Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 15001 del 15/07/2020

Cassazione civile sez. trib., 15/07/2020, (ud. 11/02/2020, dep. 15/07/2020), n.15001

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. BISOGNI Giacinto – Presidente –

Dott. BRUSCHETTA Ernestino Luigi – Consigliere –

Dott. CATALLOZZI Paolo – rel. Consigliere –

Dott. GORI Pierpaolo – Consigliere –

Dott. ARMONE Giovanni Maria – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso iscritto al n. 27675/2014 R.G. proposto da:

La Goldoncina s.r.l., in persona del legale rappresentante pro

tempore, rappresentata e difesa dagli avv. Giuseppe Tenchini e Fabio

Franco, con domicilio eletto presso il loro studio, sito in Roma,

via F. de Sanctis, 4;

– ricorrente –

contro

Agenzia delle Entrate, in persona del Direttore pro tempore,

rappresentata e difesa dall’Avvocatura Generale dello Stato, presso

la quale è domiciliata in Roma, via dei Portoghesi, 12;

– controricorrente –

avverso la sentenza della Commissione tributaria regionale della

Toscana, sez. dist. di Livorno, n. 1563/14/14, depositata il 22

agosto 2014.

Udita la relazione svolta nella pubblica udienza dell’11 febbraio

2020 dal Consigliere Paolo Catallozzi;

udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore

generale Rita Salorenzo, che ha concluso chiedendo il rigetto del

ricorso;

udito l’avv. Eugenio De Bonis, per la controricorrente.

Fatto

FATTI DI CAUSA

1. La Goldoncina s.r.l. propone ricorso per cassazione avverso la sentenza della Commissione tributaria regionale della Toscana, sez. dist. di Livorno, depositata il 22 agosto 2014, di reiezione dell’appello dalla medesima proposto avverso la sentenza di primo grado che aveva respinto il suo ricorso per l’annullamento dell’avviso di accertamento con cui era stata rettificata la dichiarazione resa ai fini dell’I.v.a. per l’anno 2005 e irrogate le relative sanzioni.

2. Dall’esame della sentenza impugnata si evince che con tale atto l’Ufficio le aveva contestato l’indebita detrazione dell’I.v.a., per aver partecipato ad un’azione fraudolenta perpetrata da altro soggetto, la E.B. Immobiliare s.r.l., il quale, in relazione ad un’operazione di vendita immobiliare conclusa con la società contribuente, aveva emesso fattura per un importo superiore a quello riscosso e omesso di versare l’imposta percepita.

3. Il giudice di appello ha respinto il gravame della contribuente evidenziando, da un lato, l’insussistenza dell’eccepita decadenza dalla potestà impositiva e, dall’altro, la consapevolezza della società contribuente di partecipare ad un disegno fraudolento finalizzato all’evasione dell’I.v.a. da corrispondere in relazione alla predetta operazione di cessione di immobili.

4. Il ricorso è affidato a sette motivi.

5. Resiste con controricorso l’Agenzia delle Entrate.

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

1. Con il primo motivo di ricorso la contribuente denuncia, con riferimento all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4, la violazione del D.Lgs. 31 dicembre 1992, n. 546, art. 36, comma 2, n. 4, per omessa motivazione della sentenza impugnata, in quanto consistente nella apodittica adesione integrale alle difese svolte dall’Ufficio nelle controdeduzioni in secondo grado, priva di riferimento ai motivi di appello formulati.

1.1. Il motivo è infondato.

La Commissione regionale, nel motivare la sua decisione, dopo aver provveduto alla narrazione dello svolgimento del giudizio di primo grado e del contenuto dell’appello e delle relative controdeduzioni, ha fatto proprie le considerazioni, in fatto e in diritto, contenute in quest’ultimo atto, che riproduce, per estratto, nella parte ritenuta rilevante.

In tale atto, l’Ufficio procede ad una accurata ricostruzione dei fatti fiscalmente rilevanti relativi all’operazione di acquisto del compendio immobiliare in oggetto, alle ragioni per cui trova applicazione al caso in esame il cd. raddoppio dei termini previsti per l’esercizio del potere impositivo dell’Amministrazione finanziaria, con diffusi richiami alla normativa e alla giurisprudenza pertinente, e per cui va affermata l’indetraibilità dell’I.v.a. di rivalsa assolta, ravvisate nell’accertata nella consapevolezza della contribuente di partecipare ad una frode fiscale o, comunque, nella mancata adozione da parte sua di “tutte le misure che si possono… ragionevolmente richiedere al fine di assicurarsi che le loro operazioni non facciano parte di una frode”.

