Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 14999 del 15/07/2020

Cassazione civile sez. trib., 15/07/2020, (ud. 11/02/2020, dep. 15/07/2020), n.14999

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. BISOGNI Giacinto – Presidente –

Dott. BRUSCHETTA Ernestino Luigi – Consigliere –

Dott. CATALLOZZI Paolo – rel. Consigliere –

Dott. GORI Pierpaolo – Consigliere –

Dott. ARMONE Giovanni Maria – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso iscritto al n. 7995/2014 R.G. proposto da:

Tecnologie Impiantistiche s.r.l., in persona del legale

rappresentante pro tempore, rappresentata e difesa dagli avv. Elena

Sorgente e Gianluca Contaldi, con domicilio eletto presso lo studio

di quest’ultimo, sito in Roma, via Pierluigi da Palestrina, 63;

– ricorrente –

contro

Agenzia delle Entrate, in persona del Direttore pro tempore,

rappresentata e difesa dall’Avvocatura Generale dello Stato, presso

la quale è domiciliata in Roma, via dei Portoghesi, 12;

– controricorrente –

avverso la sentenza della Commissione tributaria regionale del

Piemonte, n. 92/26/13, depositata il 19 settembre 2013.

Udita la relazione svolta nella pubblica udienza dell’11 febbraio

2020 dal Consigliere Paolo Catallozzi;

udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore

generale Rita Sanlorenzo, che ha concluso chiedendo il rigetto del

ricorso;

uditi gli avv. Stefania Contaldi, per delega dell’avv. Sorgente, per

la ricorrente, ed Eugenio De Bonis, per la controricorrente.

Fatto

FATTI DI CAUSA

1. La Tecnologie Impiantistiche s.r.l. propone ricorso per cassazione avverso la sentenza della Commissione tributaria regionale del Piemonte, depositata il 19 settembre 2013, di reiezione del suo appello avverso la sentenza di primo grado che aveva respinto il ricorso per l’annullamento dell’avviso di accertamento con cui era stata rettificata la dichiarazione resa per l’anno 2007.

2. Dall’esame della sentenza impugnata si evince che con tale atto impositivo l’Ufficio aveva contestato l’omessa contabilizzazione di ricavi, l’indebita deduzione di componenti passivi e l’assoggettamento di prestazioni attive al regime del revers charge in difetto dei relativi presupposti e proceduto al recupero dell’i.re.s., i.r.a.p. e i.v.a. non versate, oltre all’irrogazione delle relative sanzioni.

3. Il ricorso è affidato a otto motivi.

4. Resiste con controricorso l’Agenzia delle Entrate.

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

1. Con il primo motivo di ricorso la contribuente denuncia la violazione e falsa applicazione del T.U. 22 dicembre 1986, n. 917, art. 109, artt. 1665 e 2697 c.c., D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, art. 39, comma 1, lett. c), e art. 42, nonchè, con riferimento all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4, la nullità della sentenza per difetto di corrispondenza tra chiesto e pronunciato e omessa motivazione, e, con riferimento con riferimento all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, l’omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio, oggetto di discussione tra le parti o, comunque, l’insufficiente, contraddittoria o illogica motivazione.

Evidenzia l’erroneità della decisione nella parte in cui, in relazione alla ripresa attinente l’indebito storno di ricavi contabilizzato, ha posto a suo carico l’onere di dimostrare la correttezza della annotazione, relativa a corrispettivo di un contratto di appalto di lavori che sarebbe stato ultimato nel periodo di imposta successivo, in relazione al momento in cui era intervenuta l’accettazione al committente.

Sottolinea, inoltre, l’omesso esame della questione relativa alla riferibilità dei ricavi in oggetto al periodo di imposta in esame.

1.1. Il motivo è fondato.

In tema di imposte sul reddito d’impresa, è principio generale quello, dettato dal T.U. n. 917 del 1986, art. 75, nella formulazione vigente ratione temporis, secondo cui i ricavi, i costi e gli altri oneri concorrono a formare il reddito nell’esercizio di competenza, a condizione che la loro esistenza o il loro ammontare sia determinabile in modo oggettivo, dovendo altrimenti essere calcolati nel periodo d’imposta in cui si verificano tali condizioni.

L’onere di provare tali circostanze incombe, quanto alle componenti positive, sull’Amministrazione finanziaria e, quanto a quelle negative, sul contribuente per quelle negative (cfr. Cass. 6 giugno 2019, n. 15320; Cass. 9 novembre 2018, n. 28671; Cass. 14 maggio 2007, n. 10988).

