Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 14987 del 07/07/2011

Cassazione civile sez. lav., 07/07/2011, (ud. 26/05/2011, dep. 07/07/2011), n.14987

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. ROSELLI Federico – Presidente –

Dott. IANNIELLO Antonio – Consigliere –

Dott. NOBILE Vittorio – rel. Consigliere –

Dott. BALESTRIERI Federico – Consigliere –

Dott. MELIADO’ Giuseppe – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso proposto da:

POSTE ITALIANE S.P.A., in persona del legale rappresentante pro

tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, LUNGOTEVERE MICHELANGELO

9, presso lo studio dell’avvocato TRIFIRO’ & PARTNERS,

rappresentata

e difesa dall’avvocato CORNA ANNA MARIA, giusta delega in atti;

– ricorrente –

contro

C.L., elettivamente domiciliata in ROMA, PIAZZALE DON

MINZONI 9, presso lo studio dell’avvocato AFELTRA ROBERTO, che la

rappresenta e difende unitamente all’avvocato ZEZZA LUIGI, giusta

delega in atti;

– controricorrente –

e contro

L.S.;

– intimata –

sul ricorso 21575-2007 proposto da:

L.S., elettivamente domiciliata in ROMA, VIA G GENTILE

8, presso lo studio dell’avvocato MARTORIELLO MASSIMO, rappresentata

e difesa dall’avvocato COGO GIOVANNA, giusta delega in atti;

– controricorrente e ricorrente incidentale –

contro

POSTE ITALIANE S.P.A., in persona del legale rappresentante pro

tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, LUNGOTEVERE MICHELANGELO

9, presso lo studio dell’avvocato TRIFIRO’ & PARTNERS,

rappresentata

e difesa dall’avvocato CORNA ANNA MARIA, giusta delega in atti;

– controricorrente al ricorso incidentale –

avverso la sentenza n. 459/2006 della CORTE D’APPELLO di MILANO,

depositata il 21/06/2006 r.g.n. 1551/04 + altre;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

26/05/2011 dal Consigliere Dott. VITTORIO NOBILE;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

DESTRO Carlo che ha concluso per: a nuovo ruolo, in subordine

inammissibilità, assorbito l’incidentale.

Fatto

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

Con sentenza depositata 21-6-2006 la Corte d’Appello di Milano ha, tra l’altro, confermato le sentenze del Giudice del lavoro del Tribunale di Milano con le quali erano state accolte le domande proposte da C.L. e L.S. dirette ad ottenere la declaratoria di nullità del termine apposto ai contratti di lavoro conclusi, per “esigenze eccezionali..” ex art. 8 c.c.n.l.

1994 e acc. az. 25-9-97, con conseguente sussistenza del rapporto a tempo indeterminato e con condanna della società al pagamento delle retribuzioni maturate dalla data di costituzione in mora oltre accessori. In particolare la Corte territoriale ha rilevato che le assunzioni in esame, “successive al termine” (30-4-1998) fissato dalle parti collettive con gli accordi attuativi in materia erano avvenute “in assenza delle condizioni che consentivano la stipulazione con la causale in esame”.

Per la cassazione di tale sentenza la società ha proposto ricorso con dieci motivi, corredati dai relativi quesiti ex art. 366 bis c.p.c., che va applicato nella fattispecie ratione temporis.

La C. ha resistito con controricorso.

La L. ha anch’essa resistito con controricorso ed ha altresì proposto ricorso incidentale sul capo delle spese con un unico motivo.

La società, a sua volta, ha resistito con controricorso al ricorso incidentale della L..

Infine la società e la C. hanno depositato memoria ex art. 378 c.p.c..

Diritto

MOTIVI DELLA DECISIONE

Preliminarmente vanno riuniti i ricorsi avverso la stessa sentenza ex art. 335 c.p.c..

Con il primo motivo del ricorso principale la società ricorrente, denunciando violazione dell’art. 1372 c.c., comma 2, lamenta che la Corte territoriale avrebbe erroneamente disatteso l’eccezione di risoluzione del rapporto per mutuo consenso, nonostante il comportamento inerte delle parti avesse durata e modalità tali da evidenziare il completo disinteresse delle stesse al ripristino del rapporto.

