata nell’ammontare massimo di L. 28 milioni (pur se poi elevati a 30 milioni con un accordo transattivo concluso tra le parti il 27 febbraio 1997), considerando l’originario termine di ultimazione previsto dal capitolato, nonchè le proroghe e la disposta sospensione dei lavori.

Per la cassazione della sentenza, l’impresa Stefanelli ha proposto ricorso per 4 motivi; cui resiste con controricorso il comune di Casalpusterlengo, il quale ha formulato a sua volta ricorso per 6 motivi. Anche il B. ed il S. hanno prodotto ricorso incidentale per un motivo.

Diritto

MOTIVI DELLA DECISIONE

2. I ricorsi vanno, anzitutto riuniti ai sensi dell’art. 335 cod. proc. civ., perchè proposti contro la medesima sentenza. Con il primo di quello principale, la soc. Steffanelli, deducendo violazione del R.D. n. 350 del 1895, artt. 53, 54 e 107, e succ. integr. censura la sentenza impugnata per avere respinto la propria richiesta risarcitoria per le carenze progettuali denunciate (ed accertata dalla c.t., ritenendo che nessuna riserva era stata formulata al riguardo in sede di avanzamento dei lavori, senza considerare: a) che la natura risarcitoria del credito, non riferibile agli stati di avanzamento dei lavori, nè ad alcuna delle lavorazioni previste in contratto non imponeva l’iscrizione di alcuna riserva; b) che comunque la riserva era stata formulata, in data 28 luglio 1997 in occasione della sottoscrizione del conto finale; c) che il Consorzio non ne aveva nè in quella sede nè successivamente eccepito la mancanza, fatta valere soltanto con la comparsa di costituzione il primo grado.

Le censure sono in parte inammissibili ed in parte infondate, muovendo tutte da un’erronea prospettazione della natura e finalità dell’istituto della riserva.

La sentenza impugnata non contiene alcun riferimento alla questione (implicante necessari accertamenti di fatto) della avvenuta iscrizione della riserva da parte dell’impresa in occasione della sottoscrizione dello stato finale dei lavori, nè di quella relativa alle contestazioni al riguardo della stazione appaltante, che comunque secondo la stessa impresa ha formulato la relativa eccezione nella comparsa di costituzione nel giudizio di primo grado; per cui la ricorrente avrebbe potuto evitare una statuizione d’inammissibilità, per novità, delle relative censura soltanto se avesse asserito di aver dedotto le questioni davanti al giudice “a quo”, ed indicato anche in quale atto e-o in quale momento del giudizio precedente lo abbia fatto: in modo da dare al Collegio il modo di controllare, ex actis, la veridicità di tale asserzione prima di passare al merito. Laddove l’impresa non ha asserito nemmeno di aver dedotto la questione al giudice di appello, che d’altra parte non l’ha riportata neppure allorchè ha riassunto il contenuto dell’atto di impugnazione.

Nel merito, il Collegio deve ribadire che dal combinato disposto del R.D. n. 350 del 1895, artt. 53, 54 e 64, si ricava la regola che nei pubblici appalti, l’appaltatore, ove intenda contestare la contabilizzazione dei corrispettivi effettuata dall’Amministrazione, e, comunque, avanzare pretese a maggiori compensi o ad indennizzi e danni a qualsiasi titolo, è tenuto ad iscrivere tempestivamente apposita riserva nel registro di contabilità, o in altri documenti, ad esporre, nel modo e nei termini indicati dalla legge, gli elementi atti ad individuare la sua pretesa nel titolo e nella somma e, infine, a confermare la riserva all’atto della sottoscrizione del conto finale.

Invero, siccome l’attuazione dell’opera pubblica, dalla gara di appalto, alla consegna dei lavori, alla loro esecuzione ed al collaudo, si articola in fasi successive attraverso un procedimento formale e vincolato, svolgentesi in una serie di registrazioni e certificazioni, alla cui formazione l’appaltatore è chiamato di volta in volta a partecipare, allo stesso è imposto l’onere di contestare immediatamente tutte le circostanze che riguardano le prestazioni (eseguite o non), e che siano suscettibili di produrre un incremento delle spese previste, attraverso un atto, pur esso a forma vincolata quanto a tempo e modalità di formulazione, che deve essere perciò ottemperato sotto pena di decadenza: ciò non soltanto per un dovere di lealtà contrattuale e per l’esigenza di tempestivi controlli, ma, come ripetutamente evidenziato da dottrina e giurisprudenza, specialmente nell’interesse pubblico di consentire all’amministrazione appaltante la tempestiva verifica delle contestazioni, attesa la necessità della continua evidenza della spesa dell’opera in funzione della corretta utilizzazione e della eventuale integrazione dei mezzi finanziari per essa predisposti (sent., da 2613/1976; sez. un. 2168/1973; da ultimo 13399/1999;

