Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 14985 del 01/07/2014


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Civile Ord. Sez. 6 Num. 14985 Anno 2014
Presidente: CURZIO PIETRO
Relatore: BLASUTTO DANIELA

ORDINANZA

C L)

sul ricorso 17517-2011 proposto da:
POSTE ITALIANE SPA 97103880585 – società con socio unico in
persona del Presidente del Consiglio di Amministrazione e legale
rappresentante pro-tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA
PO 25/B, presso lo studio dell’avvocato PESSI ROBERTO, che la
rappresenta e difende, giusta procura a margine del ricorso;
– ricorrente contro
MALANDRINO

FRANCESCA

MLNFNC67C58E202L,

elettivamente domiciliata in ROMA, VIA FLAMINIA 195, presso lo
studio dell’avvocato VACIRCA SERGIO, che la rappresenta e difende
unitamente all’avvocato LALLI CLAUDIO, giusta delega a margine
del controricorso;
– controricorrente –

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Data pubblicazione: 01/07/2014

avverso la sentenza n. 1070/2010 della CORTE D’APPELLO di
FIRENZE del 16.7.2010, depositata il 06/08/2010;
udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del

FATTO E DIRITTO
La Corte pronuncia in camera di consiglio ex art. 375 c.p.c. a seguito
di relazione a norma dell’art. 380-bis c.p.c., condivisa dal Collegio, letta
la memoria di parte ricorrente.
Con la sentenza impugnata la Corte di appello di Firenze, rigettando
l’appello di Poste Italiane s.p.a., ha confermato la declaratoria di
illegittimità del termine apposto al contratto di lavoro subordinato
stipulato tra Malandrino Francesca e la predetta società, con
conseguente trasformazione del rapporto in quello di lavoro a tempo
indeterminato, ed ha condannato la società a riammettere in servizio
l’appellante e a risarcirle il danno, commisurato alle retribuzioni
maturate dalla costituzione in mora, fissata alla richiesta del tentativo
obbligatorio di conciliazione, oltre rivalutazione monetaria e interessi.
La Corte territoriale, esclusa la risoluzione del rapporto per mutuo
consenso eccepita dalla datrice di lavoro, ha rilevato che il contratto
intercorso era stato stipulato il 15 giugno 2001 ex art. 25 CCNL
11.1.2001, ma la società non aveva dimostrato di avere rispettato la
percentuale fissata dalla contrattazione collettiva tra assunti con
contratti di lavoro a termine e assunti con contratti a tempo
indeterminato, malgrado la specifica contestazione mossa in proposito
dalla lavoratrice sin dal primo grado del giudizio.
La Corte di merito ha quindi fatto decorrere il diritto della
lavoratrice, alle retribuzioni maturate dopo la scadenza del termine
apposto al contratto, dall’offerta delle prestazioni lavorative,
individuata nella richiesta del tentativo di conciliazione dinanzi
all’ufficio del lavoro, e ha rigettato l’eccezione di detrazione dell’ aliunde
perceptum , in quanto genericamente allegata.
Per cassazione di tale sentenza ha proposto ricorso la società con
quattro motivi.
L’intimata resiste con controricorso.
Il primo motivo denuncia violazione e falsa applicazione dell’art.
1372 c.c., commi 1 e 2, nonché vizio di motivazione. Critica la
Ric. 2011 n. 17517 sez. ML – ud. 13-05-2014
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13/05/2014 dal Consigliere Relatore Dott. DANIELA BLASUTTO.

Ric. 2011 n. 17517 sez. ML – ud. 13-05-2014
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sentenza impugnata per avere ritenuto che l’inerzia di una delle parti
non valesse a comprovare la intervenuta risoluzione del rapporto per
mutuo consenso, malgrado si fosse procrastinata per alcuni anni (circa
tre) prima che la lavoratrice agisse in giudizio.
Il secondo motivo denuncia violazione ed erronea applicazione
dell’art. 2697 c.c. e degli artt. 421 e 437 c.p.c., nonché vizio di
motivazione. Critica la sentenza impugnata perché nell’affermare
l’illegittimità del contratto a termine per violazione della quota
numerica prevista dal cali, ha ritenuto che l’onere di fornire la prova in
proposito incombeva sulla società anziché sulla lavoratrice, la quale
aveva dedotto l’illegittimità del contratto.
Il terzo motivo denuncia violazione e falsa applicazione di norme di
diritto e vizio di motivazione. Lamenta che il giudice del gravame abbia
accolto la domanda di condanna, sebbene non supportata da alcun
elemento probatorio circa il danno conseguente alla nullità della
clausola che fissava un termine al rapporto, e sostiene che non può
essere configurata come costituzione in mora la richiesta da parte della
lavoratrice del tentativo obbligatorio di conciliazione.
Con l’ultimo motivo vengono investite le conseguenze risarcitorie
tratte dalla Corte territoriale dalla ritenuta conversione del contratto a
tempo indeterminato, in quanto viene invocata l’applicazione dello ius
superveniens con efficacia retroattiva rappresentato dall’ari 32 commi 57 della legge n. 183 del 2010.
Quanto al primo motivo, si deve osservare, come questa Corte ha più
volte affermato in analoghe controversie, che affinché possa
configurarsi una risoluzione del rapporto di lavoro per mutuo
consenso, è necessario che sia accertata una chiara e certa comune
volontà delle parti medesime di volere, d’accordo tra loro, porre fine
al rapporto lavorativo, non solo sulla base del lasso di tempo trascorso
dopo la conclusione del contratto a termine, ma anche del
comportamento tenuto dalle parti e di eventuali circostanze
significative; la valutazione del significato e della portata del complesso
di tali elementi di fatto compete al giudice di merito, le cui conclusioni
non sono censurabili in sede di legittimità, se non sussistono vizi logici
o errori di diritto (v. Cass. 10 novembre 2008 n. 26935, Cass. 28
settembre 2007 n. 20390).

