Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 14963 del 01/07/2014


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Civile Sent. Sez. 6 Num. 14963 Anno 2014
Presidente: CURZIO PIETRO
Relatore: BLASUTTO DANIELA

SENTENZA
sul ricorso 15732-2011 proposto da:
CASTIGLIA ANTONIO (CSTNTN51M23F839K) elettivamente
domiciliato in ROMA, presso la CORTE DI CASSAZIONE,
rappresentato e difeso dall’avv. MARRA ALFONSO LUIGI, giusta
delega a margine del ricorso;
– ricorrente contro
COMUNE DI NAPOLI (80014890638)in persona del Sindaco pro
tempore, elettivamente domiciliato in ROMA, VIA FRANCESCO
DENZA 50/A, presso lo studio dell’avvocato LAURENTI LUCIO,

3652

Data pubblicazione: 01/07/2014

rappresentato e difeso dall’avvocato FERRARI FABIO MARIA,
giusta mandato in calce al controricorso;

controricorrente

avverso la sentenza n. 164/2011 della CORTE D’APPELLO di

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del
15/04/2014 dal Consigliere Relatore Dott. DANIELA BLASUTTO;
udito per il controricorrente l’Avvocato Nicola Laurenti (per delega
avv. Fabio Maria Ferrari) che si riporta agli scritti.

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

1. Con la domanda di cui al ricorso di primo grado Castiglia Antonio,
premesso di essere dipendente del Comune di Napoli con mansioni di
giardiniere, addetto alla pulitura e manutenzione dei parchi e giardini
pubblici, ha allegato di non avere potuto utilizzare correttamente i
prescritti indumenti di lavoro protettivi ; il Comune di Napoli aveva
fornito infatti, ogni due /tre anni due tute di stoffa e, saltuariamente,
tute “usa e getta” le quali non consentivano la traspirazione né
garantivano l’impermeabilità ai liquidi ; la scarsità degli indumenti
forniti, il lungo lasso di tempo intercorrente tra una fornitura ed
un’altra, la necessità di lavaggi frequenti ( ai quali aveva provveduto
esso lavoratore) avevano determinato pertanto un logorio tale degli
abiti da lavoro da indurre il ricorrente alla loro sostituzione con abiti
propri.
Ha dedotto che la condotta del Comune di Napoli costituiva
violazione degli artt. 32 Cost. e 2087 cod. civ. , del dpr n. 303 del
1956, del d.lgs n. 626 del 1994 e della Direttiva europea n. 89/391

Ric. 2011 n. 15732 sez. ML – ud. 15-04-2014
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NAPOLI del 13.1.2011, depositata il 21/01/2011;

CEE e sostenuto di avere diritto all’indennità per il lavaggio delle tute
o al risarcimento del danno per la condotta del Comune.
2. La domanda è stata respinta dal giudice di prime cure con
statuizione confermata in appello.
2.1. La Corte territoriale, sulla premessa che il lavoratore appellante

salute, nonché dell’art. 2087 c.c. e dell’art. 40 d.lgs n. 626/94, ha
ritenuto inapplicabile la normativa introdotta nel 1994 perché riferibile
ai soli “DPI” (dispositivi di protezione individuale), in quanto le tute
fornite ai lavoratori erano capi comuni di abbigliamento e assolvevano
alla mera funzione di preservazione degli abiti dei lavoratori, così come
le tute “monouso”; quindi non si trattava di indumenti predisposti per
tutelare la salute e sicurezza delle persone. Elementi essenziali in
ordine all’obbligo di fornitura di DPI erano, infatti, la frequenza di
esposizione e le caratteristiche del posto di lavoro del singolo
dipendente. L’eventualità di venire a contatto con sostanze nocive era
stata prospettata in ricorso, in modo del tutto generico, tenuto conto
dell’attività svolta, ed era pertanto inidonea a qualificare gli indumenti
forniti quali DPI . La controversia era limitata al solo preteso obbligo
del Comune di Napoli di lavare le tute fornite o di risarcire il danno da
violazione di tale pretesa/obbligo per cui non rilevante era la perizia
depositata in atti circa la individuazione di DPI in ordine ai rischi
specifici delle lavorazioni svolte dall’appellante. La giurisprudenza di
legittimità circa la fornitura di idonei strumenti di protezione e circa
l’obbligo per il datore di lavoro di tenerli puliti ed efficienti, richiamata
dall’appellante si riferiva a casi diversi in cui gli indumenti forniti erano
effettivamente DPI o strumenti di copertura ad essi assimilabili.
In difetto di specifica allegazione era, infine, da escludere l’obbligo
contrattuale del Comune alla fornitura di indumenti da lavoro.
Ric. 2011 n. 15732 sez. ML – ud. 15-04-2014
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aveva lamentato la violazione della norma costituzionale in materia di

