Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 14992 del 21/07/2016


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Cassazione civile sez. III, 21/07/2016, (ud. 29/01/2016, dep. 21/07/2016), n.14992

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TERZA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. ARMANO Uliana – Presidente –

Dott. FRASCA Raffaele – rel. Consigliere –

Dott. RUBINO Lina – Consigliere –

Dott. CIRILLO Francesco Maria – Consigliere –

Dott. ROSSETTI Marco – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 2644-2014 proposto da:

CONSORZIO FRA I CASEIFICI DELL’ALTOPIANO DI ASIAGO SCARL, (OMISSIS)

in persona del suo legale rappresentante P.G.,

elettivamente domiciliata in ROMA, VIA A. VESALIO, 22, presso lo

studio dell’avvocato NATALE IRTI, che la rappresenta e difende

giusta procura speciale del Dott. Notaio GIOVANNI MURARO in ASIAGO

il 16/1/2016 rep. n. 52864 unitamente agli avvocati STEFANO CARINI,

GIOVANNI MORENI giusta procura speciale a margine del ricorso;

– ricorrente –

contro

BCC ASSICURAZIONI SPA, (OMISSIS), SOCIETA’ CATTOLICA DI ASSICURAZIONE

SOCIETA’ COOPERATIVA (OMISSIS), UNIPOL ASSICURAZIONI SPA ORA

UNIPOLSAI SPA (OMISSIS), MILANO ASSICURAZIONI SPA;

– intimati –

nonchè da:

UNIPOLSAI SPA (OMISSIS) già FONDIARIA-SAI S.P.A. dopo aver

incorporato per fusione UNIPOL ASSICURAZIONI SPA e MILANO

ASSICURAZIONI S.P.A. in persona del suo procuratore speciale

Dott.ssa G.G., SOCIETA’ CATTOLICA DI ASSICURAZIONE

SOCIETA’ COOPERATIVA A R.L. (OMISSIS) in qualità di cessionaria del

ramo di azienda di COMPAGNIA ITALIANA RISCHI AZIENDE-C.I.R.A. S.P.A.

in persona del suo procuratore speciale Dott. B.A.,

B.C.C. ASSICURAZIONI S.P.A. nuova denominazione assunta da C.I.R.A.

(OMISSIS) in persona del Dott B.A., elettivamente

domiciliate in ROMA, VIA OSLAVIA 39-F, presso lo studio

dell’avvocato EMANUELE CARLONI, che le rappresenta e difende

unitamente agli avvocati FRANCESCO LAPENNA, FAUSTO LAPENNA, EDOARDO

BIANCHI giusta procura speciale in calce al controricorso e ricorso

incidentale;

– ricorrenti incidentali –

contro

CONSORZIO FRA I CASEIFICI DELL’ALTOPIANO DI ASIAGO S.C.a R.L.;

– intimati –

avverso la sentenza n. 2326/2013 della CORTE D’APPELLO di MILANO,

depositata il 05/06/2013, R.G.N. 2182/2011;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

29/01/2016 dal Consigliere Dott. RAFFAELE FRASCA;

udito l’Avvocato FRANCESCO ARNAUD per delega;

udito l’Avvocato EMANUELE CARLONI;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

PATRONE Ignazio, che ha concluso per l’inammissibilità o rigetto di

entrambi.

Fatto

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

1. Il Consorzio fra i Caseifici dell’Altopiano di Asiago S.c. a r.l. ha proposto ricorso per cassazione contro la BCC Assicurazioni s.p.a., la Società Cattolica di Assicurazione Società Cooperativa, la Unipol Assicurazioni s.p.a. (incorporante della UGF Assicurazioni s.p.a.) e la Milano Assicurazioni s.p.a., avverso la sentenza del 5 giugno 2013, con cui la Corte d’Appello di Milano, in parziale riforma della sentenza resa in primo grado dal Tribunale di Milano il 4 maggio 2011, ha accolto in parte l’appello principale di esso ricorrente e rigettato quelli incidentali delle società intimate.

2. Il Tribunale di Milano era stato investito della controversia dal Consorzio con citazione del settembre del 2009 nei confronti della C.I.R.A. (Compagnia Italiana Rischi Aziende s.p.a., che poi assumeva nuova denominazione di B.C.C. Assicurazioni s.p.a.), della U.G.F. Assicurazioni s.p.a. e della Milano Assicurazioni s.p.a., per ottenere dalle stesse, nella loro qualità di coassicuratrici per le quote di rispettiva pertinenza – in forza di una polizza All Risks con esse stipulata l’11 settembre 2006 in relazione ad un complesso di fabbricati siti in (OMISSIS) – l’indennizzo per i danni sofferti a causa di un incendio in esso verificatosi il (OMISSIS), che aveva gravemente danneggiato le partite assicurate dalla polizza, cioè i fabbricati, i macchinari, gli arredamenti e le attrezzature e le merci.

La controversia veniva introdotta dopo l’espletamento della perizia contrattuale prevista dalla polizza e le compagnie assicuratrici resistevano alle domande, prospettando sia contestazioni sull’an che sul quantum ed adducendo altresì l’inesigibilità dell’indennizzo per l’esistenza di vincoli a favore di istituti bancari.

Con la sentenza del maggio 2011 il Tribunale meneghino determinava – così accogliendo parzialmente la domanda di accertamento – l’indennità complessivamente dovuta dalle coassicuratrici nel complessivo importo di Euro 9.955.344, dichiarandone la debenza proporzionalmente alle rispettive quote di copertura del rischio, mentre rigettava le domande di condanna in ragione dell’omessa produzione delle dichiarazioni di assenso degli enti beneficiari del vincolo.

3. Con la sentenza qui impugnata la Corte territoriale, accogliendo parzialmente l’appello principale del Consorzio, ha rideterminato in primo luogo l’indennizzo in Euro 10.040.044,80 oltre rivalutazione monetaria dalla data del sinistro al 28 luglio 2009 (trentesimo giorno dalla liquidazione peritale del danno) e interessi legali da tale data al saldo effettivo. Ha, altresì, condannato le coassicuratrici per le quote di loro spettanza al pagamento dell’indennizzo così rideterminato. Ha rigettato per il resto l’appello principale e l’appello incidentale congiuntamente proposto dalle coassicuratrici.