In tal modo, ha, sia pure indirettamente, offerto adeguata giustificazione delle ragioni per cui ha ritenuto infondati i motivi di appello formulati dalla contribuente, vertenti sulla decadenza dell’Ufficio dal potere impositivo e sull’estraneità della società dalla frode fiscale perpetrata.

Ha, poi, argomentato in ordine alla contestata legittimità delle sanzioni irrogate, in considerazione della sussistenza dei presupposti dell’illecito contestato, ritenendo irrilevante, in quanto frutto di refuso, il richiamo ad una disposizione normativa non pertinente, e del rispetto del principio di proporzionalità, la cui inosservanza era stata censurata dalla società.

Orbene, nel processo civile ed in quello tributario non può ritenersi nulla la sentenza che esponga le ragioni della decisione limitandosi a riprodurre il contenuto di un atto di parte, qualora risultino comunque attribuibili al giudicante ed esposte in maniera chiara, univoca ed esaustiva le ragioni sulle quali la decisione è fondata (cfr. Cass., Sez. Un., 16 gennaio 2015, n. 642; successivamente, Cass. 23 settembre 2016, n. 18754).

Tale circostanza risulta ricorrere nel caso in esame, in cui la riproduzione, per estratto, dell’atto di parte, il cui contenuto è espressamente condiviso dal giudice del gravame, valutata unitamente all’ulteriore, originale, apparato motivazionale contenuto nella sentenza evidenzia il percorso argomentativo seguito e la sua coerenza con i motivi di appello formulati.

2. Con il secondo motivo la ricorrente deduce la violazione e falsa applicazione del D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, art. 43, comma 3, e D.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633, art. 57, comma 3, per aver il giudice di appello ritenuto che ricorressero gli estremi per il raddoppio dei termini di accertamento, benchè l’emersione della notizia di reato fosse intervenuta successivamente alla scadenza del termine ordinario di accertamento.

2.1. Il motivo è infondato.

Il D.L. 4 luglio 2006, n. 223, art. 37, comma 24, integrando il D.P.R. n. 600 del 1973, art. 43, comma 3, ha stabilito che in caso di violazione che comporta obbligo di denuncia ai sensi dell’art. 331 c.p.p., per uno dei reati previsti dal D.Lgs. 10 marzo 2000, n. 74, gli ordinari termini di decadenza per l’accertamento sono raddoppiati relativamente al periodo di imposta in cui è stata commessa la violazione.

Il medesimo D.L. n. 223 del 2006, art. 37, comma 25, introduce analoga disposizione in materia di i.v.a., previa modifica del D.P.R. n. 633 del 1972, art. 57.

Tali disposizioni trovano applicazione al caso in esame, benchè relativo a periodo di imposta antecedente l’entrata in vigore delle richiamate disposizioni, in quanto, ai sensi del menzionato art. 37, comma 26, il raddoppio dei termini si applica dal periodo d’imposta per il quale, alla data di entrata in vigore del decreto legge, siano ancora pendenti i termini ordinari per l’accertamento, per cui interessa anche il caso in esame relativo ad un avviso di accertamento emesso in relazione al periodo di imposta 2005 (cfr., in tema, Cass., ord., 13 settembre 2018, n. 22337; Cass. 16 dicembre 2016, n. 26037).

Non vengono, invece, in rilievo, le modifiche introdotte, dapprima, dal D.Lgs. 3 agosto 2015, n. 128, art. 2, commi 1 e 2, che ha circoscritto il raddoppio dei termini di accertamento per violazioni penali solo ai casi in cui la denuncia è effettivamente presentata e trasmessa all’autorità giudiziaria entro il termine ordinario di decadenza dal potere di accertamento, quindi, dalla L. 28 dicembre 2015, n. 208, art. 1, commi da 130 a 132, che hanno, tra le altre disposizioni, eliminato la fattispecie del raddoppio dei termini ordinari.

Infatti, quanto alla prima modifica, in virtù dell’apposita norma di salvaguardia prevista dal D.Lgs. n. 128 del 2015, art. 2, la stessa non si applica alle violazioni punibili constatate in processi verbali notificati prima del 2 settembre 2015 e seguite dalla notifica di atti impositivi entro il 31 dicembre 2015, quali sono quelle in oggetto, in cui la notifica dell’avviso di accertamento è intervenuta in data 12 giugno 2012.

