Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 15007 del 28/05/2021

Cassazione civile sez. II, 28/05/2021, (ud. 11/02/2021, dep. 28/05/2021), n.15007

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SECONDA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. D’ASCOLA Pasquale – Presidente –

Dott. GIUSTI Alberto – Consigliere –

Dott. TEDESCO Giuseppe – Consigliere –

Dott. CRISCUOLO Mauro – Consigliere –

Dott. OLIVA Stefano – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 7492/2016 proposto da:

O.L., elettivamente domiciliato in ROMA, VIA DEI GRACCHI

n. 123, presso lo studio dell’avvocato FULVIA TRINCIA, che lo

rappresenta e difende;

– ricorrente –

contro

M.M., elettivamente domiciliato in ROMA, VIA SILVIO PELLICO

n. 44, presso lo studio dell’avvocato GIOVANNI AGOSTINI, che lo

rappresenta e difende;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 1130/2015 della CORTE D’APPELLO di GENOVA,

depositata il 02/10/2015;

udita la relazione della causa svolta nella Camera di consiglio del

11/02/2021 dal Consigliere Dott. STEFANO OLIVA.

 

Fatto

FATTI DI CAUSA

Con atto di citazione del 26.11.2008 O.L. conveniva in giudizio M.M. innanzi il Tribunale di Genova, per sentirlo condannare al pagamento della somma di Euro 58.600, indebitamente percepito a fronte di un contratto di collaborazione professionale affetto da nullità. L’attore esponeva che il convenuto, negli anni 2005 e 2006, aveva lavorato presso il suo studio come odontoiatra, percependo a fronte delle prestazioni svolte la somma di Euro 58.600; che tuttavia il convenuto era risultato iscritto all’albo degli Odontoiatri di Roma soltanto a far data dal 24.7.2007; che pertanto il contratto era affetto da nullità, con conseguente diritto di esso attore alla restituzione di quanto erogato al convenuto.

Si costituiva il M., resistendo alla domanda.

Con sentenza n. 3338 del 2012 il Tribunale di Genova rigettava la domanda, ritenendo che il convenuto avesse dimostrato di essere in possesso dall’abilitazione richiesta per lo svolgimento della professione odontoiatrica.

Interponeva appello l’ O. e si costituiva in seconde cure il M., resistendo al gravame.

Con la sentenza oggi impugnata, n. 1130/2015, la Corte di Appello di Genova rigettava l’impugnazione, ritenendo che l’appellante non avesse dimostrato l’esistenza del rapporto di collaborazione professionale, poichè dall’istruttoria era emerso soltanto che il M. aveva fornito prestazioni odontoiatriche in favore di alcuni pazienti, negli anni 2005 e 2006, presso lo studio dell’ O..

Propone ricorso per la cassazione di detta sentenza O.L., affidandosi a tre motivi.

Resiste con controricorso M.M..

In prossimità dell’adunanza camerale, il ricorrente ha depositato memoria.

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

Con il primo motivo, il ricorrente lamenta la violazione e falsa applicazione della L. n. 14 del 2003, art. 13, recante l’abrogazione della L. n. 409 del 1985, art. 5, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, perchè la Corte di Appello avrebbe dovuto considerare che, alla luce della normativa applicabile all’epoca del rapporto tra le parti, il M. non era abilitato allo svolgimento della professione di odontoiatra.

Con il secondo motivo, il ricorrente lamenta l’omesso esame di un fatto decisivo, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, perchè la Corte distrettuale avrebbe dovuto tener conto che l’istruttoria esperita in prime cure aveva dimostrato l’esistenza di un rapporto professionale tra O. e M., in adempimento del quale il quale il secondo aveva offerto le sue prestazioni ai clienti del primo, che lo aveva retribuito con la somma richiesta in restituzione.

Con il terzo motivo, il ricorrente lamenta la violazione dell’art. 2033 c.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, perchè la Corte ligure avrebbe dovuto accogliere la domanda di ripetizione dell’erogazione eseguita dall’ O. in base ad un contratto nullo.

Tra le tre censure dev’essere preventivamente esaminata la seconda, che va dichiarata inammissibile.