4. Al ricorso principale del Consorzio contro tale sentenza, affidato a due complessi mezzi, hanno resistito congiuntamente con controricorso la Cattolica, la UnipoSai s.p.a. (qualificatasi come cessionaria del ramo di azienda della C.I.R.A.), quale nuova denominazione della Fondiaria Sai s.p.a. ed incorporante la Unipol Assicurazioni s.p.a. e la Milano Assicurazioni s.p.a., nonchè la B.C.C. (qualificatasi come litisconsorte necessaria della cessionaria Cattolica).

5. Le resistenti nel loro controricorso hanno svolto, affidandolo a tre complessi motivi, ricorso incidentale, che si è perfezionato dal punto di vista delle notificanti il 21 febbraio 2014 e, quindi, ha natura di impugnazione incidentale tardiva.

6. Il ricorrente principale ha depositato memoria e atto di costituzione di un ulteriore difensore, già soltanto domiciliatario, tramite scrittura privata autenticata da notaio.

Diritto

MOTIVI DELLA DECISIONE

1. Con il primo motivo di ricorso principale si deduce “violazione e/o falsa applicazione degli artt. 2697, 1362 e 1370 c.c., anche in relazione agli artt. 115 e 116 c.p.c., e dei principi regolatori dell’interpretazione dei contratti che, nel dubbio, va fatta contro l’autore della clausola (ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 3); nonchè per omesso esame di fatti e documenti decisivi in atti e oggetto di espressa deduzione (ai sensi dell’art. 360, nn. 4) e 5)”.

L’illustrazione del motivo inizia con il riferire il contenuto dell’art. 2, lett. e) delle condizioni di polizza, là dove prevedeva l’applicazione di uno scoperto del 20% in caso di realizzazione di alcune raccomandazioni e precisamente della installazione dei rilevatori di fumo nel magazzino formaggi. Quindi riferisce che il Consorzio, per assolvere al suo onere il Consorzio aveva provveduto a detta installazione e fa riferimento alla produzione in giudizio di una serie di documenti che dimostravano installazione.

Enuncia, poi, che “anche in atto di appello, il Consorzio precisava che la clausola contrattuale faceva riferimento soltanto all’installazione dei rilevatori di fumo e quindi ad un’attività materiale, senza indicazione di particolari requisiti e/o di specifiche caratteristiche tecniche dei rilevatori da installare, ed in particolare senza alcuna menzione e/o richiamo di sorta al certificato di prevenzione incendi ed ai relativi preliminari accertamenti, certificato che riguardava una verifica globale del fabbricato e la cui esistenza era stata ritenuta dalle parti del tutto irrilevante ai fini delle garanzie di polizza e dello scoperto in questione (si ricordi che l’assicuratore aveva assunto il rischio alle condizioni di polizza proprio sul presupposto che tale certificato non vi fosse e non venisse ottenuto dall’assicurato)”.

Segue ancora, sempre come indicazione del contenuto dell’appello, la precisazione che l’avvenuta installazione dei rilevatori era dimostrata dagli elementi probatori prima ricordati e l’assunto che il collegio dei periti che aveva svolto le indagini sul punto in base alle previsioni di polizza all’unanimità non aveva rilevato difformità ed aveva proceduto alla liquidazione dei danni senza applicare lo scoperto del 20%.

Si riproduce, quindi, la motivazione che “sul punto” e, perciò sul contenuto dell’appello ha reso la Corte milanese, peraltro (oltre che senza una nota riproduttiva dell’art. 2 della polizza in parte qua clausola anche) senza una nota che nell’ambito di essa è inserita e riproduce un passo della relazione tecnica da essa evocata.

La motivazione è del seguente tenore: “La società appellante contesta altresì la sentenza nella parte in cui ha applicato lo scoperto del 20% di cui all’art. 2, lett. e) della polizza In sostanza, l’appellante assume che detti rilevatori erano stati regolarmente installati ed erano funzionanti. La doglianza non merita apprezzamento, mentre deve condividersi integralmente la motivazione del primo giudice, fondata sulla mancanza del Certificato di prevenzione incendi, nonchè sul fatto che tale anomalia era già stata riscontata, con accertamento oggettivo e pienamente attendibile, in sede d perizia svolta dal dott. Ing. M.E. in sede penale (doc. 21 pag. 12) e ciò basta a sminuire la valenza probatoria della documentazione prodotta da parte attrice.”.

1.1. Dopo la riproduzione della motivazione che si vorrebbe criticare, l’illustrazione del motivo prospetta in primo luogo la violazione della norma di diritto di cui all’art. 1362 c.c., che riferisce al criterio di esegesi letterale, e sostiene che la clausola di cui all’art. 2, nel prevedere l’installazione dei rilevatori di fumi nel magazzino formaggi non faceva menzione e/o riferimento alcuno al certificato di prevenzione incendio e che, dunque, l’inesistenza di tale certificato non avrebbe potuto essere ritenuto idonea ad incidere sulla permanenza o meno dello scoperto. Tale idoneità non avrebbe potuto essere ritenuta nemmeno sulla base del criterio di esegesi previsto dall’art. 1362 c.c. con riguardo al comportamento successivo alla stipulazione della polizza ed in particolare all’attestazione da parte di un broker, quale intermediario del rapporto assicurativo, che l’impianto era stato installato senza che si fosse richiesto il certificato.

Si imputa, dunque, che la sentenza impugnata, con erronea sussunzione e falsa applicazione dell’art. 1362 c.c., avrebbe considerato “presupposto per l’applicazione dello scoperto del 20% la mancanza di certificato di prevenzione incendi, che, in realtà, non risulta nè è desumibile da alcuna parte e/o interpretazione della volontà negoziale delle parti.”.

1.2. La censura è priva di fondamento.

Lo è in primo luogo perchè non presenta il contenuto che avrebbe dovuto avere per giustificare che la Corte territoriale, nello scrutinare la doglianza relativa all’applicazione dello scoperto si dovesse porre e dovesse risolvere ed abbia dunque risolto un problema di interpretazione della relativa clausola.

Invero, la prospettazione, là dove dice “che anche in appello il Consorzio precisava che la clausola contrattuale faceva riferimento soltanto all’installazione dei rilevatori di fumo e quindi ad un’attività materiale, etc.”, omette di riferire se tale precisazione fosse stata determinata da un’esegesi opposta del primo giudice, della quale si fosse discusso davanti ad esso, e, quindi, non enuncia in alcun modo che la Corte territoriale fosse stata sollecitata invece ad una diversa esegesi.