13734/2003; 5540/2004). Da qui la conseguenza, resa evidente dal riferimento dell’art. 53 a tutte “le domande che l’appaltatore crede di fare” che detto sistema non ammette la distinzione prospettata dall’impresa tra pretese collegate a fatti registrati nella contabilità o al normale stato di avanzamento dei lavori (per i quali sussisterebbe la decadenza) ed altre pretese anche di natura risarcitoria, estranee a siffatto onere di iscrizione, posto che lo stesso riveste carattere generale ed include, quindi, tutte le richieste tali da incidere sul compenso spettante all’imprenditore, quali che siano i titoli ed i componenti, nonchè la ragione giustificatrice. Fra quelle soggette all’onere della riserva rientrano quindi, non soltanto tutte le possibili richieste inerenti a partite di lavori eseguite (o che avrebbero dovuto essere eseguite), nonchè alle contestazioni tecniche e/o giuridiche circa la loro quantità e qualità, ma anche e soprattutto quelle relative a (maggiori) pregiudizi sofferti dall’appaltatore ed a costi aggiuntivi dovuti affrontare vuoi per lo svolgimento (anomalo) dell’appalto, vuoi per la carenze progettuali o per le maggiori difficoltà che le stesse hanno ingenerato, vuoi per i comportamenti inadempienti dalla stazione appaltante: comunque ricollegabili all’esecuzione dell’opera, di cui l’appaltatore chieda il riconoscimento, assolvendo ancor più in tali casi l’onere della riserva alla funzione di consentire alla stazione appaltante la tempestiva e costante evidenza di tutti i fattori che siano oggetto di contrastanti valutazioni tra le parti e perciò suscettibili di aggravare il compenso complessivo spettante all’appaltatore, conseguentemente l’entità totale della spesa prevista per l’opera (Cass. 15693/2008; 11852/2007; 4702/2006; 18034/2004).

Pertanto siccome nel caso concreto la sentenza impugnata ha riferito che la Stefanelli aveva lamentato notevoli carenze progettuali “emerse già nel corso dell’esecuzione delle opere…ed implicanti un evidentissimo aggravio dei costi relativi” (pag. 18) e l’impresa ha confermato che le stesse avevano comportato altresì “un prolungamento delle opere di 188 giorni…con un danno di L. 5.713.574 al giorno” (pag. 16 ric.), quest’ultima era tenuta in base alla normativa menzionata a formulare “immediatamente” la relativa riserva: salvo poi ad esporre nel modo e nei termini indicati dalla legge, gli elementi idonei ad individuare la relativa pretesa nel titolo e nella somma; e fermo restando l’obbligo di confermarla all’atto della sottoscrizione nel conto finale, ove invece secondo la stessa prospettazione della Stefanelli la riserva sarebbe stata iscritta per la prima volta intempestivamente.

3. Con il secondo motivo,l’impresa, deducendo violazione dell’art. 342, e segg., L. n. 2249 del 1865, All. F; D.Lgs. n. 406 del 1991, art. 9, L. n. 109 del 1994, artt. 16 e 25, e succ. mod., art. 1661 cod. civ., e segg., censura la sentenza per avere respinto la propria richiesta di pagamento dei lavori aggiuntivi eseguiti, pur non previsti dal contratto e confermati dagli accertamenti compiuti dal c.t. sull’erroneo presupposto della loro mancata autorizzazione da parte del comune, e senza considerare: a) che gli stessi erano stati preventivamente autorizzati dallo stesso contratto, cui dovevano peraltro applicarsi le disposizioni dell’art. 1661 cod. civ., in tema di addizioni e variazioni; b) che trattavasi di lavori a completamento di quelli contrattuali, anche se non compresi nel contratto, che tuttavia erano stati autorizzati preventivamente dallo stesso negozio, ed in particolare dall’art. 5 del capitolato speciale; da una bozza di perizia suppletiva e di variante intercorsa tra le parti nell’aprile 1997, non andata a buon fine per avere il comune fissato unilateralmente i nuovi prezzi; da un successivo verbale di riunione in data 6 febbraio 1998; dai vari stati di avanzamento e dallo stato finale dei lavori; c) che detti lavori erano indispensabili, come riconosciuto dapprima dalla stessa sentenza impugnata che poi contraddittoriamente tale indispensabilità aveva escluso.

Con il terzo motivo, deducendo violazione dell’art. 112. cod. proc. civ., e segg., art. 183 c.p.c., e segg., art. 345 cod. proc. civ., e segg., e succ. modif. si duole che la Corte di appello non abbia attribuito alcuna rilevanza alla circostanza che l’eccezione del comune di “inautorizzazione” dei lavori aggiuntivi era stata avanzata per la prima volta soltanto nella comparsa conclusionale (in primo grado) avente come è noto tutt’altra funzione processuale; che l’abbia comunque ricavato implicitamente dall’insieme delle deduzioni e richieste formulate a suo tempo dalla stazione appaltante senza considerare il rigido sistema delle preclusioni posto dalla legge processuali; cui si contrapponeva quanto meno l’onere della controparte di indicare le norme legislative e contrattuali coinvolte; e che abbia infine deciso sulla suddetta eccezione non avvedendosi che non era stata neppur riproposta dall’amministrazione comunale nel giudizio di appello.

