Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 14961 del 22/06/2010

Cassazione civile sez. trib., 22/06/2010, (ud. 09/02/2010, dep. 22/06/2010), n.14961

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. PLENTEDA Donato – Presidente –

Dott. SOTGIU Simonetta – Consigliere –

Dott. PERSICO Mariaida – Consigliere –

Dott. DI DOMENICO Vincenzo – Consigliere –

Dott. BISOGNI Giacinto – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso proposto da:

Ministero dell’Economia e delle Finanze e Agenzia delle Entrate,

rappresentati e difesi dall’Avvocatura dello Stato e domiciliati

presso i suoi uffici in Roma via dei Portoghesi n. 12;

– ricorrenti –

contro

“STUDIO ASSOCIATO PROF. VITO PANSADORO”, in persona del legale

rappresentante pro tempore, prof. P.V., con sede in

(OMISSIS), elettivamente domiciliato in Roma, Viale Regina 2010

Margherita nn. 262/264, presso lo studio dell’avvocato D’ANDRIA

Cataldo che lo rappresenta e difende per mandato a margine del

controricorso;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 68/05/02 della Commissione tributaria

regionale di Roma, emessa il 1 luglio 2002, depositata il 9 luglio

2002, R.G. 4752/01;

udita la relazione della causa svolta all’udienza del 9 febbraio 2010

dal Consigliere Dott. Giacinto Bisogni;

udito l’Avvocato Alessia Urbani Neri per i ricorrenti;

udito l’Avvocato Cataldo D’Andria per il controricorrente;

udito il P.M., in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. DE

NUNZIO Wladimiro, che ha concluso per l’accoglimento del ricorso.

 

Fatto

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

Con quattro distinti avvisi di accertamento l’Ufficio distrettuale delle Imposte Dirette di Roma rettificava il reddito di partecipazione dichiarato, per gli anni dal 1988 al 1991, dallo “Studio associato prof. Vito Pansadoro”, operante nel campo dell’urologia e oncologia. L’accertamento si basava su un processo verbale della Guardia di Finanza del 1993 che aveva portato a contestare i reali rapporti intercorrenti fra lo Studio associato Vito Pansadoro e la Fondazione Vito Pansadoro, regolati da un contratto d’uso di apparecchiature, datato (OMISSIS), con il quale la Fondazione cedeva in uso allo Studio tutti i beni indicati in un allegato, soggetto a periodico aggiornamento, verso il corrispettivo mensile di L. 50.000.000, comprensivo di I.V.A.. In base alla verifica della Guardia di Finanza tale meccanismo di regolazione dei rapporti, secondo l’Amministrazione finanziaria, avrebbe consentito allo Studio: a) l’omessa contabilizzazione e dichiarazione di maggiori ricavi pari ad interessi maturati su finanziamenti concessi dallo Studio associato alla Fondazione omonima; b) l’indebita deduzione di costi dal reddito dello Studio, pari alla differenza fra i canoni di noleggio dei macchinari e i canoni di leasing pagati dalla Fondazione a terzi per l’utilizzazione dei macchinari concessi in uso allo Studio. Tale differenza veniva considerata dalla Amministrazione Finanziaria come un finanziamento a favore della Fondazione non deducibile perchè rappresentante un costo non inerente all’attività professionale associata.

L’associazione professionale impugnava con quattro distinti ricorsi gli avvisi di accertamento e deduceva in particolare che i costi dovevano ritenersi congrui perchè oltre ai beni indicati nel contratto le parti si erano accordate per la messa a disposizione degli immobili (condotti in locazione dalla Fondazione) in cui si svolgeva l’attività dello Studio, delle attrezzature necessarie al lavoro medico, del “know how” relativo a tali attrezzature, della banca dati scientifica della fondazione.

La C.T.P. di Roma respingeva i ricorsi riuniti.

La C.T.R. accoglieva invece l’appello.