La prospettazione appare ancora più carente in tal senso perchè nulla dice sul tenore della decisione di primo grado in ordine all’esegesi della clausola ed al se essa fosse stata compiuta nel senso non condiviso.

Nell’esposizione del fatto alla pag. 5 del ricorso, nel riassumere la decisione di primo grado, si dice genericamente che lo scoperto era stato ritenuto applicabile dal Tribunale “per la mancata realizzazione dell’impianto rilevazione fumi” ed a pagina 6, nel riferire il contenuto dell’appello, si imputa come errore proprio questo.

Si aggiunga che nemmeno la stessa enunciazione riassuntiva del contenuto dell’appello riportata sopra contiene precisazioni al riguardo ed evoca la prospettazione di una questione esegetica alla Corte territoriale.

Nella descritta situazione, prima ancora di leggere (a motivazione impugnata, il motivo appare carente degli elementi che avrebbero potuto giustificare la doglianza che enuncia l’intestazione del motivo in punto di esegesi della norma dell’art. 1362 c.c.: non essendosi detto nulla sul se di un’esegesi della clausola nei termini supposti dal ricorrente si era discusso in primo grado e se vi era stata una decisione del primo giudice, e non essendosi nemmeno enunciato un contenuto dell’appello idoneo ad evidenziarla, la parte iniziale dell’illustrazione del motivo in esame appare già essa stessa del tutto inidonea a supportare la programmata denuncia di violazione della citata norma.

1.3. La lettura della motivazione della sentenza impugnata evidenzia, poi, che, in realtà, la Corte territoriale non solo non ha dichiarato di dover procedere ad un’esegesi della clausola, ma nemmeno ed in concreto vi ha proceduto.

Si rileva, infatti, che la Corte territoriale dice espressamente che “l’appellante assume che detti rilevatori erano stati regolarmente installati ed erano funzionanti”.

Questo significa che si è posta ad esaminare un appello che di questo la investiva e non di una questione esegetica.

Inoltre, quando la Corte soggiunge che “la doglianza non merita apprezzamento, mentre deve condividersi integralmente la motivazione del primo giudice, fondata, etc.”, giudica in modo conseguente e disattende quella doglianza. L’evocazione del certificato di prevenzione incendi è fatta in solo in funzione di ciò e, quindi, ai fini di valutare se era fondata una contestazione che riguardava l’essere stati installati i rilevatori e l’essere stati essi funzionanti.

Si deve, inoltre, rilevare che la motivazione, con la nota 3 (in calce alla pagina 7), dice della relazione M. che in essa si leggeva quanto segue: “Realizzazione parziale dell’impianto di rivelazione incendi. Nel progetto approvato e già richiamato, era stato prevista la realizzazione nei magazzini di deposito del formaggio, di un impianto di rilevazione fumi costituito da due barriere di rilevazione di tipo ottico, posizionate in sommità, al centro delle zone occupate dalla rastrelliera di deposito. Nella realtà è stata realizzata solo una delle due barriere, a raggi infrarossi per la rivelazione a riflessione, con avvisatori di allarme, al centro dei corridoi centrali, determinando mediamente un certo ritardo nella rilevazione dell’incendio” anche tale fatto ha determinato una attivazione dei soccorsi meno precoce, con una maggiore progressione dell’incendio, a causa del raggiungimento di temperature più elevate e per la maggiore quantità di prodotti della combustione nocivi ed inquinanti, sprigionati prima dell’inizio delle operazioni di spegnimento.”.

Anche il contenuto della nota evidenzia che la Corte territoriale si è preoccupata di rilievi della qui ricorrente che involgevano l’installazione ed il funzionamento dell’impianto ed in funzione di essi ha evocato la mancanza del certificato.

E’ poi appena il caso di sottolineare che un’esegesi secondo il criterio di cui all’art. 1366 c.c. – sempre che si fosse posta la relativa questione esegetica – non avrebbe certo consentito di ritenere che bastasse una realizzazione dell’impianto non funzionale allo scopo.

Le censure in iure sono, dunque, prive di fondamento.

1.4. La censura di omesso esame di fatti e documenti decisivi, che è svolta nella residua parte del motivo e dopo la quale si allude alla violazione dell’art. 1370 c.c. è articolata in modo del tutto difforme dall’esegesi dell’art. 360, n. 5 nuovo testo offerta dalle Sezioni Unite nelle sentenze n. 8053 e 8054 del 2014, atteso che si risolve nell’imputare alla Corte territoriale di avere mal valutato risultanze probatorie.

In proposito si ricorda che le Sezioni Unite hanno così statuito: “La riformulazione dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, disposta dal D.L. 22 giugno 2012, n. 83, art. 54, conv. in L. 7 agosto 2012, n. 134, deve essere interpretata, alla luce dei canoni ermeneutici dettati dall’art. 12 preleggi, come riduzione al “minimo costituzionale” del sindacato di legittimità sulla motivazione. Pertanto, è denunciabile in cassazione solo l’anomalia motivazionale che si tramuta in violazione di legge costituzionalmente rilevante, in quanto attinente all’esistenza della motivazione in sè, purchè il vizio risulti dal testo della sentenza impugnata, a prescindere dal confronto con le risultanze processuali. Tale anomalia si esaurisce nella “mancanza assoluta di motivi sotto l’aspetto materiale e grafico”, nella “motivazione apparente”, nel “contrasto irriducibile tra affermazioni inconciliabili” e nella “motivazione perplessa ed obiettivamente incomprensibile”, esclusa qualunque rilevanza del semplice difetto di “sufficienza” della motivazione. L’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, riformulato dal D.L. 22 giugno 2012, n. 83, art. 54, conv. in L. 7 agosto 2012, n. 134, introduce nell’ordinamento un vizio specifico denunciabile per cassazione, relativo all’omesso esame di un fatto storico, principale o secondario, la cui esistenza risulti dal testo della sentenza o dagli atti processuali, che abbia costituito oggetto di discussione tra le parti e abbia carattere decisivo (vale a dire che, se esaminato, avrebbe determinato un esito diverso della controversia). Ne consegue che, nel rigoroso rispetto delle previsioni dell’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 6, e art. 369 c.p.c., comma 2, n. 4, il ricorrente deve indicare il “fatto storico”, il cui esame sia stato omesso, il “dato”, testuale o extratestuale, da cui esso risulti esistente, il “come” e il “quando” tale fatto sia stato oggetto di discussione processuale tra le parti e la sua “decisività”, fermo restando che l’omesso esame di elementi istruttori non integra, di per sè, il vizio di omesso esame di un fatto decisivo qualora il fatto storico, rilevante in causa, sia stato comunque preso in considerazione dal giudice, ancorchè la sentenza non abbia dato conto di tutte le risultanze probatorie.”.