Ric. 2011 n. 17517 sez. ML – ud. 13-05-2014
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Nella specie, la Corte di merito ha fornito una motivazione, in fatto,
congrua, adeguata e priva di vizi logici, evidenziando che il ritardo con
il quale la lavoratrice aveva agito in giudizio per far valere l’illegittimità
del termine apposto al contratto di lavoro intercorso non costituiva
una inequivoca manifestazione alla rinuncia alla sua prosecuzione o
comunque una volontà alla modifica del rapporto.
Né del resto l’azienda, che avendo eccepito la risoluzione per mutuo
consenso aveva l’onere di provare le circostanze dalle quali desumere
la volontà chiara e certa delle parti di volere porre definitivamente fine
al rapporto di lavoro (v. Cass. 2 dicembre 2002 n. 17070), ha fatto
riferimento a concreti e significativi comportamenti della lavoratore
che deponessero nel senso di non volere la prosecuzione del rapporto,
neppure potendosi attribuire siffatta volontà a chi sia stato costretto ad
occuparsi o comunque cercare occupazione dopo aver perso il lavoro
per cause diverse dalle dimissioni, o a chi, come invece argomenta
l’azienda, non abbia avuto una tempestiva reazione alla cessazione del
rapporto per scadenza del termine o non abbia manifestato l’intento di
riprendere l’attività lavorativa interrotta.
Anche il secondo motivo è infondato. La giurisprudenza della Corte
di cassazione ritiene che la facoltà delle organizzazioni sindacali di
individuare ulteriori ipotesi di apposizione del termine al contratto di
lavoro è subordinata dall’art. 25 alla determinazione delle percentuali di
lavoratori che possono essere assunti sul totale dei dipendenti;
pertanto, occorre, a garanzia di trasparenza ed a pena di invalidità
dell’apposizione del termine, l’indicazione del numero dei lavoratori
assunti a tempo indeterminato, sì da potersi verificare il rapporto
percentuale tra lavoratori stabili e a termine. L’onere della prova
dell’osservanza di detto rapporto, nei limiti delle percentuali indicate
dalla contrattazione collettiva, è a carico del datore di lavoro, in base
alle regole di cui alla L. 18 aprile 1962, n. 230, art. 3 secondo cui
incombe al datore di lavoro dimostrare l’obiettiva esistenza delle
condizioni che giustificano l’apposizione di un termine al contratto di
lavoro (Cass. 19.1.10 n. 839 e 12.3.09 n. 6010, che superano la meno
recente giurisprudenza indicata dalla ricorrente). Sempre con
riferimento a questo primo motivo e specificamente al mancato
esercizio del potere-dovere del giudice di disporre accertamenti
officiosi in presenza di semiplena probatio, deve rilevarsi che nel rito del

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lavoro l’esercizio dei poteri istruttori d’ufficio, nell’ambito del
contemperamento del principio dispositivo con quello della ricerca
della verità, involge un giudizio di opportunità rimesso
all’apprezzamento discrezionale del giudice, che può essere sottoposto
al sindacato di legittimità come vizio di motivazione, ex art. 360 c.p.c.,
comma 1, n. 5, qualora la sentenza di merito non adduca un’adeguata
spiegazione per disattendere la richiesta di mezzi istruttori relativi ad
un punto della controversia che, se esaurientemente istruito, avrebbe
potuto condurre ad una diversa decisione (Cass. 25.05.10 n. 12717).
Nel caso di specie il giudice si è adeguato a questo principio, in quanto
con accertamento di fatto esauriente e logicamente articolato ha
ritenuto i mezzi istruttori dedotti del tutto inidonei a fornire la prova
richiesta, implicitamente ritenendo inesistente un pur minimo principio
di prova. Non esiste, dunque, il lamentato carente esercizio dei poteri
istruttori o fficio si.
Il terzo e il quarto motivo involgono l’ an e il quantum del risarcimento
del danno. Nel caso in esame, la soc. Poste Italiane denuncia sia la
violazione di norme e principi in tema di messa in mora, sia quelle in
tema di corrispettività della prestazioni. Sostiene che non possono
essere riconosciute a titolo risarcitorio tutte le retribuzioni perdute
occorrendo una specifica offerta delle prestazioni lavorative, non
ravvisabile nella domanda di impugnativa del termine illegittimo, ed
essendo il diritto alla retribuzione collegato sinallagrnaticamente alla
prestazione lavorativa. Il motivo è sufficientemente specifico, nonché
pertinente alla questione del risarcimento del danno e della sua
commisurazione, involgendo l’ an e il quantum della retribuzione dovuta
quale effetto della trasformazione de iure del rapporto di lavoro.
La Corte di appello ha riconosciuto a titolo risarcitorio le retribuzioni
maturate a decorrere dal primo atto di costituzione in mora.
La società ricorrente invoca l’applicazione dello ius superveniens,
rappresentato dalla L. 4 novembre 2010, n. 183, art. 32, commi 5, 6 e 7
i quali dispongono che:
“5. Nei casi di conversione del contratto a tempo determinato, il
giudice condanna il datore di lavoro al risarcimento del lavoratore
stabilendo un’indennità onnicomprensiva nella misura compresa tra
uni minimo di 2,5 ed un massimo di 12 mensilità dell’ultima