3.Per la cassazione di tale decisione ha proposto ricorso l’originario
ricorrente sulla base di quattordici motivi ; ha resistito il Comune con
controricorso. Parte ricorrente ha depositato memoria difensiva ex art.
378 c.p.c..

4. Con il primo motivo si deduce violazione e falsa applicazione degli
artt. 32 della Cost. e dell’art. 2087 c.c.; si sostiene che esiste un generale
obbligo del datore di lavoro di lavare le tute, come affermato dalla
giurisprudenza di legittimità; in caso di mancato lavaggio, il lavoratore
ha pertanto diritto alla relativa indennità.
4.1. Con il secondo motivo si deduce l’omessa o insufficiente o
contraddittoria o incongrua motivazione in relazione ad un fatto
controverso decisivo per il giudizio, nonché la violazione dell’art. 112
cod. proc. civ. e degli artt. 132 cod. proc. civ.; si assume l’errore del
giudice di appello per avere ritenuto che esso ricorrente aveva, in
prima battuta, qualificato le tute quali DPI e per avere ignorato la
domanda del ricorrente fondata sulla sussistenza di un obbligo
generale di lavaggio delle tute da parte del Comune di Napoli.
4.2. Con il terzo motivo si deduce la violazione del d. lgs. n. 626 del
1994 e dell’ulteriore normativa in materia di sicurezza del lavoro; degli
artt. 32 Cost. e dell’art.2087 cod. civ.; il provvedimento impugnato è in
contrasto con la giurisprudenza della Corte di cassazione . Esiste un
obbligo generale del datore di lavoro di lavare le tute in quanto DPI. In
caso di mancato lavaggio il lavoratore ha diritto alla relativa indennità.
4.3. Con il quarto motivo si deduce l’omessa o insufficiente o
contraddittoria o incongrua motivazione in relazione ad un fatto
controverso decisivo per il giudizio. Non si era esaminata la perizia

Ric. 2011 n. 15732 sez. ML – ud. 15-04-2014
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MOTIVI DELLA DECISIONE

prodotta e non si erano esaminati i rischi in concreto sofferti dai
lavoratori.
4.4. Con il quinto motivo si deduce violazione e falsa applicazione
dell’art. 2967 cod. civ. del d. lgs n. 6262 del 1994 e dell’ulteriore
normativa in materia di sicurezza ; incombe sul Comune datore di

svolte e che le tute non sono DPI ; il lavoratore ha solo l’onere di
dimostrare le mansioni espletate ed il contatto con le sostanze in cui si
imbatte nello svolgimento delle mansioni medesime ;
4.5. Con il sesto motivo si deduce l’omessa o insufficiente o
contraddittoria o incongrua motivazione in relazione ad un fatto
controverso, decisivo per il giudizio. Era onere del comune di Napoli
dimostrare che le tute non sono DPI ; è stata omessa la motivazione
sul mancato esame della questione attinente all’onere della prova.
4.6. Con il settimo motivo si deduce violazione e falsa applicazione
dell’art. 32 Cost. dell’art. 2087 cod. civ. del d. lgs n. 626 del 1994 e della
normazione in materia di sicurezza del lavoro ; è il datore di lavoro che
è onerato della prova in ordine alla insussistenza del rischio.
4.7. Con l’ottavo motivo si deduce omessa o insufficiente o
contraddittoria o incongrua motivazione in relazione ad un fatto
controverso decisivo per il giudizio. Era onere del datore di lavoro
dimostrare che non sussisteva un rischio per i lavoratori ; la sentenza
impugnata manca del tutto di motivazione sul punto.
4.8. Con il nono motivo si deduce violazione e falsa applicazione degli
artt. 32 della Cost.; degli artt. 1218 e 2043 cod. civ.; il provvedimento
impugnato si pone in contrasto con la giurisprudenza di legittimità.
Nel caso di mancato lavaggio delle tute da lavoro il lavoratore ha
diritto al risarcimento del danno patrimoniale e non patrimoniale.