Nel solco di dette decisioni Cass. Sez. Un., 22 settembre 2014, n. 19881, ha ulteriormente rilevato che da un lato, il sindacato sulla motivazione è ormai ristretto ai casi di inesistenza della motivazione in sè, cioè alla “mancanza assoluta di motivi sotto l’aspetto materiale e grafico”, alla “motivazione apparente”, al “contrasto irriducibile fra affermazioni inconciliabili”, alla “motivazione perplessa ed obiettivamente incomprensibile”; dall’altro lato, il controllo previsto dal nuovo n. 5 dell’art. 360 c.p.c., concerne l’omesso esame di un fatto storico, principale o secondario, la cui esistenza risulti dal testo della sentenza (rilevanza del dato testuale) o dagli atti processuali (rilevanza anche del dato extratestuale), che abbia costituito oggetto di discussione e abbia carattere decisivo (cioè che, se esaminato, avrebbe determinato un esito diverso della controversia): l’omesso esame di elementi istruttori, in quanto tale, non integra l’omesso esame circa un fatto decisivo previsto dalla norma, quando il fatto storico rappresentato sia stato comunque preso in considerazione dal giudice, ancorchè questi non abbia dato conto di tutte le risultanze probatorie astrattamente rilevanti.”.

A maggior ragione dopo una tale novella legislativa resta fermo il principio, già del tutto consolidato (per tutte: Cass. 27 ottobre 2015, n. 21776; Cass. Sez. Un., 12 ottobre 2015, n, 20412; Cass. 16 dicembre 2011, n. 27197; Cass. 18 marzo 2011, n. 6288; Cass. 26 marzo 2010, n. 7394; Cass. 23 dicembre 2009, n. 27162; Cass. sez. un” 21 dicembre 2009, n. 26825; Cass. 6 marzo 2008, n. 6064; Cass. 9 agosto 2007, n. 17477; Cass. 18 maggio 2006, n. 11670; Cass. 17 novembre 2005, n. 23286) dell’esclusione del potere di questa Corte di legittimità di riesaminare il merito della causa, essendo ad essa consentito, di converso, il solo controllo – sotto il profilo logico-formale e della conformità a diritto – delle valutazioni compiute dal giudice d’appello, al quale soltanto spetta l’individuazione delle fonti del proprio convincimento valutando le prove (e la relativa significazione), controllandone la logica attendibilità e la giuridica concludenza, scegliendo, fra esse, quelle funzionali alla dimostrazione dei fatti in discussione (salvo i casi di prove cd. legali, tassativamente previste dal sottosistema ordinamentale civile): sicchè sarebbe inammissibile (perchè in contrasto con gli stessi limiti morfologici e funzionali del giudizio di legittimità) una nuova valutazione di risultanze di fatto (ormai cristallizzate quoad effectum) sì come emerse nel corso dei precedenti gradi del procedimento, non potendo darsi corso ad una surrettizia trasformazione del giudizio di legittimità in un nuovo, non consentito, terzo grado di merito, nel quale ridiscutere analiticamente tanto il contenuto, ormai cristallizzato, di fatti storici e vicende processuali, quanto l’attendibilità maggiore o minore di quella ricostruzione procedimentale, quanto ancora le opzioni espresse dal giudice di appello – non condivise e per ciò solo censurate al fine di ottenerne la sostituzione con altre più consone ai propri desiderata -, quasi che nuove istanze di fungibilità nella ricostruzione dei fatti di causa fossero ancora legittimamente proponibili dinanzi al giudice di legittimità.

1.5. Si deva, inoltre, precisare che del tutto prive di fondamento al livello di allegazione sono le dedotte violazioni degli artt. 115 e 116 c.p.c..

Infatti:

a) per dedurre la violazione del paradigma dell’art. 115 è necessario denunciare che il giudice non abbia posto a fondamento della decisione le prove dedotte dalle parti, cioè abbia giudicato in contraddizione con la prescrizione della norma, il che significa che per realizzare la violazione deve avere giudicato o contraddicendo espressamente la regola di cui alla norma, cioè dichiarando di non doverla osservare, o contraddicendola implicitamente, cioè giudicando sulla base di prove non introdotte dalle parti e disposte invece di sua iniziativa al di fuori dei casi in cui gli sia riconosciuto un potere officioso di disposizione del mezzo probatorio (fermo restando il dovere di considerare i fatti non contestati e la possibilità di ricorrere al notorio, previsti dallo stesso art. 115 c.p.c.), mentre detta violazione non si può ravvisare nella mera circostanza che il giudice abbia valutato le prove proposte dalle parti attribuendo maggior forza di convincimento ad alcune piuttosto che ad altre, essendo tale attività consentita dal paradigma dell’art. 116 c.p.c., che non a caso è rubricato alla “valutazione delle prove”; dovendosi ricordare, altresì, che: “Se spetta indubbiamente alle parti proporre i mezzi di prova che esse ritengono più idonei ed utili, e se il giudice non può fondare la propria decisione che sulle prove dalle parti stesse proposte (e su quelle eventualmente ammissibili d’ufficio), rientra pero nei compiti propri del giudice stesso stabilire quale dei mezzi offerti sia, nel caso concreto, più funzionalmente pertinente allo scopo di concludere l’indagine sollecitata dalle parti, ed è perciò suo potere, senza che si determini alcuna violazione del principio della disponibilità delle prove, portato dall’art. 115 cod. proc. civ., ammettere esclusivamente le prove che ritenga, motivatamente, rilevanti ed influenti al fine del giudizio richiestogli e negare (o rifiutarne l’assunzione se già ammesse: v. art. 209 cod. proc. civ.) le altre (fatta eccezione per il giuramento) che reputi del tutto superflue e defatigatorie. ” (Cass. n. 2141 del 1970);

b) per dedurre la violazione del paradigma dell’art. 116 c.p.c. è necessario considerare che, “poichè l’art. 116 cod. proc. civ. prescrive come regola di valutazione delle prove quella secondo cui il giudice deve valutarle secondo prudente apprezzamento, a meno che la legge non disponga altrimenti, la sua violazione e, quindi, la deduzione in sede di ricorso per cassazione ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 4, è concepibile solo: a) se il giudice di merito valuta una determinata prova ed in genere una risultanza probatoria, per la quale l’ordinamento non prevede uno specifico criterio di valutazione diverso dal suo prudente apprezzamento, pretendendo di attribuirle un altro e diverso valore ovvero il valore che il legislatore attribuisce ad una diversa risultanza probatoria (come, ad esempio, valore di prova legale); b) se il giudice di merito dichiara di valutare secondo prudente apprezzamento una prova o risultanza soggetta ad altra regola, così falsamente applicando e, quindi, violando la norma in discorso (oltre che quelle che presiedono alla valutazione secondo diverso criterio della prova di cui trattasi)” (Cass. n. 26965 del 2007; in senso conforme: Cass. n. 20119 del 2009; n. 13960 del 2014).