4. I motivi sono del tutto infondati in quanto parificano e confondono situazioni assolutamente distinte sotto il profilo della fenomenologia giuridica, e soggette a discipline legislative assolutamente diverse.

Al riguardo il Collegio deve preliminarmente rilavare che la Steffanelli non ha, indicato quali fossero gli originari lavori contrattuali, quali le tipologie e quali siano stati eseguiti in aggiunta; nè trascritto le disposizioni contrattuali che li avrebbero “preventivamente” autorizzati: non identificabili comunque nella clausola dell’art. 5 cap. spec. contenente una mera “norma di massima” con cui il comune si riservava la facoltà già peraltro riconosciutagli dalla legge (L. n. 109 del 1994, artt. 5 e 25; L. n. 216 del 1995, art. 8 ter) di introdurre le varianti ritenute opportune alla buona riuscita dell’opera.

E d’altra parte; mentre nella parte iniziale del motivo ha insistito sulla natura extra-contrattuale dei lavori definiti “radicalmente nuovi e diversi” rispetto a quelli originari (pag. 18-19), come avrebbe confermato la consulenza tecnica, nel prosieguo li ha qualificati varianti o semplici addizioni o ancora lavori di completamento dei primi, per poi concludere che erano risultati assolutamente indispensabili alla realizzazione dell’opera.

Sennonchè se ricorreva la fattispecie di lavori nuovi non rientranti nell’originario piano dell’opera e del contratto intercorso tra le parti, doveva necessariamente sussistere una fase; preliminare, caratterizzata dalla formazione della volontà della P.A, che resta sul piano del diritto amministrativo, ed è disciplinata dalle regole c.d. dell’evidenza pubblica; che doveva concludersi come si ricava dalla L. n. 142 del 1990, artt. 55 e 56, con la delibera a contrarre, destinata a disporre in ordine alla stipulazione del nuovo negozio e con ciò a conferire all’organo qualificato alla rappresentanza dell’ente la effettiva potestà di porlo in essere con le finalità e l’oggetto già specificati nel sudetto provvedimento amministrativo e perciò contenente a pena di nullità l’attestazione della copertura finanziaria, nonchè dei mezzi per fare fronte alla nuova spesa. Ed alla quale doveva seguire il preventivato (nuovo) contratto le cui peculiari pattuizioni costituivano proprio il momento genetico ex art. 1372 cod. civ., dei diritti e delle obbligazioni di ciascuna delle parti, (coincidevano o meno con quelle previste dal precedente): e quindi nell’ambito dei mezzi finanziari posti a disposizione, dei nuovi lavori affidati all’impresa, nonchè del corrispettivo alla stessa spettante, come determinato nel nuovo negozio (Cass. 4397/2007; 4319/1994).

Pertanto in quest’ottica non ha alcun senso giuridico disquisire di “autorizzazione” del comune ai nuovi lavori, ricavabile o meno dal precedente contratto o da documentazione contabile formata nel corso di essi, divenendo il solo titolo per l’impresa ad ottenerne il pagamento il nuovo contratto, stipulato come è noto per atto scritto richiesto dalla legge ad substantiam: in mancanza del quale dunque correttamente entrambi i giudici di merito hanno respinto la richiesta della ricorrente a prescindere dal comportamento processuale al riguardo tenuto dalle parti, perchè assolutamente irrilevante ed inidoneo a modificare e/o a sostituire il sistema posto dalla legge.

5. Detta autorizzazione diverrebbe, invece, il titolo costitutivo della pretesa dell’ATI ricorrente nell’ipotesi, del tutto diversa dalla precedente e risalente alla L. n. 2248 del 1865, art. 344, All.

F, di lavori aggiuntivi e di variazioni (per migliorare e completare a regola d’arte l’opera) unilateralmente introdotti dalla società appaltatrice: essendo il vigente sistema tuttora fondato sul noto divieto posto dai primi due commi, art. 342 della L. n. 2248, per il quale: “1. Non può l’appaltatore sotto verun pretesto introdurre variazioni o addizioni di sorta al lavoro assunto senza averne ricevuto l’ordine per iscritto dall’ingegnere direttore, nel qual ordine sia citata la intervenuta superiore approvazione. 2. Mancando una tale approvazione gli appaltatori non possono pretendere alcun aumento di prezzo od indennità per le variazioni od addizioni avvenute, e sono tenuti ad eseguire senza compenso quelle riforme che in conseguenza l’Amministrazione credesse opportuno di ordinare, oltre il risarcimento dei danni recati”.

