Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 14953 del 07/07/2011

Cassazione civile sez. un., 07/07/2011, (ud. 10/05/2011, dep. 07/07/2011), n.14953

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONI UNITE CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. VITTORIA Paolo – Primo Presidente f.f. –

Dott. ELEFANTE Antonio – Presidente di Sezione –

Dott. FELICETTI Francesco – Consigliere –

Dott. GOLDONI Umberto – Consigliere –

Dott. BUCCIANTE Ettore – rel. Consigliere –

Dott. SPIRITO Angelo – Consigliere –

Dott. PETITTI Stefano – Consigliere –

Dott. TIRELLI Francesco – Consigliere –

Dott. SAN GIORGIO Maria Rosaria – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso 26966-2006 proposto da:

R.R. ((OMISSIS)), P.M.,

R.A.M., G.A., elettivamente domiciliati

in ROMA, CORSO VITTORIO EMANUELE II 18, presso lo STUDIO GREZ,

rappresentati e difesi dagli avvocati BARSANTI CARLO, NARESE

CALOGERO, FRATI FRANCESCO, per delega a margine del ricorso;

– ricorrenti –

contro

RO.SI.;

– intimato –

sul ricorso 30502-2006 proposto da:

RO.SI. ((OMISSIS)), elettivamente domiciliato in

ROMA, VIA G. CARDUCCI 4, presso lo studio dell’avvocato TRAINA DUCCIO

M., che lo rappresenta e difende, per delega a margine del

controricorso e ricorso incidentale;

– controricorrente e ricorrente incidentale –

contro

R.R. ((OMISSIS)), P.M.,

R.A.M., G.A., elettivamente domiciliati

in ROMA, CORSO VITTORIO EMANUELE II 18, presso lo STUDIO GREZ,

rappresentati e difesi dagli avvocati BARSANTI CARLO, NARESE

CALOGERO, FRATI FRANCESCO, per delega a margine del controricorso al

ricorso incidentale;

– controricorrenti al ricorrente incidentale –

avverso la sentenza n. 785/2006 della CORTE D’APPELLO di FIRENZE,

depositata il 30/03/2006;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

10/05/2011 dal Consigliere Dott. ETTORE BUCCIANTE;

uditi gli avvocati Calogero NARESE, Duccio M. TRAINA;

udito il P.M. in persona dell’Avvocato Generale Dott. IANNELLI

Domenico, che ha concluso per il rigetto di entrambi i ricorsi.

Fatto

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

Con sentenza del 1 aprile 2003 il Tribunale di Lucca – adito da Ro.Si. e in via riconvenzionale subordinata da R. R., G.A., P.M. e R.A.M. – respinse la domanda che era stata proposta dall’attore, quale proprietario di un fabbricato in (OMISSIS), per ottenere la condanna dei convenuti all’arretramento di un loro limitrofo edificio fino alla distanza legale.

Impugnata in via principale da Ro.Si. e in via incidentale da R.R., G.A., P.M. e R.A.M., la decisione è stata riformata dalla Corte d’appello di Firenze, che con sentenza del 30 marzo 2006 ha accolto la domanda di Ro.Si. e ha rigettato la riconvenzionale.

Contro tale sentenza hanno proposto ricorso per cassazione R.R., G.A., P.M. e R.A.M., in base a quattro motivi. Ro.Si.

si è costituito con controricorso, formulando a sua volta un motivo di impugnazione in via incidentale, cui R.R., G.A., P.M. e R.A.M. hanno opposto un proprio controricorso. Sono state presentate memorie dall’una parte e dall’altra.

Diritto

MOTIVI DELLA DECISIONE

In quanto proposte contro la stessa sentenza, le due impugnazioni vengono riunite in un solo processo, in applicazione dell’art. 335 c.p.c..

Con i primi tre motivi del ricorso principale R.R., G.A., P.M. e R.A.M. lamentano di essere stati erroneamente condannati ad arretrare il proprio edificio fino alla distanza di 10 metri dall’altro.

Sostengono, gradatamente, che:

– la costruzione è conforme alle previsioni dell’art. 52 delle norme tecniche di attuazione del piano regolatore di Viareggio;

– tale disposizione non si discosta da quanto è prescritto dal D.M. 2 aprile 1968, n. 1444, art. 9, n. 2;

– quest’ultimo non è comunque applicabile nella specie.

In sede di merito è stato accertato, in fatto, che il fabbricato di Ro.Si. e quello di R.R., G.A., P.M. e R.A.M. distano dal confine, rispettivamente, 3,15 e 3,00 metri, salvo che in corrispondenza delle due finestre del primo edificio, da cui in quel tratto il secondo, costruito successivamente, si distacca fino a 10.04 metri, in modo da formare un “semicavedio”, come risulta dalla seguente planimetria, riprodotta nel controricorso e tratta dalla consulenza tecnica di ufficio, sulla cui corrispondenza alla situazione dei luoghi non vi è contrasto tra le parti. (vedi pdf).