Ric. 2011 n. 15732 sez. ML – ud. 15-04-2014
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lavoro la prova che non sono necessari DPI per il lavoro e le mansioni

4.9 Con il decimo motivo si deduce l’omessa o insufficiente o
contraddittoria o incongrua motivazione in relazione ad un fatto
controverso, decisivo per il giudizio. La decisione non ha motivato
congruamente le ragioni del rigetto della domanda risarcitoria ed in
particolare della insussistenza del danno lamentato.

applicazione degli artt. 32 Cost. e dell’art. 2697 c.c., nonché dell’art.
414 cod. proc. civ. ; si censura , in sintesi il mancato accoglimento
delle richieste istruttorie articolate in prime cure.
4.11. Con il dodicesimo motivo si allega l’omessa o insufficiente o
contraddittoria o incongrua motivazione in relazione ad un fatto
controverso decisivo per il giudizio. Non era stata offerta alcuna
motivazione in ordine alla mancata ammissione delle prove richieste..
4.12. Con il tredicesimo motivo si deduce la violazione e falsa
applicazione degli arti. 32 Cost. , dell’art. 2087 cod. civ. ; si censura, in
sintesi, la decisione per non avere il giudice di appello esaminato ed
accolto la domanda formulata in via gradata attinente all’inosservanza
dell’obbligo di fornitura delle tute “siano esse considerate come
D.P.I.” ovvero come abiti da lavoro.
4.13. Con l’ultimo motivo si deduce omessa o insufficiente o
contraddittoria o incongrua motivazione in relazione ad un fatto
controverso decisivo per il giudizio. La motivazione del
provvedimento impugnato era del tutto carente in merito al punto
evidenziato nel motivo precedente.
5. Il primo ed il secondo motivo, che in quanto connessi sono trattati
congiuntamente, devono essere respinti essendo inidonei a
validamente censurare la decisione impugnata.
L’assunto dal quale muove parte ricorrente, e cioè l’avere la sentenza
impugnata trascurato di pronunciare in merito alla dedotta esistenza di
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4.10. Con l’undicesimo motivo si deduce la violazione e falsa

un obbligo di carattere generale dell’ente datore, di provvedere al
lavaggio delle tute, a prescindere dalla configurabilità delle stesse quali
DPI è inesatto; la sentenza impugnata, infatti, dopo avere dato
espressamente atto che l’appellante si era doluto del non corretto
inquadramento della questione controversa, sotto il profilo della

verifica della esistenza di un obbligo di carattere generale del datore di
lavoro, di mantenere a dovere gli abiti da lavoro in quanto tali ed a
prescindere quindi dalla loro natura di DPI, ha escluso la esistenza di
siffatto obbligo di carattere generale affermando che lo stesso era
ipotizzabile solo ove gli indumenti forniti potevano essere configurati
come DPI perché solo in tal caso sorgerebbe in capo
all’amministrazione l’obbligo di tenere indenni i lavoratori dai costi e
dai disagi del loro frequente lavaggio. La questione che parte ricorrente
assume non considerata risulta, quindi, al contrario di quanto
sostenuto in ricorso, espressamente esaminata e decisa nel merito in
senso sfavorevole alla tesi attorea.
5.1. La correttezza della decisione in ordine alla insussistenza di un
generale obbligo per il datore di lavoro di provvedere alla
manutenzione ed al lavaggio degli indumenti ( ove questi, pur non
costituendo DPI, per le peculiari caratteristiche dell’attività lavorativa,
fossero soggetti a sporcarsi di frequente ) non contrasta, al contrario di
quanto assume parte ricorrente, con la giurisprudenza di questa Corte
richiamata nella illustrazione delle censure. Invero tali precedenti
concernono espressamente ipotesi nelle quali gli indumenti in relazione
ai quali è stata affermato l’obbligo datoriale di provvedere alla
manutenzione costituivano DPI . In particolare, si legge nella sentenza
n.18573 del 2007, richiamata da parte ricorrente come espressione di
indirizzo consolidato del giudice di legittimità : “L’idoneità degli
indumenti di protezione che il datore di lavoro deve mettere a
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A