Quanto alla ulteriore modifica, il regime transitorio previsto dalla L. n. 208 del 2015, per i periodi d’imposta anteriori a quello in corso al 31 dicembre 2016 – secondo cui il raddoppio dei termini di accertamento, quali stabiliti dal comma 132, secondo periodo, opera, nel caso delle indicate violazioni penali, solo a condizione che la denuncia penale sia presentata o trasmessa dall’amministrazione finanziaria entro il termine stabilito nel medesimo comma 132, primo periodo, – riguarda solo le fattispecie non regolate dal precedente regime transitorio, cioè i casi in cui non sia stato notificato un atto impositivo (o di irrogazione di sanzioni) entro il 2 settembre 2015, in quanto, ai sensi del D.Lgs. n. 128 del 2015, art. 3, comma 2, sono comunque fatti salvi gli effetti degli avvisi di accertamento, dei provvedimenti che irrogano sanzioni amministrative tributarie e degli altri atti impugnabili con i quali l’Agenzia delle entrate fa valere una pretesa impositiva o sanzionatoria, notificati alla data di entrata in vigore di tale decreto.

2.2. Ciò posto, secondo la disciplina applicabile al caso in esame, il raddoppio dei termini deriva dal mero riscontro di fatti comportanti l’obbligo di denuncia penale ai sensi dell’art. 331 c.p.p., indipendentemente dall’effettiva presentazione della denuncia, dall’inizio dell’azione penale e dall’accertamento penale del reato, restando irrilevante, in particolare, che l’azione penale non sia proseguita o sia intervenuta una decisione penale di proscioglimento, di assoluzione o di condanna (cfr., altresì, Cass., ord., 30 maggio 2016, n. 11171).

Infatti, come, evidenziato dalla Corte Costituzionale nella sentenza n. 247 del 25 luglio 2011, l’unica condizione per il raddoppio dei termini è costituita dalla sussistenza dell’obbligo di denuncia penale, indipendentemente dal momento in cui tale obbligo sorga ed indipendentemente dal suo adempimento, sicchè “il giudice tributario dovrà controllare, se richiesto con i motivi di impugnazione, la sussistenza dei presupposti dell’obbligo di denuncia, compiendo, al riguardo, una valutazione ora per allora (cosiddetta “prognosi postuma”) circa la loro ricorrenza ed accertando, quindi, se l’amministrazione finanziaria abbia agito con imparzialità od abbia, invece, fatto uso pretestuoso e strumentale delle disposizioni denunciate al fine di fruire ingiustificatamente di un più ampio termine di accertamento”.

Pertanto, la Commissione regionale, nel ritenere che, ai fini del raddoppio del termine ordinario, fosse sufficiente la sussistenza dell’obbligo di denuncia, essendo irrilevante il momento in cui la denuncia fosse stata presentata o, comunque, il relativo procedimento penale fosse stato instaurato, ha fatto corretta applicazione dei richiamati principi di diritto.

3. Con il terzo motivo la società si duole dell’omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio, oggetto di discussione tra le parti, in relazione alla assenza di un rapporto partecipativo odi collegamento con la società venditrice e l’originaria dante causa di questa e di una frode fiscale posta in essere dalla venditrice mediante il mancato versamento dell’Iva riscossa, per essere tale debito compensato con il diritto alla detrazione spettante a quest’ultima e avente ad oggetto l’Iva di rivalsa assolta per l’acquisto degli immobili poi ceduti.

Evidenzia, inoltre, che il procedimento penale instaurato sui fatti in oggetto si era concluso con l’archiviazione e che il prezzo di acquisto degli immobili acquistati era stato integralmente versato.

3.1. Il motivo è inammissibile.

Ai sensi dell’art. 348-ter c.p.c., comma 5, – applicabile al caso in esame atteso che l’appello risulta essere stato proposto successivamente all’11 settembre 2012 – è precluso il ricorso in cassazione per vizi di motivazione laddove sia fondato sulle stesse ragioni, inerenti alle questioni di fatto, poste a base della decisione impugnata.

Pertanto, il ricorrente, per evitare l’inammissibilità del motivo di cui all’art. 360 c.p.c., n. 5, deve indicare le ragioni di fatto poste a base della decisione di primo grado e quelle poste a base della sentenza di rigetto dell’appello, dimostrando che esse sono tra loro diverse (cfr. Cass. 22 dicembre 2016, n. 26774; Cass. 10 marzo 2014, n. 5528).

La parte, tuttavia, non ha assolto ad un siffatto onere, per cui la censura non può trovare ingresso in questa sede.