1.2. Si osserva, inoltre, che, con riferimento alle prestazioni di servizi, nelle quali rientrano pacificamente i contratti di appalto, il T.U. n. 917 del 1986, art. 75, comma 2, lett. b), stabilisce che i corrispettivi si considerano conseguiti alla data in cui le prestazioni sono ultimati, ovverosia di quelli in ordine ai quali sia intervenuta l’accettazione del committente, derivante dalla positiva esecuzione del collaudo o conseguente all’espressione, per facta concludentia, di una volontà incompatibile con la mancata accettazione, secondo quanto stabilito nell’art. 1665 c.c., commi 2 e 3, (cfr. Cass. 18 dicembre 2009, n. 26665).

Orbene, la Commissione regionale ha ritenuto che gravasse sul contribuente dimostrare la correttezza del contestato storno di ricavi, ponendo, nella sostanza, a suo carico la prova della non riferibilità di tale componente attiva.

Così facendo, non ha fatto corretta applicazione dei richiamati principi di diritto, in quanto ha errato nell’individuare il soggetto gravato dell’onere di dimostrare la sussistenza della componente positiva di reddito.

Sotto altro aspetto, ha omesso di prendere in esame la circostanza fattuale relativa al momento di ultimazione dei lavori, decisiva e controversa, in relazione alla riferibilità di tale componente al periodo di imposta in esame.

2. All’accoglimento del primo motivo di ricorso segue l’assorbimento del secondo con cui si deduce la violazione e falsa applicazione della L. 27 luglio 2000, n. 212, art. 10,artt. 25,97 e 111 Cost., C.E.D.U., art. 6, e D.P.R. n. 600 del 1973, art. 42, nella parte in cui la sentenza ha escluso che l’impossibilità di dimostrare la conclusione di contratti verbali con prova testimoniale costituisse una probatio diabolica, impossibile da assolvere.

3. Con il terzo motivo di ricorso la società si duole della violazione e falsa applicazione degli artt. 1988,2720 e 2697 c.c., D.P.R. n. 600 del 1973, artt. 39,42 e 43, e T.U. n. 917 del 1986, artt. 7 e 109, nonchè, con riferimento all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4, della nullità della sentenza per difetto di corrispondenza tra chiesto e pronunciato e omessa motivazione, e, con riferimento con riferimento all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, dell’omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio, oggetto di discussione tra le parti o, comunque, dell’insufficiente, contraddittoria o illogica motivazione.

Contesta la decisione nella parte in cui, in relazione alla ripresa attinente il disconoscimento della posta passiva rappresentata da un debito, ha omesso di considerare che si trattava di un debito iscritto a bilancio per l’anno 2003, per cui il relativo disconoscimento non poteva compiersi in sede di verifica dell’esercizio 2007 e, comunque, la posta passiva risultava neutra per tale esercizio.

Ha, poi, aggiunto che gravava sull’Amministrazione finanziaria dimostrare l’inesistenza della posta passiva.

4. Analoga censura viene formulata in ordine al capo di sentenza con cui, in relazione alla ripresa attinente il disconoscimento della posta passiva rappresentata da un finanziamento soci, ha ritenuto corretto il disconoscimento del costo dedotto dalla società.

4.1. I motivi, esaminabili congiuntamente attesa l’identità delle questioni sollevate, sono infondati.

In presenza di una contestazione dell’Ufficio relativa all’insussistenza di una posta passiva iscritta a bilancio, è onere del contribuente, per le ragioni indicate in occasione dell’esame del primo motivo, dimostrare l’esistenza e l’ammontare della stessa, oltre che l’inerenza all’attività di impresa esercitata, fini della deduzione della stessa.

A nulla rileva la circostanza, invocata dalla contribuente, relativa alla presenza della posta passiva nei bilanci redatti negli esercizi precedenti (sin dal 2003), avuto riguardo sia all’autonomia dei periodi di imposta a fini dell’esercizio del potere impositivo, tale per cui l’inerzia dell’Amministrazione finanziaria relativamente alla dichiarazione resa per il periodo di imposta non vincola la stessa con riferimento all’accertamento dei periodi imposta successivi e il relativo termine di decadenziale va valutato con riferimento al periodo di imposta cui si riferisce la dichiarazione rettificata, sia alla rilevanza di circostanze sopravvenute che determinano il venir meno delle passività iscritte, come desumibile dal T.U. n. 917 del 1986, art. 88, che qualifica sopravvenienza attiva la sopravvenuta insussistenza di spese, perdite od oneri dedotti o di passività iscritte in bilancio in precedenti esercizi.

