Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 14979 del 15/07/2020

Cassazione civile sez. trib., 15/07/2020, (ud. 26/11/2019, dep. 15/07/2020), n.14979

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. VIRGILIO Biagio – Presidente –

Dott. PERRINO Angelina Maria – rel. Consigliere –

Dott. NONNO Giacomo Maria – Consigliere –

Dott. D’AQUINO Filippo – Consigliere –

Dott. CATALLOZZI Paolo – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso iscritto al numero 20148 del ruolo generale dell’anno

2012, proposto da:

Agenzia delle entrate, in persona del direttore pro tempore,

rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, presso

gli uffici della quale in Roma, alla via dei Portoghesi, n. 12, si

domicilia;

– ricorrente –

contro

s.r.l. Enface, in persona del legale rappresentante pro tempore,

rappresentato e difeso, giusta procura speciale a margine del

controricorso, dall’avv. Paolo Fiorilli, presso lo studio del quale

in Roma, alla via Cola di Rienzo, n. 180, elettivamente si domicilia

– controricorrente –

per la cassazione della sentenza della Commissione tributaria

regionale del Friuli Venezia Giulia, depositata in data 22 giugno

2011, n. 66/11/11;

udita la relazione sulla causa svolta alla pubblica udienza in data

26 novembre 2019 dal consigliere Angelina-Maria Perrino;

udito il pubblico ministero, in persona del sostituto procuratore

generale De Renzis Luisa, che ha concluso per l’accoglimento del

ricorso;

sentita per l’Agenzia l’avvocato dello Stato Gianna Galluzzo.

Fatto

FATTI DI CAUSA.

Si legge nella narrativa della sentenza impugnata che la s.r.l. Enface, per gli anni d’imposta dal 2003 al 2006, aveva compiuto cessioni in sospensione d’imposta, a norma del D.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633, art. 8, comma 1, lett. c), in base a dichiarazioni d’intento rivelatesi false, perchè emesse da soggetti privi del requisito di esportatore abituale, in seno a un articolato fenomeno di frode dell’iva.

Ne sono scaturiti avvisi di accertamento concernenti gli atti d’imposta in questione, che la contribuente ha impugnato, ottenendone l’annullamento dalla Commissione tributaria provinciale di Pordenone.

Quella regionale del Friuli Venezia Giulia ha rigettato l’appello proposto dall’Agenzia. Ha al riguardo fatto leva sul fatto che la contribuente ha provato di essersi preoccupata di valutare la solvibilità e le generiche garanzie patrimoniali e affidabilità dei propri clienti e, a fronte di dubbi su tale affidabilità, si è premunita pretendendo pagamenti anticipati. Sicchè, ha concluso il giudice d’appello, gli elementi presuntivi offerti dall’ufficio in ordine alla consapevolezza della frode non sono dotati dei requisiti di gravità, precisione e concordanza utili a sostenere la pretesa impositiva.

Contro questa sentenza propone ricorso l’Agenzia per ottenerne la cassazione, che articola in sei motivi, cui la società risponde con controricorso.

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE.

1.- Infondato è il primo motivo di ricorso, col quale l’Agenzia lamenta la nullità della sentenza impugnata per violazione e falsa applicazione del D.Lgs. 31 dicembre 1992, n. 546, art. 57, in quanto, sostiene l’ufficio, la contribuente non ha contestato, quando ha impugnato gli avvisi, la falsità delle dichiarazioni d’intento, giungendo soltanto con le controdeduzioni in fase di appello a negare che fosse stata fornita prova della frode.

Ciò perchè la linea della contribuente consiste nell’escludere di aver preso parte a un meccanismo frodatorio, del quale le dichiarazioni d’intento false costituivano uno dei tasselli o, comunque, di non esserne a conoscenza; e coerentemente con quest’impostazione ha sin da subito affermato di non essere in grado di affermare, o di negare, che le dichiarazioni d’intento fossero effettivamente false, trattandosi “di fatti e situazioni estranei alla condotta di Enface”.