disposizione dei lavoratori – a norma del D.P.R. n. 547 del 1955, art.
379 fino alla data di entrata in vigore del D.Lgs. n. 626 del 1994 e ai
sensi degli art. 40, 43, commi 3 e 4, di tale decreto, per il periodo
successivo – deve sussistere non solo nel momento della consegna
degli indumenti stessi, ma anche durante l’intero periodo di esecuzione

della prestazione lavorativa. Le norme suindicate, infatti, finalizzate alla
tutela della salute quale oggetto di autonomo diritto primario assoluto
(art. 32 cost.), solo nel suddetto modo conseguono il loro specifico
scopo che, nella concreta fattispecie, è quello di prevenire l’insorgenza
e il diffondersi d’infezioni. Ne consegue che, essendo il lavaggio
indispensabile per mantenere gli indumenti in stato di efficienza, esso
non può non essere a carico del datore di lavoro, quale destinatario
dell’obbligo previsto dalle citate disposizioni.” (Cass., 5 novembre 1998
n. 11139; 14 novembre 2005 n. 22929; 26 giugno 2006 n. 14712; 13
ottobre 2006 n. 22049).”
5.3.Esclusa la esistenza di un obbligo generale della parte datoriale di
provvedere, anche al di fuori dell’ipotesi contemplata dal d. lgs n. 626
del 1994, alla fornitura e manutenzione degli indumenti da lavoro,
diviene irrilevante il richiamo di parte ricorrente, richiamo invero
generico, al notorio rappresentato dal fatto che, secondo la comune
esperienza, i lavoratori addetti ad un certo tipo di lavoro si imbrattano
giornalmente con un tipo di sporco che richiede un lavaggio
particolare. Tale circostanza risulta infatti inidonea a fondare di per sé
l’obbligo datoriale a provvedere al lavaggio degli indumenti.
6. Il terzo ed il quarto motivo, con i quali viene censurato, in sintesi, il
mancato riconoscimento della natura e finalità di DPI, alle tute
fornite dal Comune, sono anch’essi infondati.
6.1. La Corte territoriale ha escluso che le tute in questione
costituissero dispositivi individuali di protezione, ai sensi degli artt. 40
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A

e 41 d. lgs n. 626 del 1994, sulla base di una duplice considerazione: le
caratteristiche intrinseche degli indumenti (tute di stoffa) che li
rendevano inidonei a svolgere una funzione di protezione della salute
del lavoratore da rischi specifici dell’ambiente di lavoro ed in
particolare dal contatto con sostanze nocive; la prospettazione, in

dette sostanze.
6.2. In merito al primo profilo il giudice d’appello è partito dal
necessario accertamento se le tute distribuite ai lavoratori, anche se a
cadenze assolutamente insufficienti, quelle monouso e quelle di stoffa,
potessero essere considerate DPI (dispositivi di protezione individuale)
ai sensi della normativa in vigore, ciò in quanto si evince dallo stesso
ricorso e dalla ricostruzione della vicenda processuale che
l’assimilazione tra le tute in parola e i veri e propri DPI sia stato
sempre argomento centrale della tesi di parte ricorrente in quanto la
normativa sui DPI- proprio in relazione alle lavorazioni cui era addetto
il lavoratore- vuole dare concretezza e specificazione alle norme di
ordine generale ed astratto come l’art. 32 della Cost. e l’art. 2087 c.c.
La Corte territoriale correttamente rileva che se le tute fornite dal
datore di lavoro Comune di Napoli si dovessero considerare DPI,
allora non vi sarebbe alcun dubbio del connesso obbligo per il
Comune di tenere indenni i lavoratori dai costi e dai disagi del loro
frequente lavaggio. Ora la Corte di appello rileva che ai sensi dell’art.
40 L. Igs. n. 626/66 è DPI “qualsiasi attrezzatura destinata ad essere
indossata e tenuta dal lavoratore allo scopo di proteggere contro uno
o più rischi suscettibili di minacciarne la sicurezza o la salute durante il
lavoro, nonché ogni complemento o accessorio destinato a tale scopo”
e non sono invece DPI “gli indumenti di lavoro ordinari e le uniformi
non specificamente destinati a proteggere la sicurezza e la salute del
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domanda solo di una generica possibilità di venire in contatto con le