5. Con il quinto motivo la ricorrente lamenta la violazione e falsa applicazione degli artt. 1406,1469,2470 e 2697 c.c., del D.P.R. n. 600 del 1973, artt. 39,42 e 43, e T.U. n. 917 del 1986, artt. 88 e 109, nonchè, con riferimento all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4, la nullità della sentenza per difetto di corrispondenza tra chiesto e pronunciato e omessa motivazione, e, con riferimento con riferimento all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, l’omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio, oggetto di discussione tra le parti o, comunque, l’insufficiente, contraddittoria o illogica motivazione.

Rappresenta che, in relazione alla menzionata ripresa attinente il disconoscimento della posta passiva rappresentata da un finanziamento soci, ha omesso di considerare che la sopravvenuta cessione del corrispondente credito non rivestiva incidenza ai fini della deducibilità del costo.

Ha, inoltre, osservato che la rinuncia del socio creditore alla restituzione del finanziamento non costituiva sopravvenienza tassabile ai sensi del T.U. n. 917 del 1986, art. 88.

5.1. Il motivo è inammissibile, in quanto non coglie la ratio decidendi, consistente nella mancata dimostrazione da parte del contribuente della passività.

6. Con il sesto motivo la contribuente critica la sentenza impugnata per violazione e falsa applicazione del D.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633, artt. 17 e 54, art. 97 Cost., L. n. 212 del 2000, art. 10, nonchè, con riferimento all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4, per nullità della sentenza per difetto di corrispondenza tra chiesto e pronunciato e omessa motivazione, e, con riferimento con riferimento all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, per omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio, oggetto di discussione tra le parti o, comunque, per insufficiente, contraddittoria o illogica motivazione.

Sostiene che, in relazione alla ripresa concernente l’i.v.a. non assolta su prestazioni di servizi, in quanto fatturate in regime di reverse charge, erroneamente la Commissione regionale, in presenza della contestazione dell’Ufficio in ordine alla sussistenza dei presupposti per l’inversione contabile, aveva posto a suo carico l’onere della relativa dimostrazione.

Evidenzia, altresì, sia l’apoditticità delle affermazioni relative alla necessità di dimostrare tali operazioni mediante il deposito dei relativi documenti contrattuali e all’assenza di elementi oggettivi di riscontro della validità dei rapporti, sia l’assenza di danno erariale conseguente all’eventuale erronea applicazione di tale regime, attesa la sua neutralità ai fini i.v.a., in quanto non traslata.

6.1. Il motivo è infondato.

Occorre rilevare, per una migliore comprensione dei fatti, che le operazioni in oggetto si riferiscono, secondo quanto riferisce la contribuente, a prestazioni dalla medesima rese in favore di terzi in esecuzione di contratti di subappalto.

In relazione a tali prestazioni la committente non ha applicato la relativa i.v.a., ritenendo operativo il meccanismo dell’inversione contabile ai sensi del D.P.R. n. 633 del 1972, art. 17, comma 6, lett. a), nella formulazione applicabile ratione temporis.

6.2. Ciò posto, si rammenta che il meccanismo del reverse charge è un particolare metodo di applicazione dell’i.v.a. che, in deroga al principio di carattere generale, secondo cui debitore d’imposta è il soggetto che, nell’esercizio di impresa, effettua operazioni rilevanti nel territorio dello Stato, prevede che, per alcune operazioni, debitore d’imposta sia il soggetto passivo nei confronti del quale tali operazioni vengono effettuate.

Questi, ricevuta la fattura senza addebito dell’imposta, provvede ad integrare il documento ricevuto con l’aliquota di riferimento per il tipo di operazione fatturata e, allo stesso tempo, alla duplice annotazione nel registro acquisti (fatture di acquisto) e nel registro vendite (fatture emesse).

6.3. Orbene, l’invocato D.P.R. n. 633 del 1972, art. 17, comma 6, contempla, tra le diverse operazioni soggette all’inversione contabile, alla lett. a), le “prestazioni di servizi, compresa la prestazione di manodopera, rese nel settore edile da soggetti subappaltatori nei confronti delle imprese che svolgono l’attività di costruzione o ristrutturazione di immobili ovvero nei confronti dell’appaltatore principale o di un altro subappaltatore”.