La sola eccezione era prevista dal R.D. n. 350 del 1895, art. 103, in caso di variazioni ed addizioni che in sede di collaudo fossero riconosciute dal collaudatore indispensabili per l’esecuzione dell’opera e semprechè l’importo totale della stessa, compresi i lavori extra contratto, rientri nei limiti di spesa approvata; per cui, non era sufficiente a giustificare il pagamento nè l’ordine scritto del direttore dei lavori (laddove l’ordine non indichi gli estremi della approvazione nelle forme di legge) ne1 la certificazione di ultimazione lavori, che contenga la constatazione che l’opera è stata eseguita secondo il progetto e il contratto, in quanto essa certificazione ha la sola funzione di accertare l’avvenuta esecuzione dell’opera. E ricorrendo tutte queste condizioni perchè sorgesse il diritto dell’appaltatore al relativo compenso era in ogni caso necessario che intervenisse la volontà/approvazione in tali sensi dell’organo competente della p.a.

ad esprimerla nelle forme di legge, costituito per i comuni dal Consiglio comunale e/o dalla Giunta (Cass. 11501/2006; 11365/1999;

10428/1996).

Il sistema è divenuto ancor più rigoroso con la L. n. 109 del 1994, posto che l’art. 25, non soltanto ha indicato condizioni e limiti all’esercizio dello ius variandi, ma ha introdotto specifiche e tassative condizioni in presenza soltanto delle quali le variazioni sono consentite; sicchè sotto questo profilo non sussisteva alcuna possibilità di accoglimento della pretesa della Stefanelli che non ha prospettato la ricorrenza di nessuna di esse, così come di quelle postulate dal precedente R.D. n. 350 del 1895. E soprattutto la sussistenza della intervenuta delibera-approvazione del comune di Casalpusterlengo (confusa invece con la documentazione contabile dei lavori), che costituendone il titolo richiesto dalla legge per conseguirne il corrispettivo, ove adottata, doveva essere prodotta nel giudizio di merito onde dimostrare la ricorrenza di detta condizione dell’azionerà prescindere ancora una volta dalle difese e dalle argomentazioni delle parti al riguardo.

6. Eguali considerazioni valgono nell’ipotesi di variazioni e nuove lavorazioni asseritamente disposte dall’amministrazione comunale:

perchè se trattavasi di interventi compresi nell’aumento del quinto consentito dapprima dal menzionato L. n. 2248, art. 344 e poi dal D.P.R. n. 1063 del 1962, art. 14, le stesse dovevano essere remunerate alle medesime condizioni contrattuali. E la Stefanelli non poteva pretenderne il pagamento in base a nuovi prezzi concordati tra le parti, nè tanto meno in base alla stima qualitativa e quantitativa compiuta dal c.t.u.. Mentre se si tratta di lavori assai più consistenti, come prospettato dall’impresa, che sulla base di tale presupposto ne ha chiesto la determinazione nella misura di L. 195.381.765, restano fermi i limiti e le condizioni posti dal menzionato della L. n. 109 del 1994, art. 25, rivolti anche all’amministrazione appaltante; e risulta conforme alla menzionata normativa la sentenza impugnata che proprio con riferimento ad essa, ispirata alla necessità di conseguire certezza ha riaffermato che le variazioni ai lavori originariamente commessi in appalto devono essere riconducibili alla effettiva volontà del committente e non invece alla autonoma iniziativa dell’appaltatore, ed ha ribadito sulla scia della giurisprudenza di questa Corte, che in tal caso il pagamento di opere non previste in contratto si giustifica solo quando l’Amministrazione abbia disposto addizioni o variazioni nei limiti di legge; ovvero quando le addizioni o variazioni introdotte unilateralmente dall’appaltatore e non preventivamente autorizzate dall’amministrazione siano indispensabili all’esecuzione dell’opera e siano state riconosciute meritevoli di collaudazione; e sempre che l’importo totale dell’opera, compresi i lavori extracontrattuali, rientri nei limiti delle spese approvate. Laddove nel caso non sono state prospettate dall’impresa nè la ricorrenza delle condizioni previste dalla norma (anche perchè non è stata indicata neanche la tipologia delle opere commesse); e neppure la sussistenza del provvedimento amministrativo del comune che le avrebbe disposte, erroneamente individuato ora in riunioni informali tra le parti, ora in una bozza di perizia di variante non andata a buon fine proprio per volontà della ricorrente, ora in atti e documenti inerenti allo svolgimento dell’appalto (Cass. 15221/2007; 5278/2007; 11365/1999).