Proponevano ricorso per cassazione l’Agenzia delle Entrate e il Ministero dell’Economia e delle Finanze deducendo fra l’altro che la CTR: a) aveva male inteso e applicato il principio dell’insindacabilità delle scelte imprenditoriali finendo per omettere la valutazione di inerenza e congruità dei costi; b) aveva ritenuto provato, senza una motivazione adeguata, il contratto verbale d’uso relativo agli immobili e agli altri beni non compresi nel contratto del 1987; c) aveva ritenuto illegittimo perchè fondato su mere presunzioni l’accertamento che invece era basato sul contratto scritto del 1987, sul contratto di locazione di cui era beneficiaria la Fondazione e che prevedeva il divieto di sublocazione; d) sul riscontro testuale delle fatture emesse dallo Studio per le prestazioni extra-contratto che, per la loro genericità, non consentivano l’individuazione della natura, qualità e quantità dei beni ceduti in uso.

La Corte di Cassazione, con sentenza 5857/01, accoglieva il ricorso relativamente ai punti sopra riportati. Rilevava in particolare che l’accertamento dell’Amministrazione finanziaria si era fondato su fatti e riscontri documentali certi; a fronte dei quali il contribuente avrebbe dovuto provare l’esistenza del contratto verbale con il limite dell’osservanza del divieto di prova testimoniale (artt. 2722, 2723 c.c. e del D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 7, comma 4,) e mediante la produzione di documenti dal contenuto inequivoco che attestassero specificamente l’inerenza degli esborsi all’attività dello Studio.

L’Associazione ha riassunto nei confronti dell’Agenzia delle Entrate il giudizio di cassazione davanti la C.T.R. del Lazio deducendo la favorevole conclusione del giudizio penale instaurato per gli stessi fatti, a carico di P.V., conclusosi con sentenza di assoluzione perchè il fatto non sussiste, e ha allegato gli atti documentali del processo rilevando come sia la prova per testi che la perizia, svolte nel suo corso, avevano consentito di accertare l’esistenza del contestato contratto verbale d’uso.

La C.T.R. ha accolto il ricorso in riassunzione del contribuente ritenendo decisive le risultanze del processo penale che, secondo la C.T.R., consentono di far ritenere provate le circostanze dedotte dal contribuente durante tutto il procedimento tributario.

Ricorre per cassazione il Ministero dell’Economia e delle Finanze, unitamente all’Agenzia delle Entrate, con un unico motivo di ricorso con il quale si deduce la violazione e falsa applicazione degli artt. 383 e 384 cod. proc. civ., art. 392 cod. proc. civ., e seguenti, del D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 7, degli artt. 2967, 2721 e 2723 c.c., la motivazione falsa e apparente nonchè la violazione dei principi di diritto fissati dalla Corte di Cassazione.

L’Associazione si difende con controricorso in cui oltre a contestare la fondatezza del ricorso ne eccepisce la tardività e deposita memoria ex art. 378 c.p.c..

Diritto

MOTIVI DELLA DECISIONE

Preliminarmente va rilevata l’infondatezza dell’eccezione di inammissibilità del ricorso per intempestività della sua proposizione. Alla controversia si applica infatti la sospensione correlata alla disciplina sul condono. Come ha recentemente ribadito (con sentenza n. 26863 del 21 dicembre 2009) questa sezione della Corte di Cassazione, in tema di condono fiscale, l’ultimo periodo della L. n. 289 del 2002, art. 16, comma 3, lett. a), nella parte in cui prevede che “si intende, comunque, pendente la lite per la quale alla data del 29 settembre 2002, non sia intervenuta sentenza passata in giudicato”, va interpretato nel senso che i contribuenti possano usufruire della sospensione dei termini, fino all’1 giugno 2004, per la proposizione di ricorsi, appelli etc., prevista dal comma 6 del medesimo articolo 16, purchè alla data del 29 settembre 2002 la sentenza, relativa a controversia suscettibile di definizione agevolata non sia ancora passata in giudicato, a nulla rilevando che detta decisione sia poi divenuta definitiva prima dell’1 gennaio 2003, data di entrata in vigore della L. n. 289 del 2002.