lavoratore”; l’ art. 42 precisa che i DPI devono essere adeguati ai rischi

da prevenire, alle condizioni esistenti sul luogo di lavoro e tenere conto
delle esigenze ergonomiche o di salute del lavoratore e devono poter
essere adattati all’utilizzatore secondo le sue necessità, mentre all’art. 43
si precisano gli obblighi di corretta fornitura dei DPI anche in ordine al

ha poi ricordato che la circolare n. 34 del 29.4. 1999 ( allegato 17)
precisa che gli indumenti di lavoro possono avere tre funzioni: a) di
divisa cioè di identificazione aziendale; b) di mera preservazione degli
abiti civili dalla ordinaria usura connessa all’espletamento dell’attività
lavorativa; c) di protezione da rischi per la salute e sicurezza e che solo
in quest’ultimo caso gli indumenti rientrano tra i DPI (a titolo
esemplificativo gli indumenti per evitare il contagio con sostanze
nocive, tossiche, corrosive o con agenti biologici).
6.3. Date queste premesse normative la Corte territoriale ha
logicamente concluso che le tute fornite ai lavoratori dal Comune di
Napoli non potevano essere ritenute DPI per le loro caratteristiche di
capi comuni di abbigliamento ( tute di stoffa) e la loro funzione di
vestizione in quanto strumentali al solo scopo di mera preservazione
degli abiti civili dell’attuale ricorrente dalla ordinaria usura connessa
all’espletamento dell’attività lavorativa.
Discorso da farsi anche per le tute di lavoro monouso in tjvek. La
Corte territoriale ha rilevato che proprio il lavoratore aveva allegato e
ribadito che le tute monouso erano non traspiranti e permeabili ai
liquidi e quindi inidonee e che quelle di stoffa si sporcavano
facilmente sicché entrambe i generi di indumenti di lavoro non
realizzavano alcuna significativa tutela rispetto ai rischi specifici cui il
lavoratore era- a suo dire- esposto. Le caratteristiche e la tipologie di
tali indumenti escludono che gli stessi possano essere considerati DPI
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loro mantenimento in stato di efficienza ed igiene. La Corte di appello

alla luce della normativa in vigore, non possedendo la funzionalità
tipica dei DPI e cioè un’ adeguata protezione dai rischi di contatto con
sostanze nocive (per lavorazioni come quelle cui era addetto il
ricorrente) essendo stati forniti solo per preservare gli abiti civili
dall’usura connessa all’espletamento dell’attività lavorativa. Si tratta di

congruamente ed ancorato ad elementi desunti dalla stesse
prospettazioni di parte ricorrente e quindi insindacabile come tale in
questa sede, che porta ad escludere in radice non solo la dedotta
assimilazione tra le tute fornite al dipendente del Comune di Napoli e i
DPI, ma anche ogni nesso tra la tutela della salute e dell’igiene del
dipendente ex art. 32 Cost. ed ex art. 2087 c.c. e la domanda formulata
in questa sede processuale.
6.4. Sotto quest’ultimo profilo è da sottolineare che la Corte di appello
ha affermato che per la sussistenza dell’obbligo di assegnare a ciascun
dipendente i DPI, costituiscono elementi essenziali l’entità del rischio,
la frequenza di esposizione, le caratteristiche del posto di lavoro del
singolo dipendente. I ricorsi degli attuali appellanti si basano,invece, su
una generica possibilità di venire in contatto con sostanze nocive, dato
certamente inidoneo a connotare gli indumenti forniti quali DPI. Con
quest’ultima affermazione, il giudice di appello ha dimostrato di
ritenere le allegazioni di cui in ricorso inidonee, per la loro genericità,
a configurare, anche ove provate, la sussistenza di una concreta
situazione di rischio per la salute del lavoratore tale da imporre alla
parte datoriale il ricorso a dispositivi di protezione individuale.
La valutazione di inadeguatezza e genericità delle allegazioni attoree
a configurare una situazione di rischio dell’ambiente lavorativo tale da
imporre l’ adozione di DPI, non risulta specificamente contrastata
dall’odierno ricorrente, il quale nulla deduce in ordine alla eventuale
Ric. 2011 n. 15732 sez. ML – ud. 15-04-2014
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un accertamento di natura squisitamente fattuale motivato

