Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 14928 del 06/07/2011

Cassazione civile sez. trib., 06/07/2011, (ud. 25/03/2011, dep. 06/07/2011), n.14928

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. PIVETTI Marco – Presidente –

Dott. DI IASI Camilla – rel. Consigliere –

Dott. CIRILLO Ettore – Consigliere –

Dott. BOTTA Raffaele – Consigliere –

Dott. OLIVIERI Stefano – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso 13261-2006 proposto da:

METAL PI SRL IN LIQUIDAZIONE in persona del Liquidatore e legale

rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliato in ROMA VIA

F.S. NITTI 11, presso lo studio dell’avvocato BERTUCCI BRUNO, che lo

rappresenta e difende unitamente all’avvocato MANIACI FAUSTO, giusta

delega a margine;

– ricorrente –

contro

AGENZIA DELLE ENTRATE;

– intimato –

avverso la sentenza n. 39/2005 della COMM. TRIB. REG. di MILANO,

depositata il 23/03/2005;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

25/03/2011 dal Consigliere Dott. CAMILLA DI IASI;

udito per il ricorrente l’Avvocato BERTUCCI, che si riporta agli

scritti;

udito per il resistente l’Avvocato ZERMAN, che ha chiesto il rigetto;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

BASILE Tommaso che ha concluso per l’inammissibilità e in subordine

rigetto del ricorso.

Fatto

IN FATTO E IN DIRITTO

1. La Metal PL s.r.l. in liquidazione propone ricorso per cassazione nei confronti dell’Agenzia delle Entrane (che non ha resistito) e avverso la sentenza con la quale, in controversia concernente impugnazione di avviso di rettifica Iva relativo all’anno 1995, la C.T.R. Lombardia riformava la sentenza di primo grado (che aveva accolto il ricorso della società affermando la nullità dell’avviso opposto per assoluta carenza di motivazione), rilevando, tra l’altro, che l’obbligo di motivazione può essere assolto anche per relationem a condizione che l’atto richiamato sia (come nella specie) a conoscenza del contribuente e che le circostanze dedotte dalla società per contestare i rilievi della G.d.F. non trovavano riscontro nella documentazione prodotta dalla medesima, posto che questa non era sufficiente a superare la presunzione di riferibilità dei prelievi bancari riscontrati ad operazioni imponibili e che, anzi, proprio tale documentazione forniva ulteriore conferma alle irregolarità concernenti l’autofatturazione e l’omessa registrazione.

2. Col primo motivo, deducendo violazione ed erronea applicazione del D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 58 la ricorrente censura la sentenza impugnata per avere i giudici della C.T.R. consentito la produzione del p.v.c. per la prima volta in appello da parte all’amministrazione, non costituita in primo grado.

La censura è infondata alla luce della giurisprudenza di questo giudice di legittimità, secondo la quale il D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 58, comma 2, fa salva la facoltà delle parti di produrre in appello nuovi documenti indipendentemente dalla impossibilità dell’interessato di produrli in prima istanza per causa a lui non imputabile, requisito, quest’ultimo, richiesto dall’art. 345 c.p.c., u.c. – come sostituito dalla L. n. 535 del 1990, art. 52 ma non dal citato art. 58, con la conseguenza che costituisce erronea applicazione della norma in parola l’affermazione secondo cui la produzione documentale nel giudizio d’appello risulta illegittima ove non sia stata provata l’impossibilità incolpevole di versarla agli atti del giudizio di primo grado (v. tra le altre cass. nn. 2027 del 2003, 3611 del 2006 e 16916 del 2005).

Alla stregua della giurisprudenza che precede, che non collega in alcun modo la producibilità di documenti in appello alla costituzione in primo grado della parte che li produce documenti o comunque ad una qualsivoglia pregressa condizione (processuale o meno) della medesima parte, ed in mancanza di una espressa disposizione in senso contrario, non può assumere alcuna rilevanza ai fini in esame la dedotta circostanza della mancata costituzione in primo grado, essendo peraltro da evidenziare che nel processo tributario, come in quello amministrativo, non esiste una vera e propria disciplina del processo contumaciale, onde la mancata costituzione si tradurrebbe secondo alcuni in una assenza di fatto, e che in ogni caso, anche a voler ritenere l’estensione di alcune norme previste per il contumace, nel rito civile la contumacia ha carattere neutro, non è, salvo espresse previsioni in senso contrario, paragonabile ad una fictio confessio, nè è “sanzionabile” in alcun modo, con la conseguenza che, nel rito civile come in quello tributario, l’omessa costituzione in primo grado non pregiudica in alcun modo le “potenzialità” della parte in appello.