Tale fattispecie rientra nell’ambito del cd. reverse charge interno, ossia dell’inversione contabile prevista in relazione ad alcune tipologie di operazioni interne, ed è ispirata alla ratio di contrastare le frodi all’i.v.a. che possono verificarsi nel settore dell’edilizia mediante il mancato versamento dell’imposta da parte delle imprese edili, dopo che le stesse ne abbiano addebitato l’importo ai committenti.

In proposito, si ritiene che qualora, come nel caso in esame, l’Amministrazione finanziaria contesti la riconducibilità dell’operazione ad una delle fattispecie per le quali è previsto l’assolvimento dell’imposta mediante il regime dell’inversione contabile e, dunque, l’omesso versamento, spetti alla contribuente offrire elementi idonei a dimostrare la correttezza del suo operato e, per l’esattezza, l’esistenza dei presupposti oggettivi e soggettivi per l’assolvimento dell’i.v.a. mediante tale regime.

Ciò in ragione sia del carattere derogatorio del regime del reverse charge interno rispetto a quello ordinario, come chiaramente desumibile dalla formulazione testuale del D.P.R. n. 633 del 1972, art. 17, sia dell’esigenza di interpretare la disciplina in funzione della richiamata ratio che le è sottesa, sia, infine, del principio di vicinanza della prova, avuto riguardo alla materiale disponibilità per l’impresa contribuente di elementi idonei a dimostrare la natura delle operazioni in esame.

La Commissione regionale ha ritenuto, sia pure con una motivazione sintetica, che la parte non avesse offerto elementi documentali ovvero di altra natura – dai quali poter desumere l’esistenza e l’oggetto di tali operazioni, facendo, in tal modo, corretta applicazione del richiamato principio in materia di onere.

6.4. Non pertinente è l’argomentazione addotta dalla ricorrente relativa all’assenza di un danno erariale e alla natura formale della violazione, atteso che, a differenza dei casi richiamati della parte di violazioni relative al regime di inversione contabile in presenza dell’assolvimento degli obblighi sostanziali, in questo caso l’erroneo ricorso al regime dell’inversione contabile ha determinato un’evasione di imposta da parte della contribuente, in relazione alla mancata contabilizzazione di ricavi derivanti dalle operazioni in oggetto.

7. Con il sesto motivo la società censura la sentenza impugnata per violazione e falsa applicazione del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 42, nonchè, con riferimento all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4, per nullità della sentenza per omessa pronuncia e omessa motivazione, e, con riferimento con riferimento all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, per omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio, oggetto di discussione tra le parti o, comunque, per insufficiente, contraddittoria o illogica motivazione.

Osserva che, in relazione al vizio di mancanza di motivazione e di indicazione dei requisiti prescritti dal menzionato art. 42, oggetto di censura del ricorso introduttivo, riproposta in sede di appello, il giudice di appello avrebbe omesso di esaminare le questioni ivi sollevate, con cui si allegava la necessità di indicare, oltre all’aliquota, anche il relativo riferimento normativo, la mancata indicazione degli elementi utilizzati per il calcolo interessi, l’omessa specificazione degli elementi posti a fondamento delle sanzioni irrogate, nonchè l’erronea individuazione del destinatario, stante l’individuazione organica della società in un soggetto diverso dal legale rappresentante in carica al tempo di emissione dell’atto impositivo.

7.1. Il motivo è infondato.

La Commissione regionale ha, sul punto, ha affermato che non sussisteva la violazione di legge dedotta dalla società in quanto l’avviso di accertamento conteneva l’indicazione delle aliquote applicate e delle imposte liquidate e le indicazioni ivi contenute in ordine al calcolo degli interessi “si manifestavano più che sufficienti a consentire il controllo del contribuente”.

Ha, poi, aggiunto che non assumeva rilevanza il fatto che il legale rappresentante dedicato dell’avviso di accertamento fosse cessato dalla carica antecedentemente alla notifica dell’atto.

Ha, quindi, ritenuto che “prive di fondamento (erano) le censure in ordine alle sanzioni irrogate”.

Una motivazione appare idonea ad evidenziare l’iter logico giuridico seguito dal giudice, rendendo in tal modo possibile il controllo sull’esattezza e logicità del ragionamento, per cui prova di pregio è la censura nella parte in cui si contesta la nullità della sentenza impugnata per omessa pronuncia e omessa motivazione.