Con l’unico motivo di ricorso le Amministrazioni ricorrenti lamentano che la C.T.R. non ha tenuto conto dei principi di diritto fissati dalla Corte di Cassazione in quanto ha ritenuto rilevante quanto acclarato dal giudice penale senza considerare però che la decisione del giudice penale si era basata, a sua volta, su deposizioni testimoniali come tali non utilizzabili nel processo tributario.

Il ricorso è infondato.

In primo luogo va considerata erronea, o quanto meno impropria, la deduzione delle amministrazioni ricorrenti secondo cui la Corte di Cassazione nell’affermare che l’onere probatorio dell’inerenza dei costi portati in deduzione grava sul contribuente (primo principio di diritto) ha anche sottolineato come tale onere probatorio deve essere assolto entro limiti ben precisi (secondo principio di diritto). Così come è errata la ulteriore deduzione secondo cui, se la CTR avesse correttamente esaminato gli atti, si sarebbe resa conto che la decisione del giudice penale era stata resa unicamente sulla base delle prove testimoniali nonchè della perizia d’ufficio redatta dal C.T.U. e, quindi, in ossequio al secondo principio di diritto fissato dalla Corte di Cassazione, avrebbe dovuto negarne efficacia probatoria.

Sembra opportuno rimarcare come la Corte di Cassazione non poteva, evidentemente, fissare nella presente controversia dei limiti probatori ulteriori rispetto a quelli esistenti in base alla legge. Pertanto il richiamo, contenuto nella sentenza della Corte, al rilevante aggravamento dell’onere probatorio dello studio in ordine all’esistenza del contratto verbale d’uso, derivante sia dal limite generale alla prova testimoniale dei contratti che dallo speciale divieto a tale mezzo di prova nel processo tributario, non costituisce l’affermazione di un principio di diritto cui il giudice di rinvio veniva chiamato ad attenersi a seguito della pronuncia di cassazione. Immediatamente dopo, nel testo della motivazione della sentenza della Corte, si legge, infatti, che la motivazione è del tutto carente in quanto l’affermazione di esistenza del contratto orale di uso dei locali e della banca dati risulta del tutto apodittica in quanto non supportata, neppure per implicito, da alcuna ragione esplicativa.

Come le stesse ricorrenti rilevano, la condizione di legittimità di una decisione del giudice tributario motivata in riferimento a quella assunta in sede penale è che quest’ultima sia acquisita al processo e sia poi oggetto di autonoma valutazione da parte del giudice tributario secondo le regole di distribuzione dell’onere della prova nel giudizio tributario. In questo quadro di riferimenti giurisprudenziali, tracciato correttamente dalle ricorrenti, non trova spazio l’argomento sopra riportato per cui avvalorare una decisione penale basata su prove testimoniali costituisce indirettamente una violazione del divieto di assunzione di prove testimoniali nel processo tributario.