incongruità o illogicità di tale valutazione, al fine di sollecitare il
sindacato di legittimità sulla stessa.
6.5 . Parte ricorrente a sostegno dell’assunto della finalità di DPI delle
tute fornite dal Comune richiama la perizia della RM Consulting e la
relazione Asl di Milano . Il riferimento a tali atti, è formulato in

appello in merito alle assenza nelle tute fornite delle caratteristiche
proprie dei dispositivi individuali di protezione, oggetto dell’obbligo di
sicurezza datoriale. Questa Corte ha chiarito che “Il controllo della
congruità e logicità della motivazione, al fine del sindacato di
legittimità su un apprezzamento di fatto del giudice di merito, postula
la specificazione da parte del ricorrente – se necessario, attraverso la
trascrizione integrale nel ricorso – della risultanza (parte di un
documento, di un accertamento del consulente tecnico, di una
deposizione testimoniale, di una dichiarazione di controparte, ecc.) che
egli assume decisiva e non valutata o insufficientemente valutata dal
giudice, perché solo tale specificazione consente al giudice di legittimità
– cui è precluso, salva la denuncia di “error in procedendo”, l’ esame
diretto dei fatti di causa – di deliberare la decisività della risultanza non
valutata, con la conseguenza che deve ritenersi inidoneo allo scopo il
ricorso con cui, nel denunciare l’ omessa valutazione da parte del
giudice di merito di una circostanza decisiva, ci si limiti a rinviare alla
prospettazione fatta negli atti di causa” ( Cass. n. 6679 del 2006) ..
Parte ricorrente non ha osservato gli oneri prescritti al fine della valida
censura dell’accertamento di fatto del giudice di merito . Non ha, in
primo luogo, in violazione del disposto dell’art. 366 cod. proc. civ. ,
specificato il luogo processuale in cui risultavano prodotti i documenti
menzionati né ha trascritto il relativo contenuto e, soprattutto, non ha

Ric. 2011 n. 15732 sez. ML – ud. 15-04-2014
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termini inadeguati a incidere sull’accertamento di fatto del giudice di

indicato quali erano le circostanze emergenti da tali documenti , aventi
carattere di decisività, trascurate dal giudice di merito.
Il terzo e quarto motivo vanno quindi respinti.
7. Il quinto, il sesto, il settimo e l’ottavo motivo di ricorso, trattati
congiuntamente in quanto tutti attinenti al tema dell’onere della prova,

7.1.La tesi di parte ricorrente è che sul Comune ricadeva l’onere di
provare che l’attività espletata dal lavoratore non esigeva l’adozione di
DPI e quindi l’assenza di rischio, mentre il lavoratore era tenuto
esclusivamente a provare le mansioni svolte ed il contatto con sostanze
nocive ; censura quindi che la Corte territoriale non abbia motivato in
ordine alla questione relativa all’onere della prova che assume sollevata
con il ricorso in appello.
7.2. Si premette che, come correttamente rilevato dalla Corte d’appello,
oggetto della domanda era l’accertamento dell’obbligo per il Comune
di fornire le tute prima indicate e comunque di tenerle pulite e, in linea
subordinata, di risarcire il dipendente dalle spese sostenute di lavaggio
delle tute, questione completamente estranea al tema della tutela della
salute e dell’igiene nel luogo di lavoro ex art. 32 della Cost. ed ex art.
2087 c.c., posto che le prima ricordate tute non erano fornite a tale
scopo, ma solo per preservare gli abiti civili dall’usura dovuta all’attività
lavorativa svolta.
La domanda non concerneva quindi, in prima battuta, la fornitura di
DPI ove necessario al fine di salvaguardare i beni costituzionalmente
protetti prima ricordati, ma riguardava direttamente il tipo di tute
distribuite (saltuariamente, a stare alla prospettazione di parte
ricorrente) dal Comune di Napoli, non altre vestizioni o altro tipo di
protezione.