Non sussiste, infatti, alcun profilo di omesso esame del rapporto intercorso tra O. e M.: la Corte di Appello, infatti, affronta l’argomento, dando atto del contenuto della domanda proposta dall’ O. ed affermando che “In realtà, dalla lettura dell’atto di citazione, al di là del generico riferimento ad un contratto di collaborazione professionale, di cui non viene in alcun modo specificato il contenuto, è dato capire unicamente che il Dott. M. esercitava la propria attività professionale all’interno dello studio del Dott. O…. Tutto quello che si può arguire, dato l’evasivo tenore degli scritti difensivi, e tenuto conto anche del carattere marcatamente personale delle prestazioni professionali in questione e del rapporto fiduciario tra colui che le esegue ed il cliente (o meglio paziente), che esistesse una qualche forma di accordo tra il Dott. O. ed il Dott. M., in virtù del quale questi effettuava le sue prestazioni presso lo studio del Dott. O., utilizzando le strutture ivi esistenti, e che il cosiddetto prezziario rappresentasse l’importo che sui singoli interventi poteva essere riconosciuto al Dott. M., tenuto conto dell’utilizzo dello studio e delle strutture. Ma è chiaro che, in assenza di qualsiasi ulteriore specificazione della sostanza del suddetto accordo, possiamo soltanto prendere atto che, essendo di fronte a prestazioni professionali effettuate dal Dott. M. a favore di singoli pazienti, allo stesso modo erano questi a pagarne il compenso” (cfr. pag. 4 della sentenza impugnata). Il riferito, chiarissimo, passaggio della motivazione della decisione di seconda istanza dimostra che la Corte di Appello ha esaminato il rapporto asseritamente intercorso tra le parti, esaminandone il contenuto e la portata alla luce delle allegazioni e degli elementi di prova offerti da parte attore – onerato di dimostrare esistenza e caratteristiche del rapporto medesimo – ed ha ritenuto in sostanza non raggiunta la prova di un accordo nei termini tratteggiati dall’originario attore, Di conseguenza, la Corte territoriale ha concluso che “… il rapporto avente ad oggetto le prestazioni in questione intercorreva direttamente tra il D. M. ed i clienti o pazienti in favore dei quali le effettuava. L’ulteriore conseguenza è che, anche qualora effettivamente il Dott. M.

avesse esercitato l’attività professionale in difetto di iscrizione nel relativo albo, soltanto i clienti che avevano pagato il compenso di tale attività avrebbero potuto esigerne la restituzione” (cfr. pag. 5 della sentenza).

Con il secondo motivo di ricorso, ora in esame, il ricorrente tenta di accreditare una lettura alternativa delle risultanze istruttorie, peraltro senza neppure aver cura di indicare specificamente i presunti elementi di prova che dovrebbero avvalorarla, con conseguente inammissibilità della censura, sia per difetto del richiesto grado di specificità, sia perchè il motivo di ricorso non può mai risolversi in una generica istanza di riesame del giudizio di fatto o dell’apprezzamento delle risultanze istruttorie operato dal giudice di merito (quanto al primo aspetto, cfr. Cass. Sez. U., Sentenza n. 24148 del 25/10/2013, Rv. 627790; quanto al secondo, cfr. Cass. Sez. 3, Sentenza n. 12362 del 24/05/2006, Rv. 589595: conf. Cass. Sez. 1, Sentenza n. 11511 del 23/05/2014, Rv. 631448 e Cass. Sez. L, Sentenza n. 13485 del 13/06/2014, Rv. 631330).

All’inammissibilità del secondo motivo consegue l’inammissibilità anche della terza doglianza, non essendo stata conseguita, nel corso del giudizio di merito, la prova della natura del rapporto che il ricorrente assume affetto da nullità.

Del pari inammissibile è la prima censura, poichè la Corte di Appello non ha rigettato la domanda dell’ O. sull’assunto che il M. fosse abilitato allo svolgimento della professione odontoiatrica – come invece aveva fatto il Tribunale, bensì sul diverso presupposto della carenza di prova circa la natura ed il contenuto dell’accordo dedotto dall’originario attore. La doglianza, quindi, non coglie la ratio della decisione impugnata ed appare rivolta contro la sentenza di prime cure, più che contro la decisione della Corte di Appello.

L’inammissibilità di tutte e tre le censure proposte dal ricorrente implica l’inammissibilità dell’intero ricorso.

Le spese del presente giudizio di legittimità, liquidate come da dispositivo, seguono la soccombenza.

Stante il tenore della pronuncia, va dato atto – ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater – della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento di un ulteriore importo a titolo contributo unificato, pari a quello previsto per la proposizione dell’impugnazione, se dovuto.

PQM

la Corte dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento in favore del controricorrente delle spese del presente giudizio di legittimità, che liquida in Euro 5.200, di cui Euro 200 per esborsi, oltre rimborso delle spese generali in misura del 15%, iva, cassa avvocati ed accessori come per legge.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis, se dovuto.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezione Seconda Civile, il 11 febbraio 2021.

Depositato in Cancelleria il 28 maggio 2021

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