La giurisprudenza appena citata sull’esegesi dell’art. 116 c.p.c., prima dell’entrata in vigore del nuovo n. 5 dell’art. 360 c.p.c., aggiungeva che “la circostanza che il giudice, invece, abbia male esercitato il prudente apprezzamento della prova è censurabile solo ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 5”.

Ma è palese che, vigente il nuovo art. 360 c.p.c., n. 5 questo non è più possibile.

2. Con un secondo motivo il ricorso principale denuncia “violazione e/o falsa applicazione degli artt. 1218, 1220, 1224 e 1219 c.c., anche con riferimento agli artt. 1882, 1905, 1908 e 1176 c.c. e art. 115 e 116 c.p.c., per violazione, falsa, errata e/o omessa applicazione dei disposti dei predetti articoli al caso deciso e per omesso esame di fatti decisivi (ai sensi dell’art. 360 c.p.c., nn. 3, 4 e 5).”.

Il motivo prospetta due censure.

2.1. Con la prima si critica la sentenza impugnata quanto alla decisione resa sul motivo di appello con cui la ricorrente aveva censurato l’omessa pronuncia del primo giudice in ordine al maggior danno ai sensi dell’art. 1224 c.c. derivato dal ritardo colpevole delle compagnie assicuratrici nel pagamento del dovuto. Si sostiene che erroneamente la Corte territoriale avrebbe rigettato la doglianza dando rilievo all’inesigibilità del credito prima delle dichiarazioni di assenso delle banche vincolatarie dell’indennizzo e, quindi, all’incolpevolezza del ritardo.

La censura è inammissibile per inosservanza dell’art. 366 c.p.c., n. 6, atteso che – come emerge dalle pagine 34-35 del ricorso – si fonda sul contenuto delle clausole contrattuali relative alle modalità di operatività dei c.d. vincoli, ma non riproduce direttamente il contenuto di tali clausole e nemmeno lo riproduce indirettamente indicando la parte del documento cui l’indiretta riproduzione corrisponderebbe. L’allegazione si risolve in un rinvio del tutto generico al contenuto delle clausole e, quindi, in una delega a questa Corte a desumerne ciò che dovrebbe sorreggere la censura.

Si aggiunga che, prima di evocare genericamente le clausole, si dice sempre genericamente “che la questione vincoli non è invocabile dal debitore moroso per ritardare il pagamento del dovuto, posto che il debitore si per liberarsi dalla mora è tenuto a pagare e/o comunque a mettere a disposizione del creditore la prestazione dovuta” poichè “la questione vincoli riguarda il creditore e non il debitore, della quale….non può certamente giovarsi il debitore per sottrarsi o ritardare l’adempimento dovuto”: tale argomentazione appare del tutto assertoria e, quindi, non ha la forza nemmeno astratta di un argomento in iure.

Di seguito si dice ancora che “tantomeno l’assicuratore/debitore può lucrare a proprio vantaggio il decorso del tempo utilizzato dai periti per la liquidazione di un obbligo di indennizzo già sorto dal momento del sinistro”: si tratta di affermazione della quale non è spiegato come e perchè la liquidazione fosse divenuta rilevante ai fini della questione nel corso del giudizio di merito.

Si rileva ancora che dalla pagina 35 si svolgono argomentazioni relative ad emergenze fattuali relative alla vicenda ed al contenuto della polizza, nonchè a comportamenti, senza fornirne l’indicazione specifica prescritta dall’art. 366, n. 6 sia sui contenuti evocati sia sul se e dove quanto si evoca sarebbe esaminabili, tant’è che a pagina 40 si dice conclusivamente del tutto genericamente che “i fatti sopra ricordati, come si è già visto, sono agli atti di causa”, salvo aggiungere in modo generico che essi sarebbero “stati oggetto di espressa deduzione a parte del Consorzio, come si può leggere anche al punto 4) dell’atto di appello, ma dalla Corte del merito ogni disamina e apprezzamento sulla loro rilevanza, ai fini della pronuncia sulla mora (colpevole), è stata totalmente omessa, mentre sono state erroneamente applicate le regole di diritto sopra illustrate”.

L’inosservanza dell’art. 366 c.p.c., n. 6 rende inammissibile la censura.

2.2. Con una seconda subordinata censura si sostiene che, pur nella logica seguita la Corte territoriale avrebbe dovuto considerare che il ritardo si doveva ritenere colpevole almeno dal luglio del 2011, giacchè lo svincolo della Banca UniCredit era intervenuto il 13 giugno 2011 e quello della Banca mediocredito il 12 luglio 2011.

La censura è inammissibile.

Essa è fondata sull’allegazione che con l’atto di appello il Consorzio aveva prodotto le lettere di svincolo ma omette di dire se e come sulla base di tali produzioni la Corte di merito era stata sollecitata con l’atto di appello ad accogliere la subordinata prospettazione e, dunque, come hanno sostenuto le resistenti, si connota come censura basata su questione nuova, dato che la Corte non se n’è occupata. Si rileva al riguardo che a pagina 41 si dice del tutto genericamente che la rilevanza dei due documenti era stata dedotta ed invocata con l’atto di appello, ma si omette sia di riprodurre il relativo convenuto sia di indicarlo riassuntivamente con precisazione della parte dell’atto di appello in cui era avvenuta la deduzione.

Nè, una volta indimostrato che sui due documenti l’appello avesse svolto argomentazioni, è stato adombrato che quella Corte avrebbe potuto e dovuto comunque valorizzare d’ufficio le risultanze delle due comunicazioni, che essa mostra di avere conosciuto dato che le ha ritenute ammissibili, e ciò al di là di una richiesta in tal senso con l’appello.