Col secondo motivo, deducendo violazione ed erronea applicazione dell’art. 2697 c.c. e art. 115 c.p.c., la ricorrente censura la sentenza impugnata per avere i giudici d’appello deciso il merito assumendo a fondamento della decisione i rilievi contenuti nel p.v.c. della G.d.F., “così inammissibilmente invertendo in appello quell’onere della prova che i giudici di primo grado avevano, in assenza del predetto p.v.c., ritenuto correttamente assolto dal ricorrente”.

La censura è infondata.

Ai fini della interpretazione della censura medesima, giova innanzitutto evidenziare che la ricorrente non si duole che i giudici d’appello abbiano pronunciato oltre il devolutum e che, secondo quanto emergente dalla sentenza impugnata (non censurata sul punto), nelle controdeduzioni in appello la società aveva riproposto i motivi subordinati di impugnazione proposti nel ricorso introduttivo avverso l’avviso opposto, con la conseguenza che i giudici d’appello, una volta ritenuta l’insussistenza del difetto di motivazione dell’avviso opposto affermata dai primi giudici, ben potevano e dovevano pronunciarsi su tali motivi attinenti il merito della pretesa fiscale, all’uopo autonomamente valutando il materiale probatorio legittimamente acquisito in atti.

Tanto premesso, ciò di cui sembra dolersi la ricorrente altro non è dunque che l’effetto fisiologico della devoluzione in appello, la quale impone al giudice di secondo grado di rinnovare il giudizio sulla base delle prove legalmente acquisite (quindi anche sulla base del p.v.c., giusta quanto esposto in relazione all’esame del motivo che precede), senza che possa avere alcuna influenza in proposito una eventuale diversa decisione assunta sul punto dal primo giudice (decisione che dalla sentenza impugnata neppure risulta), salvo che non si sia formato un giudicato interno, circostanza esclusa dal contenuto della sentenza di primo grado e della relativa impugnazione, come riportati entrambi nella sentenza impugnata in questa sede (non censurata sul punto), e in ogni caso neppure dedotta dalla ricorrente, tantomeno in maniera autosufficiente.

Genericamente peraltro la ricorrente lamenta una sorta di “inversione dell’onere della prova”, ma non precisa quale fosse il fatto oggetto di prova, su quale soggetto gravava il relativo onere probatorio, a carico di quale altro soggetto i giudici d’appello avrebbero invece erroneamente fatto gravare il suddetto onere.

Col terzo motivo, deducendo violazione e falsa applicazione del D.P.R. n. 633 del 1972, art. 51 comma 2 oltre che vizio di motivazione, la ricorrente, in relazione al rilievo posto a base del secondo punto dell’accertamento impugnato (e concernente l’omessa fatturazione di operazioni imponibili rilevate attraverso il ricorso alla presunzione di cui al D.P.R. n. 633 del 1972, art. 51, comma 2), si duole che i giudici d’appello non abbiano ritenuto superata la presunzione di riferibilità dei riscontrati movimenti bancari ad operazioni imponibili, alla luce del bilancio della società allegato al p.v.c., dal quale emergerebbe che gli importi relativi a tali movimenti bancari erano da ritenersi compresi nella somma di L. 264.112.908 indicata nel suddetto bilancio alla voce “denaro e valori di cassa”.

Secondo la ricorrente i giudici d’appello avrebbero in proposito violato l’art. 51 citato, pretendendo un riscontro contabile diverso da quello esigibile a tenore della norma suddetta, e sarebbero incorsi in vizio di motivazione, posto che, a fronte della accertata capienza di cassa della disponibilità liquida riveniente dai prelevamenti dal conto, i suddetti giudici avrebbero dovuto verificare in concreto la eventuale difformità tra i singoli atti di gestione finanziaria e le registrazioni contabili. La censura è in parte infondata e in parte inammissibile.

Deve innanzitutto escludersi la denunciata violazione del D.P.R. n. 633 del 1972, art. 51, comma 2 posto che tale norma prevede che i dati ed elementi attinenti ai rapporti ed alle operazioni acquisiti e rilevati, tra l’altro, a norma del n. 7) del medesimo articolo, sono posti a base delle rettifiche e degli accertamenti … “se il contribuente non dimostra che ne ha tenuto conto nelle dichiarazioni o che non si riferiscono ad operazioni imponibili”, ma, ovviamente, non prevede in proposito una prova legale, con la conseguenza che ciascuna prova fornita dalla parte al fine di dimostrare che i suddetti dati ed elementi non si riferiscono ad operazioni imponibili può essere liberamente apprezzata dal giudice, considerato che l’art. 116 c.p.c. prescrive come regola di valutazione delle prove quella secondo cui il giudice deve valutarle secondo prudente apprezzamento, a meno che la legge non disponga altrimenti, essendo peraltro da rilevare che in questa sede non viene denunciata, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 4, violazione dell’art. 116 c.p.c., ed inoltre che l’eventuale erroneo esercizio del prudente apprezzamento della prova da parte del giudice è censurabile solo ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 5 (v. tra numerose altre cass. n. 26965 del 2007).