Nessuna nullità è quindi configurabile.

Ne deriva il rigetto del motivo.

2.- Il rigetto del motivo comporta l’assorbimento del secondo motivo, col quale l’Agenzia ripropone la questione sub specie di vizio di motivazione della sentenza sul fatto decisivo dell’omessa contestazione da parte della contribuente della falsità delle dichiarazioni d’intento.

3.- Coi restanti motivi, da esaminare congiuntamente, perchè connessi, l’Agenzia lamenta:

– ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, la violazione e falsa applicazione del D.P.R. n. 633 del 1972, art. 8, e dell’art. 2697 c.c., perchè, a fronte di dichiarazioni d’intento false, la Commissione tributaria regionale non ha verificato che il cedente abbia adottato tutte le misure ragionevoli volte ad acquisire la consapevolezza della falsità (terzo motivo);

– ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, l’omissione della motivazione sul fatto decisivo che la Enface abbia adottate le misure ragionevoli in questione (quarto motivo);

– ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, la violazione e falsa applicazione del D.P.R. n. 633 del 1972, art. 8, là dove il giudice d’appello ha escluso che la contribuente fosse tenuta all’assolvimento dell’iva pur sapendo o essendo in grado di sapere che le dichiarazioni d’intento erano false (quinto motivo);

– ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, l’insufficienza della motivazione della sentenza impugnata in ordine agli elementi, ritualmente introdotti in giudizio, idonei a palesare la conoscenza da parte della contribuente della falsità delle dichiarazioni, e, segnatamente, il fatto che in quattro anni la contribuente era entrata in contatto con ben dodici soggetti che avevano a essa rilasciato dichiarazioni d’intento false e che avevano acquistato il medesimo bene, ossia un processore prodotto dalla Intel, che la società dal canto suo di volta in volta acquistava poco prima di ricevere gli ordini; il fatto che gli acquisti siano bruscamente cessati nel secondo semestre 2006, in concomitanza con l’inizio delle verifiche fiscali; il fatto che quattro delle clienti poco prima di entrare in contatto con la Enface avevano cambiato controllante, amministratore, denominazione e sede; il fatto che due di queste quattro avevano la medesima denominazione; l’inverosimiglianza del fatturato estero di queste due società, al cospetto del modestissimo fatturato degli anni precedenti, della mancanza di dipendenti di una e del calo di dipendenti dell’altra; della consapevolezza da parte di Enface di indici idonei a qualificare le sue clienti come cartiere (sesto motivo).

La complessiva censura è fondata.

3.1.- Come questa Corte ha già avuto occasione di sottolineare (si veda, in particolare, Cass. 15 giugno 2018, n. 15835), la non imponibilità contemplata dal D.P.R. n. 633 del 1972, art. 8, comma 1, lett. c), si differenzia dalle ipotesi previste dalle lett. a) e b) della medesima norma, le quali concernono la sussistenza del debito iva o, meglio, la sua insussistenza: con la lett. c) il legislatore ha scelto di configurare come non imponibili le operazioni ivi elencate che altrimenti lo sarebbero, sicchè la non imponibilità in quel caso non riguarda la sussistenza del debito iva (nè la relativa responsabilità, principale o solidale), bensì la esecutività di esso. E ciò in ragione della possibilità dell’estinzione satisfattiva di quel debito mediante compensazione con i crediti iva dell’esportatore abituale.

Il legislatore considera quindi non imponibili -sebbene si tratti di merci o prestazioni di servizi destinate a entrare o ad essere eseguite nel territorio dell’Unione- le cessioni di beni (tranne i fabbricati e le aree edificabili) e le prestazioni di servizi fatte a soggetti che abbiano compiuto abitualmente cessioni all’esportazione od operazioni intracomunitarie, e chiedano al loro fornitore di non applicare l’imposta sull’operazione di acquisto e/o di importazione.