Ric. 2011 n. 15732 sez. ML – ud. 15-04-2014
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sono anche essi infondati.

7.3 .E’ in relazione a tale articolazione della originaria domanda che
deve quindi essere verificato il rispetto della regola sulla distribuzione
dell’onere probatorio.
La Corte territoriale, nel confermare la decisione di primo grado che
aveva rigettato la domanda del lavoratore, ha implicitamente posto a

dell’ente datore di fornire e provvedere alla manutenzione delle tute,
dalla cui pretesa violazione scaturisce la pretesa risarcitoria azionata
nel presente giudizio.
7.4.11 criterio applicato dalla Corte di merito risulta coerente con il
canone di cui all’art. 2697 cod. civ. secondo il quale “Chi vuol far
valere un diritto in giudizio deve provare i fatti che ne costituiscono il
fondamento”. Per completezza di esposizione può soggiungersi che la
regola di cui all’art. 2697 cod. civ. in tema di responsabilità datoriale,
ove dedotta la violazione del disposto dell’art. 2087 cod . civ., richiede,
secondo la consolidata giurisprudenza di questa Corte, comunque
l’adeguata allegazione prima ancora che la prova da parte del lavoratore
del danno sofferto e del nesso causale tra detto pregiudizio e le
caratteristiche di nocività dell’ambiente di lavoro e solo se il lavoratore
abbia fornito la prova di tali circostanze sussiste per il datore di lavoro
l’onere di provare di avere adottato tutte le cautele necessarie ad
impedire il verificarsi del danno ( exp/urimis : Cass. n. 2038 del 2013) .
7.5. Parte ricorrente si è sottratta agli oneri sopra delineati, secondo
quanto ritenuto, con affermazione non specificamente contrastata in
ricorso, dalla Corte di merito in ordine alla genericità di prospettazione
con riferimento al possibile contatto con sostanze nocive.
8. L’accertata insussistenza dell’obbligo – legale o contrattuale – per il
Comune di Napoli di provvedere al lavaggio delle tute assorbe le
censure formulate con il nono e decimo motivo, attinenti al mancato
Ric. 2011 n. 15732 sez. ML – ud. 15-04-2014
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carico di quest’ultimo l’onere di provare la sussistenza dell’obbligo

accoglimento della domanda di risarcimento del danno, patrimoniale e
non patrimoniale, attesa la inconfigurabilità di un danno risarcibile
laddove non sia ipotizzabile un inadempimento datoriale .
9. L’undicesimo e dodicesimo motivo con i quali viene censurata sotto
il profilo della violazione di legge e del vizio di motivazione la mancata

infondati.
9.1. Questa Corte ha chiarito che “Quando sia denunziato, con il
ricorso per cassazione, un vizio di motivazione della sentenza sotto il
profilo della mancata ammissione di un mezzo istruttorio, è necessario
che il ricorrente non si limiti a censure generiche di erroneità e/o di
inadeguatezza della motivazione, ma precisi e specifichi, svolgendo
critiche concrete e puntuali, seppure sintetiche, le risultanze e gli
elementi di giudizio dei quali lamenta la mancata acquisizione,
evidenziando altresì in cosa consistesse e con quali finalità e in quali
termini la richiesta fosse stata formulata. Più in particolare, ove trattisi
di una prova per testi, è onere del ricorrente, in virtù del principio di
autosufficienza del ricorso per cassazione, indicare specificamente le
circostanze concrete che formavano oggetto della prova, quale ne
fosse la rilevanza, e a quale titolo i soggetti chiamati a rispondere su di
esse potessero esserne a conoscenza, atteso che il controllo deve essere
consentito alla Corte di cassazione sulla base delle deduzioni contenute
nell’atto, alle cui lacune non è possibile sopperire con indagini
integrative. ( Cass. n. 9290 del 2004Cass. n. 5479 del 2006 , n. 10357
del 2005) e che “In materia di consulenza tecnica d’ufficio la decisione
del giudice di merito che ne esclude l’ ammissione non è sindacabile in
sede di legittimità, posto che compete al giudice del merito
l’apprezzamento delle circostanze che consentano di escludere che il
relativo espletamento possa condurre ai risultati perseguiti dalla parte
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ammissione di mezzi istruttori articolati in ricorso, sono entrambi