4. Con il quarto motivo la contribuente lamenta la violazione e falsa applicazione del D.P.R. n. 633 del 1972, art. 19, e art. 2697 c.c., per aver la sentenza impugnata negato il diritto alla detrazione dell’I.v.a. di rivalsa assolta pur in presenza di un’operazione che non si inseriva in una frode fiscale o, comunque, della incolpevole ignoranza di tale frode da parte del cessionario.

Evidenzia, in proposito, che erano stati dimostrati l’effettivo acquisto del bene dal suo proprietario, l’integrale corresponsione del prezzo, coerente con quello di mercato, la sussistenza di ragioni imprenditoriali dell’operazione, effettivamente eseguita, l’insussistenza di una frode fiscale da parte del cedente, nonchè l’assenza di rapporti partecipativi o di collegamento con il cedente medesimo.

4.1. Il motivo è infondato.

La Commissione regionale, dopo aver rilevato che la cedente non aveva provveduto al versamento dell’I.v.a. riscossa, ha ritenuto che la società contribuente “abbia accettato di partecipare ad un disegno fraudolento teso ad evadere l’I.v.a. da corrispondere in relazione al trasferimento di immobili, così come ritenuto dal primo giudice, con una decisione che ha ritenuto non sufficienti e non conferenti… le giustificazioni economiche e/o imprenditoriali che la parte avanza quale “giustificazione del proprio contegno”; esse presentano altresì una semplicità che cozza con l’operazione complessa, articolata e di valenza economica assai significativa, elementi che avrebbero dovuto indurre a comportamenti più oculati…”.

In relazione a tale aspetto evidenzia sia la mancata registrazione del contratto preliminare concluso con l’originaria proprietaria degli immobili, sia la circostanza che la stipulazione di tale atto ha richiesto lunghe trattative conclusesi solo con l’individuazione “di un soggetto da interporre… sul quale far confluire gli obblighi di dichiarazione e versamento di imposta, salvo poi vederlo scomparire dalla scena subito dopo la conclusione dell’operazione fraudolenta”, sia con il fatto che tale soggetto non fosse conosciuto dagli altri soggetti coinvolti nell’operazione e non avesse una significativa esperienza imprenditoriale e una solida posizione finanziaria, ma, ciò nonostante, sia stato accettato come controparte dell’operazione.

Ha, quindi, ritenuto che la contribuente “sia stata parte integrante attiva dell’operazione fraudolenta, messa in atto dai diversi soggetti, ai fini dell’evasione dell’I.v.a.”, evidenziando, come rilevato in precedenza, che possono fare affidamento sulla liceità delle operazioni – e, conseguentemente, esercitare il diritto alla detrazione dell’imposta solo quegli operatori “che adottano tutte le misure che si possono loro ragionevolmente richiedere al fine di assicurarsi che le loro operazioni non facciano parte di una frode…”.

Così argomentando, il giudice di appello ha fatto corretta applicazione della legislazione in tema di i.v.a, atteso che è principio generale quello per cui i singoli non possono avvalersi, nel contesto di un’evasione o di un abuso, delle norme del diritto dell’Unione, ivi incluse quelle che riconoscono il diritto alla detrazione dell’i.v.a., rilevante nel caso in esame, e ciò sia quando un’evasione tributaria è commessa dallo stesso soggetto passivo, sia quando il soggetto passivo sapeva o avrebbe dovuto sapere di partecipare ad un’operazione che si iscriveva in un’evasione dell’i.v.a. commessa dal fornitore o da un altro operatore intervenuto, a monte o a valle, nell’ambito della catena di fornitura, non essendo invocabile, in senso contrario, il principio di neutralità fiscale (cfr., ex multis, Corte Giust., 18 maggio 2017, Litdana; Corte Giust., 6 dicembre 2012, Bonik; tra la giurisprudenza nazionale, cfr. Cass., Sez. Un., 12 settembre 2017, n. 21105).

Ha, infatti, accertato, da un lato, l’esistenza di una frode fiscale posta in essere dalla cedente, in relazione al mancato versamento dell’i.v.a. di rivalsa riscossa dalla contribuente, e, dall’altro, la mancata adozione da parte di quest’ultima di tutte le misure ragionevolmente esigibili da parte di un operatore accorto al fine di assicurarsi che una l’operazione non si inserisse in una frode, anche in considerazione della rilevanza economica dell’operazione e dell’assenza di indici reputazionali positivi dell’esponente della società cedente, non essendo sufficiente nè la dimostrazione dell’effettività dell’operazione e della corresponsione del prezzo – funzionale, in realtà, alla frode – coerente con quello di mercato, nè l’inerenza dell’operazione, nè l’assenza di rapporti partecipativi o di collegamento con il cedente medesimo.