Nemmeno si sollecita questa Corte all’esercizio dello stesso potere di ufficio, che, comunque, supponendo sia l’esame delle due comunicazioni (riguardo alle quali non si è fornita l’indicazione specifica ai sensi dell’art. 366 c.p.c., n. 6 al fin di poterle esaminare), sia apprezzamenti di fatto conseguenti, non potrebbe neppure esercitarsi.

3. Con il primo motivo di ricorso incidentale si denuncia “violazione e/o falsa applicazione degli artt. 115, 116 e 132 c.p.c.e omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione fra le parti (in relazione all’art. 360 c.p.c., nn. 4 e 5); violazione e/o falsa applicazione degli artt. 1892 e 1898 c.c. (in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3).”.

Il motivo si duole del rigetto dell’appello incidentale delle resistenti avverso la statuizione del Tribunale che “sulla base di una solo superficiale lettura dei documenti di causa, si era limitato ad affermare che, prima della stipulazione del contratto di assicurazione, le società coassicuratrici avevano attentamente verificato il rischio, come risultava dal “Survey report” agli atti, ed erano quindi pienamente edotte sia della mancanza del certificato di prevenzione incendi sia delle altre circostanza sopra enunciate.”.

3.1. Ancorchè non la si individui specificamente, si comprende che la parte di motivazione che si vorrebbe criticare con il motivo è quella con cui essa, nel paragrafo Va), ha esaminato la doglianza verso la sentenza di primo grado, prospettata nel senso che essa non aveva valutato pretese dichiarazioni false reticenti dell’assicurato ai sensi dell’art. 1892 c.c. e la sussistenza di un’ipotesi di aggravamento del rischio agli effetti dell’art. 1898 c.c..

La struttura del motivo, peraltro, si articola – senza, peraltro, che si dia specifico conto del tenore dell’appello sul punto – con la sollecitazione a questa Corte di riesaminare la motivazione resa in parte qua dalla Corte territoriale sulla base di una serie di circostanze e di documenti che si dicono allegati e prodotti fin dalla comparsa di costituzione di primo grado e si sostiene non esaminate da quella Corte come dal primo giudice.

La struttura del motivo giustifica i seguenti rilievi:

a) per quanto attiene alla dedotta violazione delle norme del procedimento di cui agli artt. 115 e 116 c.p.c. si presenta del tutto inidonea ad evidenziarla alla luce delle considerazioni che riguardo al modo di dedurla si sono svolte esaminando il ricorso principale;

b) per quanto afferisce alla dedotta violazione degli artt. 1892 e 1898 c.c. omette sia di indicare ed argomentare un vizio di violazione di esse, sia di enunciare un vizio di falsa applicazione e sussunzione della fattispecie concreta, dato che la prospettazione della loro violazione è affidata esclusivamente al ragionamento fatto sulla valutazione delle circostanze e dei documenti;

c) ne segue che, pur evocando anche l’omesso esame circa un fatto decisivo, il motivo sollecita in realtà un controllo della motivazione con cui la Corte ha ricostruito ed apprezzato le emergenze probatorie e, quindi, si colloca nella sostanza del tutto al di fuori del paradigma del nuovo n. 5 dell’art. 360 c.p.c., per come ricostruito dalla giurisprudenza evocata a proposito del ricorso principale, non senza che debba aggiungersi che nel motivo l’ordito motivazionale della Corte di merito, che si estende per tutte la pagina 12 e per le prime cinque della pagina 13, dove si richiama in nota una parte della motivazione della sentenza di primo grado non è nemmeno puntualmente criticato, dato che si estrapolano da esso solo brevissime enunciazioni (vedi pag. 33 del ricorso).

Il motivo, dunque, non può trovare accoglimento.

4. Con il secondo motivo di ricorso incidentale si denuncia “violazione e/o falsa applicazione degli artt. 1914 e 1915 c.c.(in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3) nonchè degli artt. 115, 116 e 132 c.p.c. (in relazione all’art. 360 c.p.c., nn. 4 e 5); omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione fra le parti (in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 5).”.

Il motivo si riferisce all’appello incidentale delle resistenti con cui, si dice, esse avevano impugnato la sentenza di primo grado “perchè il tribunale aveva del tutto omesso di pronunciarsi sull’eccezione fondata sulla violazione, da parte dell’assicurata, degli obblighi di salvataggio imposti dall’art. 1914 cod. civ.”.

Dopo tale enunciazione si dà conto di quanto “al riguardo le appellanti incidentali avevano ribadito” e si fa riferimento ad una serie di emergenze probatorie in atti dalla pagina 38 alle prime tre righe della pagina 41.

Si evoca, poi, la motivazione della sentenza impugnata nella parte in cui ha affermato che la norma dell’art. 1914 riguarderebbe “situazioni successive al fatto e non, come prospettato dalle appellate, circostanze di fatto che avrebbero potuto avere rilevanza al momento dell’assunzione del rischio”.

Tale motivazione, che ha espressamente richiamato Cass. n. 11877 del 1991 e n. 83 del 2004 viene criticata adducendo “per inciso che il richiamo della Corte di merito” alla prima sentenza “non sembra pertinente” e, quindi, sostenendo: aa) che sarebbe necessario distinguere “le circostanze di fatto esistenti prima del verificarsi del sinistro rilevanti in relazione alla probabilità del verificarsi di questo (anche sotto il profilo della gravità delle sue conseguenze) da quelle che si riflettono anche (o addirittura soltanto) sull’effettiva possibilità per l’assicurato, volta che abbia avuto inizio l’azione generatrice del danno, di adempiere all’obbligo di salvataggio impostogli dalla legge.”; bb) e, quindi, soggiungendo che, mentre non sarebbe dubbio che le prime restano confinate nell’àmbito delle norme degli artt. 1892, 1893 e 1898, c.c., viceversa, “la condotta dell’assicurato che, anche prima del sinistro, si ponga volontariamente nelle condizioni di non potersi comunque attivare, dopo l’inizio del suo verificarsi, per evitare o comunque diminuire il danno, non può no rilevare ai fini del giudizio circa l’adempimento dell’obbligo posto a suo carico dall’art. 1914 c.c.”.

4.1. La censura è priva di fondamento alla luce dell’esegesi dell’art. 1914 c.c. consolidata nella giurisprudenza di questa Corte.