Con il secondo motivo la società denuncia sul punto vizio di motivazione assumendo che con le memorie di costituzione in primo grado era stato dedotto che le lavoratrici “avevano accettato serenamente l’interruzione del rapporto di lavoro con le Poste Italiane s.p.a. alla scadenza del termine, e magari avevano anche iniziato una diversa attività lavorativa presso altri datori di lavoro “, senza che tale allegazione fosse stata contestata ex adverso e lamenta che la sentenza impugnata non avrebbe valutato tale risultanza, richiedendo contraddittoriamente la prova di ulteriori circostanze rilevanti rispetto alla inerzia.

Con il terzo motivo la società, denunciando violazione dell’art. 112 c.p.c., lamenta che erroneamente la Corte territoriale la respinto la eccezione in esame richiamando semplicemente il decisum di una sentenza resa inter alios dal Tribunale di Milano.

I detti primi tre motivi, strettamente connessi, non meritano accoglimento.

Come questa Corte ha più volte affermato “nel giudizio instaurato ai fini del riconoscimento della sussistenza di un unico rapporto di lavoro a tempo indeterminato, sul presupposto dell’illegittima apposizione al contratto di un termine finale ormai scaduto, affinchè possa configurarsi una risoluzione del rapporto per mutuo consenso, è necessario che sia accertata – sulla base del lasso di tempo trascorso dopo la conclusione dell’ultimo contratto a termine, nonchè del comportamento tenuto dalle parti e di eventuali circostanze significative una chiara e certa comune volontà delle parti medesime di porre definitivamente fine ad ogni rapporto lavorativo; la valutazione del significato e della portata del complesso di tali elementi di fatto compete al giudice di merito, le cui conclusioni non sono censurabili in sede di legittimità se non sussistono vizi logici o errori di diritto” (v. Cass. 10-11-2008 n. 26935, Cass. 28-9-2007 n. 20390, Cass. 17-12-2004 n. 23554, Cass. 11- 12-2001 n. 15621. nonchè da ultimo Cass. 11-3-2011 n. 5887).

Tale principio va enunciato anche in questa sede, rilevandosi, inoltre che, come pure è stato precisato, “grava sul datore di lavoro, che eccepisca la risoluzione per mutuo consenso, l’onere di provare le circostanze dalle quali possa ricavarsi la volontà chiara e certa delle parti di volere porre definitivamente fine ad ogni rapporto di lavoro” (v. Cass. 2-12-2002 n. 17070).

Orbene sul punto la Corte di merito, dopo aver osservato che la risoluzione per mutuo consenso tacito “può solo conseguire alla prova della consapevolezza da parte del lavoratore della illegittimità dell’apposizione del termine e della conseguente prosecuzione del rapporto o comunque a circostanze diverse dalla mera protrazione dell’inerzia, ovvero, ancora, ad una inerzia protrattasi per lungo tempo..”, ha affermato che nel caso in esame “il tempo trascorso non è certo di durata rilevante” ed altresì “trova chiara giustificazione nello stesso comportamento delle Poste che è solita assumere con molti e susseguenti contratti a termine anche a distanza di molti mesi.

Sicchè il comportamento dei lavoratori assunti a termine è quello di chi preferisce attendere ulteriori assunzioni, pur a termine, prima di adire il giudice, quando ormai abbia perso ogni ulteriore speranza di assunzione” (così come osservato dal Tribunale di Milano con la sentenza n. 2319 del 2002).

Tale valutazione di merito risulta non solo conforme al principio di diritto sopra richiamato bensì anche congruamente motivata e resiste alle censure della società ricorrente.

Del resto nessuna specifica circostanza ulteriore rispetto alla mera inerzia è emersa nella fattispecie mentre la allegazione di una “diversa attività lavorativa presso altri datori di lavoro ” risulta del tutto generica ed eventuale, secondo la stessa prospettazione della ricorrente (“magari avevano anche iniziato una diversa attività… “).