Con riguardo al dedotto vizio di motivazione, giova evidenziare che i giudici d’appello hanno affermato che dal bilancio non è possibile accertare se gli importi corrispondenti ai prelevamenti siano o meno effettivamente affluiti nella somma indicata alla voce “danaro e valori di cassa”; su questo punto si incentra la censura di motivazione insufficiente, tuttavia la ricorrente nulla precisa in proposito ed in particolare non esplicita se e come fosse invece possibile l’accertamento in questione (ad esempio sottolineando specifiche corrispondenze tra i prelievi de quibus e la voce in bilancio, o anche con riferimento all’ammontare della corrispondente voce nel bilancio anteriore alle operazioni bancarie de quibus per evidenziare, in ipotesi, significative differenze, oppure attraverso la deduzione di specifiche ragioni per spostare liquidità non irrilevanti dal conto corrente al conto cassa), nè tantomeno riporta in ricorso in maniera autosufficiente i documenti dai quali tali circostanze emergerebbero, limitandosi a ribadire la mera circostanza (di per sè non univocamente significativa) delle capienza degli importi relativi alle operazioni bancarie de quibus nella somma indicata in bilancio sotto la voce “denaro e valori di cassa”.

Col quarto motivo, deducendo violazione e falsa applicazione del D.P.R. n. 633 del 1972, art. 41, comma 6 oltre che vizio di motivazione, la ricorrente, in relazione alla contestazione di omessa autofatturazione da parte del cessionario relativa ad operazioni imponibili traente origine dal controllo effettuato su operazioni commerciali poste in essere tra la Metal PL s.r.l. e la Klausner GmbH, rileva che, sulla base di quanto affermato e documentato dalla società, non era comprensibile come i giudici d’appello avessero potuto recepire acriticamente in diritto il rilievo di asserita irregolarità esistente nel p.v.c., essendosi detti giudici limitati ad affermare che “riguardo alle irregolarità concernenti l’autofatturazione e l’omessa registrazione esse trovano ulteriore conferma proprio in tale documentazione” (ossia quella prodotta dallo stesso contribuente), senza dare conto nè della soluzione della questione di diritto adottata nella quale si sostanziava il rilievo della G.d.F. nè dello specifico riscontro della questione di fatto.

La censura di vizio di motivazione è fondata e comporrà l’assorbimento della censura di violazione di legge.

Invero,con riguardo a quelle che in sentenza vengono identificate come “irregolarità concernenti l’autofatturazione e l’omessa registrazione”, effettivamente i giudici di merito si sono limitati nella sentenza impugnata ad affermare che “esse trovano ulteriore conferma” proprio nella documentazione prodotta dal contribuente. In tali termini, la motivazione, non esplicitando sufficientemente nè i presupposti in fatto delle irregolarità contestate nell’avviso opposto nè il contenuto della documentazione dalla quale si trarrebbe ulteriore conferma in ordine alle irregolarità suddette, impedisce di comprendere l’iter logico seguito dal giudicante.

Col quinto motivo, deducendo violazione e falsa applicazione del D.P.R. n. 633 del 1972, art. 23 oltre che vizio di motivazione, la ricorrente, con riguardo al rilievo concernente l’omessa registrazione di acquisti intracomunitari, sostiene che essa costituisce violazione formale assoggettabile ad eventuale sanatoria e sul punto la sentenza si è limitata ad affermare che l’omessa registrazione, come l’autofatturazione, troverebbe conferma nella stessa documentazione prodotta dal contribuente. La censura è inammissibile.

Dalla sentenza impugnata non risulta infatti in alcun modo che la questione della assoggettabilità ad eventuale sanatoria della contestazione relativa al rilievo in esame fosse stata proposta nel ricorso introduttivo e riproposta in appello, nè il ricorrente ha dedotto in ricorso (come era suo onere al fine di sfuggire ad una declaratoria di inammissibilità per novità della questione) se e in quale atto detta questione fosse stata in precedenza proposta. Alla luce di quanto sopra esposto, il quarto motivo di ricorso deve essere accolto e gli altri devono essere rigettati. La sentenza impugnata deve essere cassata in relazione al motivo accolto, con rinvio ad altro giudice che provvederà anche in ordine alle spese del presente giudizio di legittimità.

P.Q.M.

Accoglie il quarto motivo di ricorso, rigettati gli altri. Cassa la sentenza impugnata e rinvia anche per le spese a diversa sezione della C.T.R. Lombardia.

Così deciso in Roma, il 25 marzo 2011.

Depositato in Cancelleria il 6 luglio 2011

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