Il Collegio deve osservare, da ultimo, che il sistema suddetto non risulta penalizzante per l’appaltatore posto che già il D.P.R. n. 1063 del 1962, art. 14 (ed a maggior ragione la L. n. 109 del 1994) riservava all’appaltatore, ai commi primo e secondo, in alternativa alla volontà di assoggettarsi ai lavori aggiuntivi base agli originari prezzi contrattuali, un diritto soggettivo perfetto alla risoluzione del contratto, diritto pieno ed assolutamente indipendente dal comportamento o da iniziative procedimentali della stazione appaltante e devoluto, quanto all’esercizio, esclusivamente a scelte discrezionali ed insindacabili dell’appaltatore stesso; e che il quarto comma del citato art. 14 ha introdotto, poi, la possibilità di modifica consensuale del contratto in ordine al prezzo dei lavori aggiuntivi – ferma rimanendo la sopra menzionata facoltà di scelta dell’appaltatore: perciò configurando non un diritto dell’appaltatore alla prosecuzione del contratto a prezzi aggiornati, (sul cui erroneo presupposto è invece interamente fondata la pretesa dell’impresa), bensì un vero e proprio accordo tra le parti, modificativo del contenuto del contratto stesso e richiedente, perciò, il consenso di entrambe, in assenza del quale torna ad applicarsi la disciplina dei primi due commi della norma (Cass. 13734/2003; 8094/2000). Accordo, nel caso invece non andato a compimento proprio per le divergenze sui nuovi prezzi sussistenti tra le parti (pag. 25 ric.).

7. Infondato è infine anche l’ultimo motivo, con cui la Stefanelli, deducendo violazione degli artt. 1667 e 1665 cod. civ., L. n. 109 del 1994, art. 28 e succ. mod. si duole che (la Corte di appello non abbia dichiarato decaduto il comune dal diritto di denunciare i vizi riscontrati sull’opera appaltata, e comunque non abbia dichiarata estinta per prescrizione la pretesa risarcitoria avanzata soltanto con la comparsa di costituzione del 19 febbraio 1999, malgrado la consegna dell’opera sia avvenuta in data 20 febbraio 1997, l’appalto si sia concluso il 28 maggio successivo (con il ricevimento dell’opera) cui era seguito il deposito dello stato finale in data 28 luglio 1997 ed il certificato di collaudo sia stato emesso il 10 dicembre 1997: senza che nel termine indicato dalla norma codicistica a decorrere da taluna delle date suddette, siano stati mai denunciati i vizi dell’opera, peraltro ritenuti palesi.

La censura si concreta, infatti nella mera riproposizione dell’assunto dell’impresa che il termine decorre comunque dalla materiale consegna dei lavori, o dal loro ricevimento; e che detti eventi abbiano la stessa funzione dell’accettazione dell’opera:

assunto disatteso dalla giurisprudenza di questa Corte fin dalle pronunce più lontane nel tempo (Cass. 1518/1964; 3647/1971), cui il Collegio intende dare continuità secondo le quali: A) all’appalto di opera pubblica rimane estraneo un momento della “consegna” dell’opera (così come conosciuto in generale dagli artt. 1665 e 1667 cod. civ.) inteso come atto sostanzialmente unitario e tendenzialmente istantaneo il quale, seguendo l’ultimazione dei lavori, implica poi, per il committente che voglia evitare di essere ritenuto “accettante”, il coevo insorgere dell’onere di una precisa formulazione di riserve; al riguardo, l’appalto suddetto conosce, sul piano della “consegna” dell’opera, tutta una serie di atti i quali, partendo dal verbale di ultimazione dei lavori, si rivelano destinati a confluire nel collaudo, solo a partire dall’esito del quale prendono corpo e significato sia la tematica dell’accettazione dell’opera, sia quella di un’eventuale decadenza del committente dalla possibilità di farne valere difformità e vizi, sia infine quella della prescrizione dell’azione volta a richiedere la garanzia per tali vizi: come del resto è confermato dallo specifico ed articolato procedimento descritto dal R.D. n. 350 del 1895, art. 102, e segg., fino all’approvazione dell’atto di collaudo ed alla conseguente accettazione dell’opera da parte dell’amministrazione appaltante (art. 117); B) Alla consegna dell’opera prima del collaudo, non è applicabile neppure la presunzione di accettazione di cui all’art. 1665 c.c., comma 4 (sent. 1146/1982), giacchè, alla stregua della disciplina speciale suddetta (cfr. anche il D.P.R. n. 1063 del 1962), la consegna di un’opera siffatta non può che intendersi attuata con riserva di verifica, quando non è ancora intervenuto il collaudo: costituente, dunque esso solo, l’atto formale indispensabile ai fini dell’accettazione dell’opera stessa da parte della Pubblica Amministrazione dalla quale il termine suddetto può iniziare a decorrere; C) D’altra parte la “consegna”, cui fa riferimento dell’art. 1667, comma 3, per gli effetti ivi previsti, è appunto, la consegna definitiva, che segua all’accettazione dell’opera, o sia ad essa contestuale o che, comunque, equivalga ad accettazione implicita, ai sensi dell’art. 1665 cod. civ., comma 4.