Peraltro anche il richiamo alla considerazione dell’atteggiamento di attesa delle lavoratrici in vista di eventuali successivi contratti a termine, fatto proprio dalla Corte di merito sulla scorta del precedente indicato, risulta del tutto legittimo, tanto più nel quadro dell’esame complessivo della fattispecie concreta de qua.

Con il quarto motivo la ricorrente società, denuncia contraddittorietà della motivazione in quanto la sentenza impugnata avrebbe “dapprima ammesso e poi negato l’ampiezza della delega riconosciuta alla contrattazione collettiva” L. n. 56 del 1987, ex art. 23, richiedendo “l’introduzione di un rigido limite temporale ad una fattispecie che riguarda problemi strutturali della società che non potranno trovare soluzione in tempi brevi”.

Con il quinto motivo la società, denunciando violazione della L. n. 230 del 1962, art. 12 e della L. n. 56 del 1987, art. 23, lamenta che la sentenza impugnata “ritenendo necessaria l’esistenza di un limite temporale ha, di fatto, negato la piena discrezionalità delle parti sociali di individuare le nuove ipotesi di legittima apposizione del termine ai contratti di lavoro subordinato”.

Con il sesto motivo la società, denunciando violazione della L. n. 56 del 1987, art. 23 dell’art. 8 del c.c.n.l. 1994 nonchè degli accordi sindacali 25-9-97 e successivi in connessione con gli artt. 1362 e ss. c.c., deduce la natura meramente ricognitiva dei detti accordi e la mancanza di un preciso limite temporale alle assunzioni a termine.

Con il settimo motivo la società deduce che la sentenza impugnata “non trova idonea motivazione, tenuto conto che soltanto l’accordo 25- 9-97 integra il CCNL , mentre i successivi “accordini” non fanno alcun riferimento ad eventuali modifiche del medesimo”.

Sui detti motivi (dal quarto al settimo, connessi fra loro) osserva il Collegio che la Corte di merito, ha attribuito rilievo decisivo alla considerazione che “le assunzioni in discorso, successive al termine sopra indicato sono dunque avvenute in assenza delle condizioni che consentivano la stipulazione con la causale in esame”.

Tale rilievo – in base all’indirizzo ormai consolidato in materia dettato da questa Corte (con riferimento al sistema vigente anteriormente al c.c.n.l. del 2001 ed al D.Lgs. n. 368 del 2001) – è sufficiente a sostenere l’impugnata decisione, risultando superflua ogni ulteriore considerazione.

Al riguardo, sulla scia di Cass. S.U. 2-3-2006 n. 4588, è stato precisato che l’attribuzione alla contrattazione collettiva, L. n. 56 del 1987, ex art. 23 del potere di definire nuovi casi di assunzione a termine rispetto a quelli previsti dalla L. n. 230 del 1962, discende dall’intento del legislatore di considerare l’esame congiunto delle parti sociali sulle necessità del mercato del lavoro idonea garanzia per i lavoratori ed efficace salvaguardia per i loro diritti (con l’unico limite della predeterminazione della percentuale di lavoratori da assumere a termine rispetto a quelli impiegati a tempo indeterminato) e prescinde, pertanto, dalla necessità di individuare ipotesi specifiche di collegamento fra contratti ed esigenze aziendali o di riferirsi a condizioni oggettive di lavoro o soggettive dei lavoratori ovvero di fissare contrattualmente limiti temporali all’autorizzazione data al datore di lavoro di procedere ad assunzioni a tempo determinato” (v. Cass. 4-8-2008 n. 21063, v. anche Cass. 20-4-2006 n. 9245, Cass. 7-3-2005 n. 4862, Cass. 26-7-2004 n. 14011). “Ne risulta, quindi, una sorta di “delega in bianco” a favore dei contratti collettivi e dei sindacati che ne sono destinatari, non essendo questi vincolati alla individuazione di ipotesi comunque omologhe a quelle previste dalla legge, ma dovendo operare sul medesimo piano della disciplina generale in materia ed inserendosi nel sistema da questa delineato.” (v., fra le altre. Cass. 4-8-2008 n. 21062, Cass. 23-8-2006 n. 18378).