7.2. In merito al prospettato vizio per violazione di legge, si osserva che, in relazione ad imposte ad aliquota unica, il precetto normativo di cui al D.P.R. n. 600 del 1973, art. 42, relativo ai contenuti obbligatori dell’avviso di accertamento, deve ritenersi soddisfatto anche con la sola indicazione dell’imponibile e dell’imposta liquidata, considerata la semplicità con la quale, in presenza di quegli elementi, il contribuente può risalire alla aliquota applicata, per cui sarebbe irrazionale un’interpretazione della norma che facesse discendere da una omissione puramente formale, perchè assolutamente priva di rilievo sostanziale, la nullità dell’accertamento, prevista, invece, laddove l’atto impositivo presenti ben più rilevanti carenze (così, Cass., ord., 7 luglio 2017, n. 16772; Cass. 21 aprile 2011, n. 9196).

7.3. In ordine alla motivazione relativa al calcolo degli interessi e delle sanzioni irrogate, la censura si risolve in un’inammissibile istanza di rivalutazione del giudizio espresso dalla Commissione regionale, istanza che non può trovare ingresso in questa sede in quanto la Corte di cassazione non è mai giudice del fatto in senso sostanziale e non può riesaminare e valutare autonomamente il merito della causa (cfr. Cass. 28 novembre 2014, n. 25332; Cass., ord., 22 settembre 2014, n. 19959).

7.4. Infine, l’indicazione nell’avviso di accertamento del nominativo del legale rappresentante nella persona di un nominativo non più in carica al momento della notifica non costituisce vizio dell’atto – tanto meno sotto la prospettata violazione del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 42, -, avuto riguardo alla sua inidoneità ad impedire il prodursi dell’effetto della notifica dell’atto e la conoscenza del suo contenuto e delle motivazioni poste a fondamento dello stesso in capo alla società contribuente.

8. Con l’ultimo motivo di ricorso quest’ultima deduce la violazione e falsa applicazione del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 39, comma 1, e art. 42, L. n. 212 del 2000, art. 7, e L. 7 agosto 1990, n. 241, art. 3, nonchè, con riferimento all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4, la nullità della sentenza per omessa pronuncia e omessa motivazione, e, con riferimento con riferimento all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, l’omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio, oggetto di discussione tra le parti o, comunque, per insufficiente, contraddittoria o illogica motivazione.

Evidenzia che, in relazione al vizio di nullità dell’atto impositivo per mancata motivazione in ordine alla tipologia dell’accertamento effettuato, il giudice di appello avrebbe ritenuto priva di rilevanza l’omessa specifica indicazione nell’atto impositivo della disposizione normativa posta a fondamento dell’accertamento operato, nonchè la carenza della prova delle contestazioni ivi formulate.

8.1. Il motivo è infondato.

La Commissione regionale ha, in proposito, ritenuto che “non pare potersi seriamente revocare in dubbio la sua natura di accertamento analitico-contabile”, aggiungendo che “il riscontro dei rilievi effettuati consente di individuare chiaramente il criterio adottato e, stante l’evidenza di questo, eventuali incompletezze riguardo alle norme utilizzate non inficia l’atto”.

Orbene, in tema di imposte sui redditi, la mancata indicazione, nell’avviso di accertamento, della norma asseritamente violata non è, di per sè, causa di nullità dell’atto per inosservanza dell’obbligo di motivazione, ove lo stesso indichi i presupposti di fatto e le ragioni di diritto che permettano al contribuente di esercitare il proprio diritto difensivo (così, Cass. 12 aprile 2017, n. 9499).

Non può, infine, trovare ingresso in questa sede la contestazione in ordine alla idoneità degli elementi di prova addotti dall’Ufficio a dimostrare la sussistenza della pretesa erariale, trattandosi di una censura alla valutazione delle risultanze probatorie operata dal giudice di merito, inammissibile, come rilevato in precedenza, in questa sede.

9. La sentenza impugnata va, dunque, cassata con riferimento al motivo accolto e rinviata, anche per le spese, alla Commissione tributaria regionale del Piemonte, in diversa composizione.

P.Q.M.

la Corte accoglie il primo motivo di ricorso, dichiara assorbito il secondo e inammissibile il quinto e rigetta i restanti; cassa la sentenza impugnata con riferimento al motivo accolto e rinvia, anche per le spese, alla Commissione regionale del Piemonte, in diversa composizione.

Così deciso in Roma, il 11 febbraio 2020.

Depositato in Cancelleria il 15 luglio 2020

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