istante, sulla quale incombe pertanto l’onere di offrire gli elementi di
valutazione.” ( Cass. n. 26264 del 2005).
9.2. Parte ricorrente si è sottratta agli oneri, sopra delineati, su di essa
ricadenti al fine della valida censura della mancata ammissione dei
mezzi istruttori e del mancato espletamento della consulenza tecnica

istruttorie di prime cure ed in particolare i capitoli in relazione à quali
era stata formulata la richiesta di prova orale, nel censurare la mancata
ammissione della stessa, si è limitata a dedurne, in maniera assertiva, la
rilevanza . Non ha in alcun modo argomentato sulle ragioni dello
specifico rilievo delle circostanze oggetto di prova alla luce degli
elementi in atti né ha specificato quale fatto, avente carattere di
decisività, essa era destinata a dimostrare; . Analoga genericità si rileva
in relazione alla denunzia di mancata ammissione della c.t.u.
dovendosi, anzi, evidenziare che alla stregua delle medesime
prospettazioni del ricorrente alla stessa era demandata la verifica di
circostanze che avrebbero dovuto costituire prima oggetto di puntuale
allegazione. Invero, secondo la consolidata giurisprudenza di questa
Corte, la consulenza tecnica d’ ufficio non costituisce un mezzo
istruttorio in senso proprio, avendo la finalità di coadiuvare il giudice
nella valutazione di elementi acquisiti o nella soluzione di questioni che
necessitino di specifiche conoscenze ; in conseguenza suddetto mezzo
di indagine non può essere utilizzato al fine di esonerare la parte dal
fornire la prova di quanto assume, ed è quindi legittimamente negata
qualora la parte tenda con essa a supplire alla deficienza delle proprie
allegazioni o offerte di prova, ovvero di compiere una indagine
esplorativa alla ricerca di elementi, fatti o circostanze non provati.
(Principio affermato ai sensi dell’art. 360 bis, primo comma, cod. proc.
civ. da Cass. ord. n. 3130 del 2011). Nel caso di specie, invece, la
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d’ufficio; pur avendo, infatti, riprodotto in ricorso le richieste

consulenza tecnica d’ufficio era destinata a supplire alla carenza e
genericità di allegazione in ordine all’esposizione al rischio del
lavoratore, secondo quanto accertato dal giudice di appello, con
affermazione rimasta incontestata ( v. sub 6.4.).
10. Il tredicesimo ed il quattordicesimo motivo con i quali è

motivazione l’omesso esame della domanda subordinata , intesa
all’accertamento dell’obbligo del Comune a provvedere al lavaggio
delle tute di stoffa, siano esse considerate DPI o come meri abiti da
lavoro, non si confrontano con le ragioni a base del decisum del giudice
di appello. La Corte territoriale, infatti, ha espressamente valutato
l’obbligo datoriale di provvedere al lavaggio tute sia con riferimento
alla configurabilità delle stesse come DPI sia con riferimento alla
configurabilità come meri abiti da lavoro ed escluso, con riguardo a
quest’ultimo profilo, la sussistenza dello stesso in difetto di previsione
contrattuale collettiva in tal senso, circostanza quest’ultima non
investita da censura alcuna.
La sentenza impugnata deve essere pertanto confermata.
Le spese, liquidate come da dispositivo, seguono la soccombenza.
P. Q. M.
La Corte rigetta il ricorso. Condanna il ricorrente alla rifusione delle
spese che liquida in Euro 100,00 per esborsi e in € 1.500,00 per
compensi professionali, oltre accessori di legge.
Roma, 15 aprile 2014

denunziato, sotto il profilo della violazione di legge e del vizio di

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