Il che, a maggior ragione, è vero per l’appalto di opera pubblica, in relazione al quale il soggetto committente ha non già solo il “diritto di verificare l’opera compiuta prima di riceverne la consegna” – come nell’appalto tra privati, ex art. 1665 c.c., comma 1 – ma ha anche il dovere ineludibile di procedere ad una siffatta verifica attraverso il collaudo (cfr. L. n. 1865 n. 2248, art. 358, e segg., all. F; R.D. n. 350 del 1895, art. 121; R.D. n. 1165 del 1938, art. 80, e segg.); che in questo caso, oltrechè necessario ed obbligatorio (e, quindi, non rinunziabile) è anche formale, nel senso che la volontà di accettare l’opera non può risultare “per facta concludentia”, ma deve essere sempre espressa, subordinata, come è, alla particolare procedura pubblicistica suddetta (Cass. 10992/2004; 271/2004; 13261/2000; 13075/2000).

Consegue che nel caso anche il primo dei due termini di cui all’art. 1667 cod. civ., non poteva iniziare a decorrere prima del provvedimento di approvazione del collaudo e di accettazione dell’opera che l’impresa ha omesso di indicare; e che ancor prima di detto inizio è stato definitivamente interrotto, avendo la sentenza impugnata accertato (pag. 19 e 20) che i vizi e le difformità lamentati dal comune sono stati specificamente individuati proprio in sede di collaudo (10 dicembre 1997). E che l’impresa ha sottoscritto il relativo verbale che ne conteneva l’indicazione perciò prendendo atto della contestazione della controparte e rendendola non più abbisognevole di ulteriore comunicazione. Mentre anche ad effettuare il conteggio a partire dalla stessa data e non da quella successiva dell’accettazione pure il termine di prescrizione di cui all’art. 1667 cod. civ., comma 3, non è interamente maturato essendo stato interrotto dalla menzionata domanda giudiziale del Comune depositata nell’udienza del 19 febbraio 1999.

8. Con il primo motivo del ricorso incidentale, il comune deducendo erroneità e contraddittorietà nella determinazione della penale,si duole che la sentenza impugnata ne abbia confermato l’importo di L. 28 milioni invece che di quello pari a L. 30 milioni sul presupposto che nella comparsa di costituzione fosse stata chiesta soltanto la prima somma con riferimento all’atto di collaudo, mentre soltanto nella memoria conclusiva veniva fatto riferimento alla misura più elevata indicata nell’accordo del 27 febbraio 1997; laddove tale ultima richiesta era già contenuta nella memoria autorizzata dal g.i. ai sensi dell’art. 183 cod. proc. civ., per cui doveva essere presa in esame dai giudici di merito.

Con il secondo motivo censura la determinazione dell’importo di L. 36.831.872 posto dalla decisone di primo grado a credito dell’impresa appaltatrice, dopo avere riconosciuto alla controparte il credito per la penale di L. 28.000.000, invece poi non detratto, ma erroneamente sommato a quelli attribuiti all’appaltatore.

Con il terzo censura la determinazione del periodo di ritardo nella consegna dei lavori, accertato fin dal giudizio di primo grado e dalla c.t.u. in 28 giorni, e poi inopinatamente dimezzato per asserite carenze progettuali di essa amministrazione smentiti sia dagli accertamenti compiuti dal c.t.u., sia dai molteplici rilievi rivolti all’impresa sia dalla D.L.,che dal collaudatore.

Con il quarto lamenta che non sia stata accolta interamente la domanda riconvenzionale sul presupposto che non tutti i vizi e le difformità erano stati riscontrati in sede di collaudo; e che dunque per alcuni di essi potevano essere maturate decadenze: senza considerare che proprio nella suddetta sede si era avuta l’individuazione dei vizi suddetti per i quali era stata formulata richiesta e la Corte territoriale aveva già escluso il verificarsi della decadenza di cui all’art. 1667 cod. civ..

Con il quinto motivo lamenta che i giudici di merito abbiano esaminato tutte le richieste in origine avanzate dall’impresa che tuttavia aveva formulato conclusioni specifiche nel corso del giudizio: perciò rinunciando ad alcune pretese,invece egualmente accolte.

Con il sesto si duole per converso che siano state dichiarate inammissibili alcune delle proprie pretese correlate a difetti dell’opera manifestati nel corso del giudizio di primo grado, senza considerane il collegamento proprio con i vizi accertati nel corso del collaudo con riguardo ai quali la stessa Corte di appello aveva dato atto della tempestività e completezza delle richieste del comune.

9. Il primo motivo è inammissibile avendo la Corte di appello posto a fondamento della conferma del capo della decisione di primo grado che aveva ridotto la penale all’importo di L. 28 milioni due ragioni distinte: per prima, che l’amministrazione comunale soltanto nella comparsa comunale aveva fatto riferimento all’accordo intercorso il 27 febbraio 1997, dal quale derivava un importo maggiore; per seconda una ragione sostanziale fondata sulla ricostruzione dell’intero iter dell’appalto e delle relative proroghe (e non soltanto del periodo successivo all’accordo) compiuta dal primo giudice,pervenuto in seguito ad essa alla conclusione che la penale andava calcolata in tale ultima misura. Per cui non soltanto la prima, ma anche quest’ultima ragione relativa alla ricostruzione dell’esecuzione del contratto doveva essere specificamente impugnata dall’amministrazione ricorrente per ottenere l’annullamento di tale capo sfavorevole della decisone.