5. Con il quinto motivo la ricorrente censura la sentenza impugnata, con riferimento all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4, per violazione dell’art. 112 c.p.c., nella parte in cui ha statuito la legittimità della sanzione di cui al D.Lgs. 18 dicembre 1997, n. 471, art. 6, comma 8, benchè l’Ufficio avesse irrogato la sanzione invocando la diversa fattispecie di cui al medesimo decreto, art. 5, comma 4.

5.1. Il motivo è infondato.

Il giudice di appello ha ritenuto che la sanzione in oggetto fosse stata irrogata dall’ufficio ai sensi del D.Lgs. n. 471 del 1997, art. 6, comma 8, e che il richiamo alla diversa disposizione di cui al D.Lgs. n. 471 del 1997, art. 5, comma 4, costituisse un refuso.

Orbene, nell’esercizio del potere di interpretazione e qualificazione della domanda, il giudice di merito non è condizionato dalle espressioni adoperate dalla parte, dovendo accertare e valutare il contenuto sostanziale della pretesa, quale desumibile non esclusivamente dal tenore letterale degli atti, ma anche dalla natura delle vicende rappresentate dalla medesima parte e dalle precisazioni da essa fornite nel corso del giudizio, nonchè dal provvedimento concreto richiesto, ma deve rispettare i limiti della corrispondenza tra chiesto e pronunciato e del divieto di sostituire d’ufficio un’azione diversa da quella proposta (cfr. Cass., ord., 21 maggio 2019, n. 13602; Cass. 25 febbraio 2019, n. 5402).

Nel caso in esame, non risulta che tali limiti siano stati violati, non essendo dedotto che l’atto irrogativo della sanzione, che costituisce, in ragione della natura del processo tributario, (anche) domanda dell’eventuale giudizio di impugnazione, sia sotto il profilo del petitum che della causa petendi, fosse privo della indicazione della sanzione irrogata, dei fatti attribuiti al trasgressore e della fattispecie sanzionatoria applicata, atteso che viene dedotta solo l’erronea indicazione numerica dell’articolo della relativa disposizione legislativa.

6. Con il sesto motivo la società allega la violazione e falsa applicazione del D.Lgs. n. 471 del 1997, art. 6, comma 8, per aver la Commissione regionale ritenuto sussistente gli estremi per l’applicazione della sanzione prevista da tale disposizione legislativa benchè il corrispettivo indicato in fattura dal cedente fosse stato versato dall’acquirente.

7. Con l’ultimo motivo di ricorso si critica la decisione di appello per violazione e falsa applicazione del principio unionale di proporzionalità delle sanzioni, per aver ritenuto corretta l’irrogazione della sanzione prevista dal D.Lgs. n. 471 del 1997, art. 6, comma 8, benchè la condotta violativa della disciplina i.v.a. fosse stata sanzionata anche con il disconoscimento del diritto alla detrazione dell’i.v.a.

7.1. I motivi, esaminabili congiuntamente, sono inammissibili.

La parte omette di riprodurre, quanto meno per le parti rilevanti ai fini che qui interessano, il contenuto dell’avviso di accertamento, necessario, in assenza di utili indicazioni ricavabili dalla sentenza, al fine di avere contezza delle ragioni di fatto e di diritto poste a fondamento della irrogazione della sanzione e, conseguentemente, di valutare la rilevanza e la fondatezza dei motivi stessi, senza dover procedere all’esame dei fascicoli di ufficio o di parte (cfr. Cass., sez. un., 28 luglio 2005, n. 15781; in tal senso, successivamente, Cass. 20 agosto 2015, n. 17049).

In tal modo non ha assolto all’onere imposto dall’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 6, e ha, dunque, violato il principio di specificità ivi contemplato, non offrendo gli elementi indispensabili per consentire di effettuare un giudizio positivo in ordine all’ammissibilità e alla fondatezza delle questioni prospettate.

8. Pertanto, per le suesposte considerazioni il ricorso non può essere accolto.

9. Le spese processuali seguono il criterio della soccombenza e si liquidano come in dispositivo.

10. Sussistono i presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1-bis, se dovuto

PQM

la Corte rigetta il ricorso; condanna parte ricorrente alla rifusione delle spese del giudizio di legittimità, che si liquidano in complessivi Euro 13.000,00, oltre spese prenotate a debito.

Ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1-quater, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma del cit. art. 13, comma 1-bis, se dovuto.

Così deciso in Roma, il 11 febbraio 2020.

Depositato in Cancelleria il 15 luglio 2020

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