Ric. 2011 n. 17517 sez. ML – ud. 13-05-2014
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retribuzione globale di fatto, avuto riguardo ai criteri indicati nella L.
15 luglio 1966, n. 604, art. 8.
6. In presenza di contratti ovvero accordi collettivi nazionali,
territoriali o aziendali, stipulati con le organizzazioni sindacali
comparativamente più rappresentative sul piano nazionale, che
prevedano l’assunzione, anche a tempo indeterminato, di lavoratori già
occupati con contratto a termine nell’ambito di specifiche graduatorie,
il limite massimo dell’indennità fissata dal comma 5 è ridotto alla metà.
7. Le disposizioni di cui ai commi 5 e 6 trovano applicazione per tutti i
giudizi, ivi compresi quelli pendenti alla data di entrata in vigore della
presente legge. Con riferimento a tali ultimi giudizi, ove necessario, ai
soli fini della determinazione della indennità di cui ai commi 5 e 6, il
giudice fissa alle parti un termine per l’eventuale integrazione della
domanda e delle relative eccezioni ed esercita i poteri istruttori ai sensi
dell’art. 421c.p.c.”.
Tale disciplina, applicabile a tutti i giudizi pendenti, anche in grado di
legittimità (v. già Cass. ord. 28-1-2011 n. 2112), alla luce della sentenza
interpretativa di rigetto della Corte Costituzionale n. 303 del 2011, è
fondata sulla ratio legis diretta ad “introdurre un criterio di liquidazione
del danno di più agevole, certa ed omogenea applicazione”, rispetto
alle “obiettive incertezze verificatesi nell’esperienza applicativa dei
criteri di commisurazione del danno secondo la legislazione
previgente”.
Nel contempo, sempre alla luce della citata pronuncia della Corte
Costituzionale, “il nuovo regime risarcitorio non ammette la detrazione
dell’ aliunde percepwn. Sicché l’indennità onnicomprensiva assume una
chiara valenza sanzionatoria. Essa è dovuta in ogni caso, al limite
anche in mancanza di danno, per il avere il lavoratore prontamente
reperito un’altra occupazione”. Peraltro, “la garanzia economica in
questione non è ne’ rigida, ne’ uniforme” e, “anche attraverso il ricorso
ai criteri indicati dalla L. n. 604 del 1966, art. 8 consente di calibrare
l’importo dell’indennità da liquidare in relazione alle peculiarità delle
singole vicende, come la durata del contratto a tempo determinato
(evocata dal criterio dell’anzianità lavorativa), la gravità della violazione
e la tempestività della reazione del lavoratore (sussumibili sotto
l’indicatore del comportamento delle parti), lo sfruttamento di
occasioni di lavoro (e di guadagno) altrimenti inattingibili in caso di

prosecuzione del rapporto (riconducibile al parametro delle condizioni
delle parti), nonché le stesse dimensioni dell’impresa (immediatamente
misurabili attraverso il numero dei dipendenti”. Così interpretata, la
nuova normativa – risultata “nell’insieme, adeguata a realizzare un
equilibrato componimento dei contrapposti interessi” – ha superato il
giudizio di costituzionalità sotto i vari profili sollevati, con riferimento
agli artt. 3,4, 11,24, 101, 102 e 111 Cost. e art. 117 Cost., comma 1. (v.
Cass. 31 gennaio 2012 n. 1409).
Il Collegio ha condiviso tale soluzione. Ne consegue la cassazione
della sentenza impugnata, dovendo il giudice di rinvio fare
applicazione dello ius superveniens.
Si designa, quale giudice di rinvio, la Corte di appello di Firenze in
diversa composizione, che provvederà in ordine alle spese del giudizio
di legittimità.
P.Q.M.
La Corte accoglie il motivo di ricorso concernente l’art. 32 legge n.
183/2010; rigetta gli altri; cassa la sentenza impugnata in relazione al
motivo accolto e rinvia alla Corte di appello di Firenze, in diversa
composizione, anche per le spese.
Così deciso in Roma, nella camera di consiglio del 13 maggio 2014
sidente

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