In tale quadro, ove però, come nel caso di specie, un limite temporale sia stato previsto dalle parti collettive (anche con accordi integrativi del contratto collettivo) la sua inosservanza determina la nullità della clausola di apposizione del termine (v.

fra le altre Cass. 23-8-2006 n. 18383, Cass. 14-4-2005 n. 7745, Cass. 14-2-2004 n. 2866), In particolare, quindi, come questa Corte ha costantemente affermato e come va anche qui ribadito, “in materia di assunzioni a termine di dipendenti postali, con l’accordo sindacale del 25 settembre 1997, integrativo dell’art. 8 del c.c.n.l. 26 novembre 1994, e con il successivo accordo attuativo, sottoscritto in data 16 gennaio 1998, le parti hanno convenuto di riconoscere la sussistenza della situazione straordinaria, relativa alla trasformazione giuridica dell’ente ed alla conseguente ristrutturazione aziendale e rimodulazione degli assetti occupazionali in corso di attuazione, fino alla data del 30 aprile 1998; ne consegue che deve escludersi la legittimità delle assunzioni a termine cadute dopo il 30 aprile 1998, per carenza del presupposto normativo derogatorio, con la ulteriore conseguenza della trasformazione degli stessi contratti a tempo indeterminato, in forza dell’art. 1 della legge 18 aprile 1962 n. 230” (v., fra le altre, Cass. 1-10-2007 n. 20608; Cass. 28-11-2008 n. 28450; Cass. 4-8-2008 n- 21062; Cass. 27-3-2008 n. 7979, Cass. 18378/2006 cit.).

Con l’ottavo motivo, poi, la società denunciando contraddittorietà ed insufficienza della motivazione, con riferimento alla C. (la cui unica assunzione sarebbe avvenuta in data 28-2-1998 e quindi anteriormente al limite del 30-4-1998 fissato dagli accordi attuativi in materia) lamenta che la Corte di merito “ha evidentemente travisato i fatti, così contraddicendosi”, ritenendo che la assunzione de qua “sarebbe illegittima, sebbene avvenuta in data antecedente a quella che la stessa sentenza ha ritenuto costituire il preteso limite temporale di efficacia dell’ipotesi pattizia”.

Tale motivo è inammissibile in quanto in sostanza con lo stesso viene denunciato in realtà un travisamento di fatto come vizio di motivazione.

Come questa Corte ha più volte affermato e va qui ribadito “il travisamento dei fatti non può costituire motivo di ricorso per cassazione, in quanto, risolvendosi nell’inesatta percezione da parte del giudice di circostanze presupposte come base del suo ragionamento in contrasto con la prova acquisita agli atti del processo, costituisce un errore denunciabile con il mezzo della revocazione ex art. 395 cod. proc. civ., importando detto vizio un accertamento di merito non consentito in sede di legittimità” (v. Cass. 1-3-2002 n. 3024, Cass. 1-4-2003 n. 4948, Cass. 6-6-2003 n. 9096).

Nel contempo, come pure è stato precisato e va qui nuovamente enunciato, il vizio di motivazione su un punto decisivo, denunziabile per cassazione ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 5, postula che il giudice di merito abbia formulato un apprezzamento, nel senso che, dopo aver percepito un fatto di causa negli esatti termini materiali in cui è stato prospettato dalla parte, abbia omesso di valutarlo in modo che l’omissione venga a risolversi in un implicito apprezzamento negativo sulla rilevanza del fatto stesso, ovvero lo abbia valutato in modo insufficiente o illogico. Qualora, invece, l’omessa valutazione dipenda da una falsa percezione della realtà, nel senso che il giudice ritiene per una svista, obiettivamente ed immediatamente rilevabile, inesistente un fatto o un documento, la cui esistenza risulti incontestabilmente accertata dagli stessi atti di causa, è configurabile un errore di fatto deducibile esclusivamente con l’impugnazione per revocazione ai sensi dell’art. 395 c.p.c., n. 4″ (v. Cass. 27-7-2005 n. 15672, Cass. 18-1-2006 n. 830, Cass. 2-3-2006 n. 4660, Cass. S.U. 20-6-2006 n. 14100).