3.2.- I soggetti che eseguano solo, o prevalentemente (esportatori abituali), operazioni di tal fatta finirebbero per trovarsi costantemente in credito con l’Erario, giacchè l’esiguità delle operazioni imponibili compiute (a debito) non varrebbe a compensare quelle sugli acquisti (a credito). Al fine, dunque, di evitare che taluni operatori siano in permanente attesa del rimborso dell’eccedenza d’imposta, il legislatore consente loro di effettuare acquisti senza applicazione dell’iva, includendo tra le operazioni non imponibili anche le cessioni di beni e le prestazioni di servizi compiute nei loro confronti.

In definitiva, il plafond disciplinato dall’art. 8, comma 1, lett. c, rappresenta un semplice limite quantitativo monetario utilizzabile nell’anno successivo per procedere ad acquisti in sospensione d’imposta (Cass. 6 marzo 2015, n. 4556).

3.3.- Esclusa la qualità di esportatore abituale, viene meno anche il limite di esecutività, proprio al fine di non arrecare danno all’erario, poichè non può operare il meccanismo sopra descritto: ed è perciò che il D.Lgs. n. 471 del 1997, art. 7, comma 3, stabilisce che qualora la dichiarazione d’intento “…sia stata rilasciata in mancanza dei presupposti richiesti dalla legge, dell’omesso pagamento del tributo rispondono esclusivamente i cessionari, i committenti e gli importatori che hanno rilasciato la dichiarazione stessa”.

3.4.- Va, tuttavia, sottolineato che la lotta contro la frode, l’evasione fiscale ed eventuali abusi costituisce un obiettivo riconosciuto e incoraggiato dalla Dir. IVA (da ultimo, Corte giust. 8 maggio 2019, causa C-712/17, EN. SA. s.r.l., punto 31).

E a fronte della partecipazione del cedente al meccanismo frodatorio o della consapevolezza di esso, permarrebbe il rischio di perdita di gettito dell’erario qualora i cessionari o committenti fossero soggetti inesistenti o del tutto incapienti.

3.5.- Il sistema per conseguenza non consente l’esercizio fraudolento del diritto di valersi del limite esecutivo correlato alla qualità di esportatore abituale qualora, anche in base a elementi presuntivi, emerga che il cedente disponesse di elementi tali, da sospettare l’esistenza di irregolarità e da sollecitare il suo onere di diligenza (si veda, da ultimo, Cass. 5 aprile 2019, n. 9586, che fa leva sull’adozione di tutte le ragionevoli misure disponibili).

3.6.- La configurabilità dell’onere di diligenza emerge anche dalla L. 30 dicembre 2004, n. 311, art. 1, comma 384, applicabile almeno in parte nella controversia in esame, secondo cui “Chiunque omette di inviare, nei termini previsti, la comunicazione di cui al D.L. 29 dicembre 1983, n. 746, art. 1, comma 1, lett. c), u.p., convertito, con modificazioni, dalla L. 27 febbraio 1984, n. 17, introdotto dal comma 381, o la invia con dati incompleti o inesatti, è responsabile in solido con il soggetto acquirente dell’imposta evasa correlata all’infedeltà della dichiarazione ricevuta”.

4.- Nel caso in esame, la Commissione tributaria regionale, invece di considerare e valutare gli elementi dinanzi riportati, potenzialmente idonei a orientare diversamente il proprio giudizio, si è rifugiata in affermazioni apodittiche e lacunose.

Sicchè la censura complessivamente proposta non è affatto volta, come eccepisce la società in controricorso, a ottenere una rilettura dei fatti, ma a sollecitarne la effettiva e compiuta valutazione.

5.- Essa va in conseguenza accolta e la sentenza cassata, con rinvio, anche per le spese, alla Commissione tributaria regionale del Friuli Venezia Giulia in diversa composizione.

P.Q.M.

rigetta il primo motivo di ricorso, assorbito il secondo, accoglie nel resto il ricorso, cassa la sentenza impugnata e rinvia, anche per le spese, alla Commissione tributaria regionale del Friuli Venezia Giulia in diversa composizione.

Così deciso in Roma, il 26 novembre 2019.

Depositato in Cancelleria il 15 luglio 2020

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