Il divieto di ammissione della prova testimoniale nel giudizio davanti alle commissioni tributarie, sancito dal D.Lgs. 31 dicembre 1992, n. 546, art. 4, comma 4, si riferisce alla prova testimoniale da assumere nel processo – che è necessariamente orale, di solito ad iniziativa di parte, richiede la formulazione di specifici capitoli, comporta il giuramento dei testi, e riveste, conseguentemente, un particolare valore probatorio -, e non implica, pertanto, l’inutilizzabilità, ai fini della decisione, delle dichiarazioni raccolte dall’Amministrazione nella fase procedimentale e rese da “terzi”, e cioè da soggetti terzi rispetto al rapporto tra il contribuente – parte e l’Erario. Tali informazioni testimoniali hanno il valore probatorio proprio degli elementi indiziar, e devono pertanto essere necessariamente supportate da riscontri oggettivi come chiarito dalla sentenza della Corte costituzionale n. 18 del 2000 (cfr. Cass. civ. , sez. 5^, n. 903 del 25 gennaio 2002). Inoltre va ribadito che, nel processo tributario, come è ammessa la possibilità che le dichiarazioni rese da terzi agli organi dell’Amministrazione finanziaria trovino ingresso, a carico del contribuente, – fermo il divieto di ammissione della “prova testimoniale” posto dal D.Lgs. 31 dicembre 1992, n. 546, art. 7 – con il valore probatorio “proprio degli elementi indiziari, i quali, mentre possono concorrere a formare il convincimento del giudice, non sono idonei a costituire, da soli, il fondamento della decisione” (Cass. civ., sez. 5^, n. 4269 del 25 marzo 2002). Secondo la stessa giurisprudenza va, del pari, necessariamente riconosciuto anche al contribuente lo stesso potere di introdurre dichiarazioni rese da terzi in sede extraprocessuale – beninteso, con il medesimo valore probatorio -, dando cosi concreta attuazione ai principi del giusto processo come riformulati nel nuovo testo dell’art. 111 Cost., per garantire il principio della parità delle armi processuali nonchè l’effettività del diritto di difesa (Cass. civ., sezione 5^, n. 4269 del 25 marzo 2002).

Per quanto concerne la consulenza tecnica d’ufficio va richiamata la giurisprudenza secondo cui, in tema di contenzioso tributario, il D.Lgs. 31 dicembre 1992, n. 546, art. 7, che prevede la possibile acquisizione d’ufficio di mezzi di prova, è norma eccezionale, la quale preclude al giudice di sopperire alle carenze istruttorie delle parti, sovvertendo i rispettivi oneri probatori in un processo a connotato tendenzialmente dispositivo (Cass. Civ. n. 18976 del 10 settembre 2007. In questi limiti va ritenuta legittima la valutazione compiuta dalla C.T.R. dei risultati della perizia svolta nel procedimento penale).

In conclusione sia le deposizioni testimoniali che le indagini peritali svolte nel processo penale potevano essere valutate come elementi di valore indiziario dalla C.T.R. così come, ovviamente, la decisione stessa del giudice penale poteva fornire – e almeno implicitamente ha fornito – elementi di valutazione al giudice del rinvio.

In generale, per quanto riguarda i rapporti fra giudicato penale e processo tributario è stato, anche recentissimamente (cfr. Cass. civ., Sez. 5^, n. 3724 del 27 febbraio 2010), chiarito che l’efficacia vincolante del giudicato penale non opera automaticamente nel processo tributario, poichè in questo, da un lato, vigono limitazioni della prova (come il divieto della prova testimoniale) e, dall’altro, possono valere anche presunzioni inidonee a supportare una pronuncia penale di condanna. Nessuna automatica autorità di cosa giudicata può quindi attribuirsi, nel separato giudizio tributario, alla sentenza penale irrevocabile, di condanna o di assoluzione, emessa in materia di reati tributari, ancorchè i fatti accertati in sede penale siano gli stessi per i quali l’Amministrazione finanziaria ha promosso l’accertamento nei confronti del contribuente. Ne consegue che il giudice tributario non può limitarsi a rilevare l’esistenza di una sentenza definitiva in materia di reati tributari, estendendone automaticamente gli effetti con riguardo all’azione accertatrice del singolo ufficio tributario, ma, nell’esercizio dei propri autonomi poteri di valutazione della condotta delle parti e del materiale probatorio acquisito agli atti (art. 116 cod. proc. civ.) deve, in ogni caso, verificarne la rilevanza nell’ambito specifico in cui esso è destinato ad operare.