In primo luogo merita ricordare il principio di diritto di cui a Cass. n. 11877 del 1991, ce è in questo senso: “L’art. 1914 cod. civ., il quale, in tema di assicurazione contro i danni, fa carico all’assicurato, a partire dal momento del verificarsi del sinistro ovvero dell’inizio dell’azione che lo generi, di attivarsi per evitare o diminuire il danno (obbligo di salvataggio), con diritto di rivalersi nei confronti dell’assicuratore delle spese a tale scopo affrontate (diritto autonomo ed indipendente dal credito indennitario), trova applicazione, in difetto di espressa deroga ed alla luce della sua “ratio” (tutela di un interesse comune ai due contraenti), anche nell’assicurazione della responsabilità civile, la quale rientra nell’ambito dell’assicurazione contro i danni, ferma però restando, in questa ipotesi, la necessità di utilizzare, come base di riferimento per il “quantum” di detta rivalsa, il parametro della somma assicurata (così adeguando il diverso criterio che la norma contempla con riferimento al solo caso dell’assicurazione contro i danni alle cose).”. Il principio di diritto contiene la chiara affermazione che il c.d. obbligo di salvataggio, di cui alla fattispecie dell’art. 1914, in tema di assicurazione contro i danni, fa carico all’assicurato, a partire dal momento del verificarsi del sinistro ovvero dell’inizio dell’azione che lo generi, di attivarsi per evitare o diminuire il danno. Tale affermazione è del tutto consona al chiaro tenore dell’art. 1914 c.c., il quale, là dove dice che “l’assicurato deve fare quanto gli è possibile per evitare o diminuire il danno”, quando allude all’obbligo di evitare sottende un’azione positiva dell’assicurato che si deve concretare in un’azione od omissione la quale collocandosi utilmente nella fattispecie potenzialmente causativa del danno quando già essa risulti attivata valga ad evitarlo, cioè ad impedirlo (per riferimenti Cass. n 29209 del 2008, che parla di momento iniziale dell’azione generatrice del danno, nonchè Cass. n. 13958 del 2007, che parla di inizio dell’azione generatrice del danno). Quando allude all’obbligo di diminuire il danno la norma fa riferimento ad un comportamento, positivo od omissivo, che si inserisce nella serie causale quando essa ha già determinato il danno e vi si inserisce appunto nel senso di impedirne la crescita fino a quello che potenzialmente potrebbe verificarsi. La prospettazione delle ricorrenti incidentali, quando allude alla riconducibilità all’art. 1914 c.c. di un comportamento verificatosi prima della nascita del processo causale di verificazione dell’evento dannoso e suscettibile di non consentire all’assicurato di adempiere all’obbligo di salvataggio e vorrebbe considerarlo come inadempimento dell’obbligo di salvataggio, assegna a tale obbligo un contenuto del tutto incompatibile con il paradigma normativo, il quale con riferimento all’ipotesi di impedimento dell’evento dannoso colloca l’obbligo come insorgente quando il processo di verificazione che può determinare il danno è insorto. Inoltre, se il comportamento dell’assicurato, che oggettivamente lo pone nella condizione di non poter intervenire quando il processo di verificazione del danno si è innescato, è comportamento verificatosi già al momento della stipulazione del contratto, è palese che deve rifluire eventualmente sotto la norma dell’art. 1893 c.c., per l’assorbente ragione che è un fatto che, se conosciuto avrebbe inciso sulla decisione dell’assicuratore di vincolarsi, mentre, se l’assicuratore ne è stato a conoscenza risulta irrilevante anche ai sensi di quella norma. Viceversa, se il comportamento si verifica durante la vigenza del contratto è palese che deve rilevare ai sensi dell’art. 1898 c.c.. Il motivo è, dunque, privo di fondamento alla luce del seguente principio di diritto: “In tema di c.d. obbligo di salvataggio, il tenore dell’art. 1914 c.c., là dove dice che “l’assicurato deve fare quanto gli è possibile per evitare o diminuire il danno”, quando allude all’obbligo di evitare sottende un’azione positiva dell’assicurato che si deve concretare in un’azione od omissione la quale collocandosi utilmente nella fattispecie potenzialmente causativa del danno quando già essa risulti attivata valga ad evitarlo, cioè ad impedirlo, mentre, quando allude all’obbligo di diminuire il danno, fa riferimento ad un comportamento, positivo od omissivo, che si inserisce nella serie causale quando essa ha già determinato il danno e vi si inserisce nella serie causale che ha già determinato il danno in modo da impedirne la crescita ulteriore. Ne segue che non è riconducibile all’ipotesi dell’art. 1914 c.c. un eventuale comportamento assunto dall’assicurato in sede di stipulazione del contratto, ancorchè si sostenga che esso ha poi impedito il salvataggio, potendo, invece esso rilevare o ai sensi dell’art. 1893 c.c. o ai sensi dell’art. 1898 c.c.”. Tanto si osserva non senza che debba rilevarsi che la verifica in concreto dell’ipotetico principio di diritto invece evocato dalle resistenti avrebbe richiesto la verifica delle circostanze da essi evocate all’inizio dell’illustrazione del motivo. 4.2. Nelle pagine 42-45 si svolte, poi, un’ulteriore censura che è riferita alla motivazione con cui la Corte d’Appello ha respinto l’ulteriore profilo dell’appello incidentale con cui le resistenti avevano lamentato la violazione degli obblighi dell’art. 1914 c.c. oltre che dell’obbligo contrattuale di conservare il residuo del sinistro ai sensi dell’art. 13, lett. e) delle condizioni generali di assicurazioni, per avere esitato a prezzo vile, subito dopo l’incendio, le forme di formaggio rimaste solo parzialmente danneggiate nonostante le esplicite diffide fatte dalle coassicuratrici. La motivazione criticata è in questo senso: “Va poi rilevato che la fase successiva relativa alla vendita della merce recuperata, come sopra detto, è stata sempre monitorata dagli organi competenti, e valutata dal collegio peritale, sicchè le censure sul punto delle appellate non sono meritevoli di apprezzamento”. Si tratterebbe di motivazione che violerebbe gli artt. 115, 116 e 132 c.p.c. e “inficiata dall’omessa valutazione dei fatti di causa, pacifici e risultanti dai documenti prodotti, decisivi per la decisione della causa (art. 360 c.p.c., n. 5).”