Nella fattispecie è indubbio che l’aver ritenuto la assunzione della C. “successiva” al 30-4-1998 (laddove invece sarebbe avvenuta il 28-2-1998) costituisca una svista materiale degli atti di causa ed un errore di fatto revocatorio, insuscettibile di essere dedotto come motivo di ricorso per cassazione, neppure come vizio di motivazione.

Con il nono motivo la società, denunciando violazione degli artt. 1207, 1217, 1219, 2094 e 2099 c.c., lamenta che la Corte di merito erroneamente avrebbe “confermato il decisum del Tribunale, secondo cui le istanze ex art. 410 cod. proc. civ. finalizzate all’espletamento del tentativo obbligatorio di conciliazione costituirebbero atti di messa in mora” e deduce che le “relative lettere non contengono alcuna offerta della prestazione di lavoro e, quindi, sono all’evidenza inidonee a costituire in mora l’esponente”.

La ricorrente formula, quindi, il seguente quesito di diritto: “Se, per il principio di corrispettività della prestazione, il lavoratore – a seguito dell’accertamento giudiziale dell’Illegittimità del contratto a termine stipulato – ha diritto al pagamento delle retribuzioni soltanto dalla data di riammissione in servizio, salvo che abbia costituito in mora il datore di lavoro, offrendo espressamente la prestazione lavorativa nel rispetto della disciplina di cui agli artt. 1206 e segg. cod. civ.”.

Con il decimo motivo la società denuncia infine vizio di motivazione sullo stesso punto, deducendo che contraddittoriamente la sentenza impugnata avrebbe da un lato affermato la necessità della messa in mora della società e dall’altro condannato la società a corrispondere le retribuzioni dalle istanze ex art. 410 c.p.c., “anche se le relative lettere non contenevano alcuna offerta della prestazione”.

Sul nono motivo osserva il Collegio che il quesito di diritto risulta del tutto generico, in quanto si risolve nella enunciazione in astratto delle regole vigenti nella materia, senza enucleare il momento di conflitto rispetto ad esse del concreto accertamento operato dai giudici di merito (in tal senso v. fra le altre Cass. 4-1- 2011 n. 80). Il quesito di diritto, richiesto a pena di inammissibilità del relativo motivo, in base alla giurisprudenza consolidata di questa Corte, deve infatti essere formulato in maniera specifica e deve essere chiaramente riferibile alla fattispecie dedotta in giudizio (v. ad es. Cass. S.U. 5-1-2007 n. 36). Del resto è stato anche precisato che “è inammissibile il motivo di ricorso sorretto da quesito la cui formulazione si risolve sostanzialmente in una omessa proposizione del quesito medesimo, per la sua inidoneità a chiarire l’errore di diritto imputato alla sentenza impugnata in riferimento alla concreta fattispecie” (v. Cass. S.U. 30-10-2008 n. 26020), dovendo in sostanza il quesito integrare (in base alla sola sua lettura) la sintesi logico-giuridica della questione specifica sollevata con il relativo motivo (cfr. Cass. 7-4-2009 n. 8463).

Peraltro anche la illustrazione del nono motivo, così come quella del decimo, strettamente connesso, risulta del tutto generica e priva di autosufficienza in quanto la ricorrente neppure riporta il testo delle comunicazioni delle istanze ex art. 410 c.p.c. che secondo il suo assunto, contrariamente a quanto ritenuto dai giudici di merito, non avrebbero contenuto alcuna offerta della prestazione di lavoro.

Così risultati inammissibili gli ultimi due motivi del ricorso principale, riguardanti le conseguenze economiche della nullità del termine, neppure potrebbe incidere in qualche modo nel presente giudizio lo ius superveniens, rappresentato dalla L. 4 novembre 2010 n. 183, art. 32, commi 5, 6 e 7, in vigore dal 24 novembre 2010 (invocato dalla società con la memoria).