La norma dello strumento urbanistico richiamata dai ricorrenti stabilisce: “In tutte le zone di P.R.G., la distanza minima fra le pareti finestrate dei nuovi edifici e quelle di edifici preesistenti antistanti, anche se cieche, è di mt. 10 … . La distanza minima di mt. 10 sopra indicata va sempre misurata ortogonalmente alle pareti finestrate, a partire dal primo spigolo della prima finestra …”.

Secondo R.R., G.A., P.M. e R.A.M. la loro costruzione è rispettosa di questa disposizione, la quale impone di osservare la distanza in questione con riferimento non all’intera parete, ma soltanto a quella sua porzione che sia dotata di finestre, come infatti ha ritenuto anche il Comune di Viareggio, nel rilasciare loro la concessione edilizia alla quale si sono conformati.

La tesi è fondata. La regola dettata a proposito del metodo di misurazione chiaramente implica, poichè altrimenti sarebbe priva di ogni concreto e specifico significato precettivo, che il distacco di 10 metri è prescritto soltanto per i tratti di parete compresi tra i limiti esterni della prima e dell’ultima finestra, mentre ne sono esonerati i segmenti ulteriori, in cui le facciate che si fronteggiano sono entrambe cieche. Non è quindi esatta l’interpretazione data dalla Corte d’appello dell’art. 52 delle norme tecniche di attuazione del piano regolatore di Viareggio, dovendosi ritenere che in effetti essa consente di costruire con le modalità attuate da R.R., G.A., P.M. e R.A.M..

A costoro tuttavia ciò non giova, poichè è sufficiente correggere la motivazione sul punto della sentenza impugnata, il cui dispositivo risulta comunque conforme al diritto.

Vanno infatti disattesi gli ulteriori assunti addotti a sostegno del ricorso principale.

Quello relativo all’affermata conformità del citato art. 52, inteso come sopra si è detto, al D.M. n. 1444, art. 9, n. 2 pone una questione di massima, la cui ritenuta particolare importanza ha dato luogo all’assegnazione di questa causa alle sezioni unite.

Si tratta di decidere se ai Comuni sia consentito disporre, come appunto ha fatto quello di Viareggio, che la distanza di 10 metri debba essere rispettata soltanto per quei tratti di parete che sono effettivamente dotati di finestre. Questa tesi è propugnata dai ricorrenti principali, i quali sostengono che è in facoltà degli enti locali deputati al governo del territorio, in considerazione dei particolari interessi urbanistici locali, attuare e integrare le previsioni della norma statale, la quale si limita a stabilire genericamente che nei nuovi edifici ricadenti in zone diverse dalla A) “è prescritta in tutti i casi la distanza minima assoluta di m.

10 tra pareti finestrate e pareti di edifici antistanti”, senza alcuna ulteriore specificazione.

In tali precisi termini, per quanto consta, la questione non è stata ancora affrontata da questa Corte, che con le sentenze 28 agosto 1991 n. 9207 e 22 luglio 2010 n. 17242 ha bensì ritenuto che il D.M., art. 9, n. 2 si riferisce all’intera parete e non solo alla sua zona dotata di finestre, ma con riguardo a regolamentazioni diverse da quella ora in considerazione: il piano regolatore di Massa, il quale semplicemente riproduceva le prescrizioni del decreto ministeriale, e il regolamento edilizio di Caserta, il quale fissava le distanze degli edifici di nuova costruzione dal confine anzichè dai fabbricati antistanti. Non vi era stata quindi ragione di prendere in considerazione la tesi secondo cui non sarebbe inibito ai Comuni precisare e concretizzare la nozione di “pareti finestrate”, limitandola in ipotesi ai soli tratti in cui almeno una delle facciate fronteggiantisi sia munita di aperture.

La questione va risolta nel senso che il decreto ministeriale non consenta l’adozione di regole di tal genere da parte dei Comuni, in quanto ne risulterebbe una disciplina contrastante con la lettera e lo scopo della norma di cui dovrebbe costituire l’attuazione. Questa esige in maniera assoluta l’osservanza di un distacco di almeno 10 metri per il caso di “pareti finestrate”, senza alcuna distinzione tra i settori di esse, secondo che siano o non dotati di finestre:

distinzione estranea al testo della norma, che si riferisce complessivamente alle “pareti” e non alle finestre. E’ destinata infatti a disciplinare le distanze tra le costruzioni e non tra queste e le vedute, in modo che sia assicurato un sufficiente spazio libero, che risulterebbe inadeguato se comprendesse soltanto quello direttamente antistante alle finestre in direzione ortogonale, con esclusione di quello laterale: ne conseguirebbe la facoltà per i Comuni di permettere edificazioni incongrue, con profili orizzontali dentati a rientranze e sporgenze, in corrispondenza rispettivamente dei tratti finestrati e di quelli ciechi delle facciate.

Nè si può aderire all’ulteriore tesi di R.R., G.A., P.M. e R.A.M., relativa alla non immediata efficacia nei rapporti tra privati e quindi all’inapplicabilità nella specie del D.M. n. 1444, in luogo delle norme tecniche di attuazione del piano regolatore.