Nessuna censura specifica è stata invece formulata nei confronti di quest’ultima; sicchè trova nel caso applicazione il principio, costantemente enunciato da questa Corte, secondo cui non è suscettibile d’essere cassata la sentenza fondata su vari ordini di ragioni, distinti ed autonomi, ognuno dei quali sia, in astratto, idoneo e sufficiente a legittimare il decisum, qualora taluno di essi risulti immune da vizi logici ed errori di diritto, o addirittura non sia stato impugnato poichè, qualunque possa essere la conclusione in ordine alla censura relativa alle altre regioni della pronuncia, la decisione rimarrebbe pur sempre ferma stante l’intervenuta definitività delle altre non impugnate (Cass. 12 maggio 1999 n. 4687; 24 novembre 1998 n. 11902; 5 ottobre 1998 n. 9866).

Egualmente inammissibile è il secondo motivo che si concreta nella mera riproduzione dell’identica censura formulata ai giudici di appello: senza tenere in alcun conto le articolate considerazioni con cui questi ultimi l’avevano respinta dimostrando come il Tribunale non fosse incorso in alcun errore di calcolo, ma avesse dapprima accontanato la questione della penale per determinare i crediti dell’impresa, per poi detrarne l’ammontare dal loro importo complessivo separatamente calcolato. Inammissibile è infine il terzo motivo perchè la questione inerente ai giorni di ritardo nella consegna dei lavori ed alla loro determinazione, per il calcolo della penale, in misura sostanzialmente dimidiata non si rinviene nella motivazione della sentenza impugnata, ma è esaminata dal Tribunale (e dal c.t.u.); laddove il ricorso per cassazione si dirige fondamentalmente contro le sentenze in grado di appello (con esclusione dell’ipotesi prevista dell’art. 360 cod. proc. civ., u.c.) ed in nessun caso può formare oggetto di impugnazione diretta o indiretta la sentenza di primo grado anche perchè assorbita da quella di appello.

10. Infondato è il quinto motivo, avendo la Corte territoriale correttamente applicato il principio della libertà delle forme processuali che alle parti consente la precisazione delle conclusioni in modo specifico, ovvero per converso riportandosi interamente a quelle già avanzate nell’atto introduttivo del giudizio; o ancora illustrandone specificamente alcune e per il resto richiamando anche complessivamente quelle in precedenza formulate. Il che l’impresa ha fatto in sede di precisazione delle conclusioni, specificamente formulate in cui non ha, invece ritenuto di illustrare anche le richieste nn. 3, 4, 5 e 7, già ritualmente proposte nelle precedenti difese che tuttavia ha nuovamente richiamato, come accertato dalla sentenza impugnata: perciò impedendo che ciascuna di esse potesse considerarsi rinunciata.

Quanto ai danni derivanti dai vizi di costruzione dell’opera, la Corte territoriale ha rilevato che la sentenza impugnata aveva puntualmente distinto le manchevolezze rilevate in sede di collaudo sulle quali soltanto il comune aveva fondato la domanda riconvenzionale da ulteriori difetti nei lavori,autonomamente riscontrati dal c.t.u., erciò non presi in esame per la quantificazione della posta risarcitoria dovuta al comune. E che siffatta distinzione non era stata impugnata dall’ente pubblico con l’appello incidentale, perciò divenendo incontestabile.

E tuttavia dopo questa esatta premessa, non scalfita dal 4^ motivo del ricorso, la Corte di merito con riguardo alla spesa di L. 30.324.000 dovuta affrontare dal comune per la riparazione del sistema idrico della piscina esterna, pur dando atto che la stessa era imputabile a difetti di costruzione del manufatto (riempimento dello scavo con materiali di cantiere anzicchè con materiali di cava, come invece stabilito dal contratto), ha confermato la inammissibilità della richiesta già pronunciata dal primo giudice, perchè formulata tardivamente: perciò incorrendo nel vizio di illogicità manifesta denunciato dal comune.