Occorre dunque valutare se gli elementi probatori sui quali si è fondata la pronuncia del giudice penale abbiano costituito l’oggetto di una motivazione meramente per relationem o siano stati invece sottoposti a quell’esercizio dei propri autonomi poteri di valutazione richiesto dalla citata giurisprudenza di legittimità. Sostiene infatti la parte ricorrente che la motivazione della C.T.R. sia “meramente falsa e apparente, avendo omesso la C.T.R., in violazione allo specifico principio posto nella sentenza di annullamento con rinvio, di esaminare la questione preliminare relativa alla valenza attribuibile, nel giudizio tributario, alle prove testimoniali assunte in sede penale e di seguito, della efficacia probatoria della sentenza penale di assoluzione resa all’esito di prove testimoniali e di perizia. Alla luce di quanto esposto deriva altresì – sostengono le Amministrazioni ricorrenti – come alcuna efficacia probatoria possa attribuirsi alle circostanze di mero fatto valorizzate dalla C.T.R., in senso favorevole alla parte, in quanto tutte conseguenti, per stessa ammissione del contribuente alle affermazioni dei testi”. Le ricorrenti fanno notare altresì che la stessa C.T.R. ha indicato il nominativo dei testi in riferimento agli specifici punti ritenuti decisivi di cui infatti viene anche indicato il nominativo”.

Tale censura nei confronti della motivazione appare, oltre che generica, infondata. In primo luogo perchè non spettava alla C.T.R. esaminare quale valenza attribuire alle deposizioni testimoniali ma esclusivamente applicare le norme e i principi giurisprudenziali relativi all’assunzione delle prove nel processo tributario. Gli atti del procedimento penale che la C.T.R. si è trovata ad esaminare non possono essere isolati dal contesto probatorio già esistente e in particolare dal contratto scritto esistente fra le parti e dal contratto di locazione fra la Fondazione e la Casa di cura (OMISSIS). Quello che è emerso ulteriormente dal processo penale, specificamente dalle deposizioni del perito d’ufficio e del maggiore della Guardia di Finanza che aveva, a suo tempo, redatto il p.v.c., è stato l’uso da parte dello studio: a) dei locali condotti in locazione dalla Fondazione; b) di strumenti diagnostici sofisticati ulteriori rispetto a quelli indicati nell’allegato al contratto d’uso del 1987; c) dei dati scientifici della banca dati della Fondazione, frutto dell’attività di ricerca trasposta nel sistema informatico elaborato dalla società Seldat. Da queste circostanze la C.T.R. ha corroborato la convinzione dell’esistenza di reali rapporti economici fra la Fondazione e lo Studio consistenti nell’offerta di beni e servizi da parte della prima in cambio del pagamento di un corrispettivo mensile. Tale rapporto – che ovviamente va inquadrato nel quadro della riferibilità dell’attività dello Studio e della fondazione all’attività medica e scientifica del prof. P. – non appare illogico se rapportato all’esigenze di disporre di locali, attrezzature e cognizioni scientifiche, da parte dello Studio, e di disponibilità finanziaria, da parte della Fondazione, disponibilità da destinare all’acquisto e alla detenzione di tali beni e allo svolgimento dell’attività scientifica, che lo stesso maggiore C. ha qualificato di livello internazionale. Il costo portato in detrazione dall’associazione professionale è stato ritenuto inerente dalla C.T.R. sulla base di considerazioni logiche e conseguenti mentre quanto alla congruità dei costi la C.T.R. ha affermato che il costo dei beni e servizi appare commisurato al loro valore e all’alto grado di specializzazione professionale dei dati scientifici raccolti ed elaborati dalla banca dati della Fondazione. A fronte di tale valutazione, che non appare nè meramente apparente, nè illogica, le amministrazioni ricorrenti non hanno dedotto alcuno specifico motivo di contestazione indicando elementi probatori non valutati o tacitamente contraddetti dalla C.T.R.. Ogni ulteriore richiesta di valutazione nel merito va pertanto ritenuta inammissibile.

Il ricorso va pertanto respinto.

Sussistono giusti motivi, in considerazione della peculiarità della vicenda processuale e fattuale e degli esiti dei vari gradi di giudizio, per compensare le spese processuali del giudizio di cassazione.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso. Compensa interamente le spese del giudizio di cassazione.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio, il 9 febbraio 2010.

Depositato in Cancelleria il 22 giugno 2010

 

 

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