Al riguardo, infatti, come questa Corte ha più volte affermato, in via di principio, costituisce condizione necessaria per poter applicare nel giudizio di legittimità lo ius superveniens che abbia introdotto, con efficacia retroattiva, una nuova disciplina del rapporto controverso, il fatto che quest’ultima sia in qualche modo pertinente rispetto alle questioni oggetto di censura nel ricorso, in ragione della natura del controllo di legittimità, il cui perimetro è limitato dagli specifici motivi di ricorso (cfr. Cass. 8 maggio 2006 n. 10547, Cass. 27-2-2004 n. 4070).

In tale contesto, è altresì necessario che il motivo di ricorso che investe, anche indirettamente, il tema coinvolto dalla disciplina sopravvenuta, oltre ad essere sussistente, sia altresì ammissibile secondo la disciplina sua propria (v. fra le altre Cass. 4-1-2011 n. 80 cit).

Orbene tale condizione non sussiste nella fattispecie.

Il ricorso principale va così respinto.

Va poi dichiarato inammissibile il ricorso incidentale proposto dalla L. sul capo delle spese.

Se è vero, infatti, che il giudice, in presenza di una nota specifica prodotta dalla parte in tutto o in parte vittoriosa, non può limitarsi ad una globale determinazione, in misura inferiore a quella esposta, dei diritti di procuratore e degli onorari di avvocato, ma ha l’onere di dare adeguata motivazione della eliminazione o riduzione di voci da lui operata, allo scopo di consentire, attraverso il sindacato di legittimità, l’accertamento della conformità della liquidazione a quanto risulta dagli atti e dalle tariffe, in relazione alla inderogabilità dei relativi minimi, a norma della L. n. 794 del 1942, art. 24, tuttavia, ove il ricorso per cassazione avverso la liquidazione delle spese processuali operata dal giudice di merito non riporti le singole voci della nota spese ridotta globalmente, e a maggior ragione non faccia riferimento ad alcuna nota spese, esso non consente di verificare la pretesa violazione dei minimi tariffari, sia per i diritti che per gli onorari, e, pertanto, non essendo autosufficiente, è inammissibile (principi, questi, che valgono per tutti i casi di scostamento dagli importi richiesti con la nota spese, anche se dovuti a pura pretermissione di quest’ultima, perchè ciò che rileva è il rispetto dei minimi tariffari – cfr. ad es. Cass. 3-11-2005 n. 21325, Cass. 2-2-2007 n. 2254).

Nel caso di specie la L. non ha prodotto, unitamente al ricorso incidentale, l’originaria nota spese allegata al giudizio di appello, nè comunque ne ha trascritto il contenuto, bensì ha semplicemente inserito nel ricorso incidentale stesso “un conteggio predisposto sulla base dell’attività risultante dal fascicolo di causa”, redatto, quindi, successivamente alla definizione del processo di appello e relativo alle competenze che, secondo il suo assunto, la Corte territoriale avrebbe dovuto liquidare in relazione all’attività difensiva svolta.

In tal modo, alla luce dei principi indicati, la ricorrente incidentale ha violato il canone di autosufficienza del ricorso.

Peraltro il ricorso incidentale neppure può ritenersi propriamente conferente in quanto trascura del tutto la circostanza che in grado di appello (come si evince chiaramente dalla sentenza) l’avv. Antonio Palmisani rappresentava e difendeva in giudizio non solo la L. bensì anche altro lavoratore ( C.V.), di guisa che, in effetti, per la difesa collettiva svolta dallo stesso avv. Palmisani sono stati liquidati Euro 1.300,00, pari ad Euro 650,00 x 2 (cfr. in un caso analogo Cass. 23-6-2009 n. 11401).

Infine la società soccombente va condannata al pagamento delle spese nei confronti della C., mentre per la soccombenza reciproca vanno compensate le spese tra la società e la L..

P.Q.M.

La Corte riunisce i ricorsi, rigetta il ricorso principale, dichiara inammissibile l’incidentale, compensa le spese tra la società e la L., e condanna la società a pagare alla C. le spese, liquidate in Euro 28,00 oltre Euro 2.500,00 per onorari, oltre spese generali, IVA e CPA. Così deciso in Roma, il 26 maggio 2011.

Depositato in Cancelleria il 7 luglio 2011

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