. Ebbene, il tenore preciso dell’appello e, dunque, le “censure” su cui la motivazione è stata espressa, peraltro, non vengono individuati nè tramite diretta riproduzione della parte del relativo atto, nè tramite un’indiretta riproduzione con indicazione della parte cui essa si riferirebbe. Si fa invece riferimento al fatto che “le società assicuratrici avevano dedotto” una serie di argomenti, ma si evoca due capitoli di prova della memoria ai sensi dell’art. 183, n. 2 e le risultanza di documenti prodotti. La censura è inammissibile sotto tutti i profili in cui è prospettata. Lo è, in primo luogo, perchè non si può criticare in Cassazione la motivazione della sentenza impugnata senza individuare precisamente su che cosa essa era chiamata ad esprimersi, cioè su quale fosse il tenore del relativo atto di appello. La censura è ulteriormente inammissibile, perchè non argomenta la violazione dell’art. 132 c.p.c., n. 4. Quanto alla violazione degli artt. 115 e 116 c.p.c. lo è alla stregua delle considerazioni già fatte in precedenza in sede di esame del ricorso principale in ordine al modo di deduzione di detta violazione. Quanto in fine alla prospettazione del vizio ai sensi del n. 5 si è nuovamente del tutto al di fuori del contenuto ad esso assegnato dalle Sezioni Unite, prospettandosi solo che non si sarebbero valutati elementi probatori. 5. Con il terzo motivo il ricorso incidentale prospetta “violazione e/o falsa applicazione degli artt. 115, 116 e 132 c.p.c., nonchè delle norme di cui agli artt. 2721 c.c. e segg. e dell’art. 24 Cost.e omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione fra le parti (in relazione all’art. 360 c.p.c., nn. 3, 4 e 5).”. Si censura la sentenza impugnata quanto alla motivazione con cui essa ha disatteso la prospettazione delle resistenti circa la verificazione da parte del Consorzio di un comportamento integrante esagerazione dolosa del danno, fonte di decadenza dal diritto all’indennizzo (per quello che peraltro si apprende solo dalla sentenza, che fa riferimento all’art. 14 delle condizioni generali), in tesi rappresentato dall’avere il Consorzio pochi giorni prima dell’incendio trasportato clandestinamente rilevanti quantità di formaggio dal suo deposito presso un terzo, con la conseguenza che per provare il valore delle merci lo stesso avrebbe sottoposto ai periti scritture in veritiere. Nuovamente la censura è svolta senza individuare nè direttamente nè tramite riproduzione indiretta il tenore del motivo di appello e senza soprattutto preoccuparsi di criticare in modo decisivo la sentenza impugnata, la quale, se è vero che ha detto genericamente che la circostanza non poteva essere provata per testimoni, in ipotesi riferendosi all’istanza probatoria di cui ragiona il motivo di ricorso riproducendone il capitolo, ha aggiunto quanto segue: “tanto più che, per contro, vi è un verbale conclusivo di perizia che determina, in modo vincolante, i quantitativi di merce esistenti e la loro valutazione economica”. In tal modo la prova è stata ritenuta in primo luogo inidonea a superare la determinazione peritale. Riguardo a tale motivazione nella parte finale dell’illustrazione si evocano genericamente le clausole di cui all’art. 19 delle condizioni generali del contratto (dicendo che prevedeva l’obbligatorietà dei risultati della stima dei periti, ma ne ammetteva l’impugnativa per dolo, errore, violenza o violazione dei patti contrattuali) ed all’art. 16 (che prevedeva che le valutazioni dei periti lasciassero “impregiudicata in ogni caso qualsivoglia azione o eccezione inerente all’indennizzabilità del danno”). Ora, a prescindere dal rilievo che – non essendosi riferito il contenuto del motivo di appello – non è dato sapere se i giudici del gravame erano stati sollecitati a valutare l’ammissibilità della prova al lume delle emergenze di dette clausole, cui essi non fanno riferimento, il che giustificherebbe la novità della prospettazione in questa sede e, dunque, l’inammissibilità della censura, si deve rilevare anche ad abundantiam che è palese che la censura, in quanto dedotta ai sensi del n. 5, ancora una volta non risponde al paradigma della norma secondo i contenuti che le hanno assegnato le SS.UU. Peraltro, la sentenza impugnata giustifica la sua decisione anche facendo riferimento ad una dichiarazione rilasciata da Casearia Altopiano di Asiago s.p.a. (presso la quale sarebbero state trasferite le forme) che dice contestata nella sua genuinità del tutto tardivamente dalle resistenti e ad una non meglio individuata “richiesta in data 3.3.2011 doc. 8 appellata”, ma il motivo si disinteressa completamente di tali enunciazioni, sicchè esso non si fa carico della complessiva motivazione che vorrebbe criticare. Il che implica ulteriore ragione di inammissibilità. Le svolte considerazioni sulla struttura del motivo rendono di per sè a questo punto inidonee anche le dedotte violazioni di norme dl procedimento e ciò al di là del modo i cui sono articolate, che esso stesso non dà loro consistenza alcuna. La violazione dell’art. 132 è, infatti, priva di fondamento e nemmeno è spiegata, ma è anche priva di fondamento, atteso che la Corte. Quella degli artt. 115 e 116 è anch’essa priva di fondamento per l’art. 116 c.p.c., atteso che si tratta di prova che qui è stata valutata inammissibile e irrilevante, mentre per l’art. 115 c.p.c. l’esistenza di tale valutazione ne preclude la deduzione. Ciò si osserva a monte dei rilievi che in precedenza si sono svolti sul modo di deduzione della violazione delle due norme. La violazione degli artt. 2721 c.c. e ss. anch’essa non è spiegata. 6. Conclusivamente entrambi i ricorsi sono rigettati. L’esito negativo di entrambi i ricorsi giustifica la compensazione delle spese del giudizio di cassazione. Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1-quater si deve dare atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, sia da parte del ricorrente principale sia da parte delle ricorrenti incidentali, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto rispettivamente per il ricorso principale e per quello incidentale a norma del comma 1-bis del citato art. 13.

PQM

La Corte rigetta entrambi i ricorsi. Compensa le spese del giudizio di cassazione. Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1-quater, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente principale e da parte delle ricorrenti incidentali, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello rispettivamente dovuto per il ricorso principale e per quello incidentale a norma del comma 1-bis del citato art. 13.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Terza Sezione Civile, il 29 gennaiO 2016.

Depositato in Cancelleria il 21 luglio 2016

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