La giurisprudenza di legittimità – dalla quale non vi sono ragioni per discostarsi, nè del resto i ricorrenti ne hanno indicata alcuna, essendosi limitati a richiamare precedenti non pertinenti, perchè relativi al caso di assenza di norme in materia di distanze nei regolamenti locali – si è univocamente orientata, sulla scorta della sentenza delle sezioni unite 1 luglio 1997 n. 5889, nel senso che il decreto ministeriale, in quanto emanato su delega dell’art. 41- quinquies inserito nella L. 17 agosto 1942, n. 1150, dalla L. 6 agosto 1967, n. 765, art. 17 ha efficacia di legge, sicchè le sue disposizioni in tema di limiti inderogabili di densità edilizia, di altezza e di distanza tra i fabbricati, cui i Comuni sono tenuti a conformarsi nella redazione o revisione dei loro strumenti urbanistici, prevalgono sulle contrastanti previsioni dei regolamenti locali successivi, alle quali si sostituiscono per inserzione automatica, con conseguente loro diretta operatività nei rapporti tra privati (v., tra le più recenti, le sentenze 19 novembre 2004 n. 21899, 30 marzo 2006 n. 7563, 11 febbraio 2008 n. 3199).

Il principio da enunciare è dunque: “L’art. 52 delle norme tecniche di attuazione del piano regolatore di Viareggio, che impone il rispetto della distanza minima di 10 metri tra pareti finestrate soltanto per i tratti di esse dotati di finestre, con esonero per quelli ciechi, contrasta con le prescrizioni del D.M. 2 aprile 1968, n. 1444, art. 9, n. 2 il quale prescrive l’osservanza di tale distacco con riferimento all’intera estensione della parete, sicchè va disapplicato e sostituito per inserzione automatica con la diversa previsione della norma statale, che è direttamente applicabile nei rapporti tra privati”.

Con il quarto motivo del ricorso principale R.R., G.A., P.M. e R.A.M. si dolgono del rigetto della loro domanda riconvenzionale subordinata di risarcimento di danni, formulata per il caso di accoglimento di quella dell’attore e basata sul presupposto che Ro.Si.

avesse realizzato illegittimamente il proprio fabbricato, su un lotto di estensione inferiore al minimo prescritto dal piano regolatore e a distanza minore di quella di 5 metri dal confine, implicitamente prescritta dal D.M. n. 1444, dando così causa alla ritenuta irregolarità dell’edificio poi costruito dai vicini: irregolarità che non sarebbe stata configurabile se egli in precedenza non avesse violato suddetti limiti.

Neppure questa censura può essere accolta, per l’assorbente ragione che la Corte d’appello, oltre a ritenere che la costruzione di Ro.Si. era stata ab initio pienamente legittima secondo la normativa vigente nel 1970, quando era stata realizzata, ha altresì osservato – e la decisione sul punto non è stata impugnata – che comunque il diritto a mantenerla così come edificata era stato ormai da lui usucapito, allorchè l’altro edificio è stato costruito. Il che correttamente è stato reputato preclusivo di ogni ragione di danno, stante il sopravvenuto venire meno dell’illecito in ipotesi ravvisabile nell’operato dello stesso Ro.Si., con conseguente cessazione anche del carattere di “permanenza” che i ricorrenti affermano doverglisi attribuire.

Con il motivo addotto a sostegno del ricorso incidentale viene lamentata la mancata pronuncia, da parte della Corte d’appello, in ordine alla domanda, formulata da Ro.Si. nei confronti di R.R., G.A., P.M. e R.A.M., di condanna all’arretramento del loro edificio fino a cinque metri dal confine, nella parte antistante all’area aperta posta lateralmente al fabbricato di Ro.Si..

La doglianza è fondata, poichè in effetti il giudice di secondo grado ha provveduto solo parzialmente sulla domanda dell’originario attore, riproposta anche in appello: l’ha accolta limitatamente a quella porzione dello stabile dei convenuti che fronteggia l’altro, mentre riguardava anche la sua prosecuzione in corrispondenza dello spazio libero de fondo confinante.

Non sussistono le condizioni perchè sul punto la causa possa essere decisa nel merito in questa sede, come il ricorrente incidentale ha chiesto.

Rigettato pertanto il ricorso principale e accolto l’incidentale, la sentenza impugnata va cassata in relazione alla censura accolta, con rinvio della causa ad altro giudice, che si designa nella Corte d’appello di Firenze in diversa composizione, cui viene anche rimessa la pronuncia sulle spese del giudizio di legittimità.

P.Q.M.

La Corte riunisce i ricorsi; rigetta il principale; accoglie l’incidentale; cassa la sentenza impugnata in relazione alla censura accolta; rinvia la causa alla Corte d’appello di Firenze in diversa composizione, cui rimette anche la pronuncia sulle spese del giudizio di legittimità.

Così deciso in Roma, il 10 maggio 2011.

Depositato in Cancelleria il 7 luglio 2011

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