Posto, infatti, che la riparazione si era resa necessaria per uno dei vizi di realizzazione dell’opera, per le ragioni avanti esposte, sfuggiti al termine decadenziale stabilito dall’art. 1667 cod. civ., comma 2, per la denuncia, e che il comune li aveva fatti valere con la domanda riconvenzionale, inducendo il Tribunale ad operare la distinzione tra dette manchevolezze, già riscontrate in sede di collaudo e difetti ulteriori accertati dal c.t.u., a nulla rilevava che la spesa della riparazione in questione fosse stata quantificata tardivamente in corso del giudizio: essendo decisivo il suo collegamento causale con i vizi dell’opera già denunciati dal comune con la comparsa di costituzione, e perciò interamente inclusi nella causa petendi della richiesta risarcitoria formulata in riconvenzione (Cass. 18513/2007; 22987/2004); ed in mancanza di specifiche contrarie indicazioni quantitative del comune non risultanti dalla sentenza impugnatala quale invece, ha riferito che l’ente a tale titolo aveva rivendicato un credito di complessive L. 106.084.102, accolto dal Tribunale nella minore misura di L. 64.493.700, pari ad Euro 33.308,22 (pag. 5).

Cassata pertanto sul punto la sentenza impugnata, non essendo necessari ulteriori accertamenti, il Collegio deve decidere nel merito ai sensi dell’art. 384 cod. proc. civ., accogliendo parzialmente l’appello incidentale del comune ed aumentando la posta suddetta che l’impresa è stata condannata a corrisponderli per il titolo esaminato dell’importo di L. 30.324.000, pari ad Euro 15.661,05: ferme restando le rimanenti statuizioni sugli accessori.

11. Con il proprio ricorso incidentale B.G. e S. M., deducendo violazione degli artt. 91 e 92 cod. proc. civ., censurano la sentenza impugnata per aver confermato la loro condanna da parte del Tribunale al pagamento delle spese processuali nei confronti della soc. assicurativa Zurigo, da essi chiamata in garanzia, ed avere reiterato detta condanna anche in grado di appello senza considerare la regola assolutamente pacifica in giurisprudenza, che le spese sostenute dal terzo chiamato in causa in garanzia dal convenuto devono essere poste a carico dell’attore soccombente (nel caso,il comune di Casalpusterlengo) che ha provocato e giustificato la chiamata in garanzia, ove resa necessaria dalla tesi sostenuta dall’attore.

La censura è manifestamente infondata perchè non tiene in alcun conto la giurisprudenza di questa Corte specificamente richiamata dalla decisione impugnata, secondo la quale: 1) In caso di chiamata in causa del terzo, questi assume, per effetto della stessa chiamata, la posizione di contraddittore nei confronti della domanda originaria solo se viene chiamato in causa quale soggetto effettivamente e direttamente obbligato (o, in caso di azione risarcitoria, quale unico responsabile del fatto dannoso) e non anche se viene chiamato in causa dal convenuto per esserne garantito; 2) in quest’ultima ipotesi se l’attore vuole proporre domanda anche nei confronti del terzo chiamato, deve formulare nei confronti dello stesso una espressa ed autonoma domanda,perciò sottoposta alla regola generale della soccombenza di cui all’art. 91 cod. proc. civ.; e non ricorre la fattispecie dell’estensione automatica della domanda dell’attore al terzo chiamato dal convenuto non invocabile una volta che il chiamante faccia valere nei confronti del chiamato un rapporto diverso, ed in particolare, ove l’azione abbia natura risarcitoria, qualora venga dedotto un titolo di responsabilità del terzo differente ed autonomo rispetto a quello invocato dall’attore (Cass. 27525/2009; 25559/2008; 23308/2007; 13374/2007).

Per il medesimo principio della soccombenza anche le spese del giudizio di legittimità vanno gravate in solido sul B. e sul S. e liquidate come da dispositivo. Mentre quelle tra le parti principali relative al giudizio di appello restano disciplinate secondo quanto ha fatto la sentenza impugnata. L’Impresa va condannata a rifondere al comune quelle del giudizio di legittimità in ragione di 1/4; mentre il rigetto tanto dei motivi del ricorso principale, quanto dei restanti motivi del ricorso incidentale del comune, induce il Collegio a dichiarare compensati tra dette parti i restanti 3/4.

P.Q.M.

La Corte, riunisce i ricorsi, respinge il principale e l’incidentale dei progettisti B. e S., accoglie il sesto motivo dell’incidentale del comune, che rigetta nel resto; cassa la sentenza impugnata in relazione al motivo accolto e decidendo nel merito, aumento di Euro 15.661,05 l’importo che l’impresa Stefanelli è stata condannata a corrispondere al comune di Casalpusterlengo; mantiene ferma la statuizione sulle spese contenuta nella sentenza di appello e condanna la medesima impresa a corrispondere al comune quelle del giudizio di cassazione in ragione di 1/4 liquidandole nell’intero in complessivi Euro 2.200,00 di cui Euro 2.000,00 per onorario di difesa. Dichiara compensati tra le parti i restanti 3/4. Condanna infine i progettisti al pagamento in favore della soc. assicur.

Zurigo delle spese processuali, che liquida in complessivi Euro 1.700,00 di cui Euro 1.500,00 per onorario di difesa; il tutto oltre a spese generali ed accessori come per legge.

Così deciso in Roma, il 29 aprile 2011.

Depositato in Cancelleria il 7 luglio 2011

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