Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 14918 del 21/06/2010

Cassazione civile sez. lav., 21/06/2010, (ud. 27/05/2010, dep. 21/06/2010), n.14918

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. SCIARELLI Guglielmo – Presidente –

Dott. DI NUBILA Vincenzo – Consigliere –

Dott. AMOROSO Giovanni – Consigliere –

Dott. NOBILE Vittorio – rel. Consigliere –

Dott. ZAPPIA Pietro – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso 696-2007 proposto da:

POSTE ITALIANE S.P.A., in persona del legale rappresentante pro

tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIALE MAZZINI 134, presso

lo studio dell’avvocato FIORILLO LUIGI, che la rappresenta e difende,

giusta delega a margine del ricorso;

– ricorrente –

contro

V.C., già elettivamente domiciliata in ROMA, VIA DEL

QUADRARO 72, presso lo studio dell’avvocato MARANDO FRANCESCA,

rappresentata e difesa dall’avvocato MIGLIACCIO BENINO giusta delega

a margine del controricorso e da ultimo domiciliata d’ufficio presso

LA CANCELLERIA DELLA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 6921/2 005 della CORTE D’APPELLO di NAPOLI,

depositata il 30/12/2005 R.G.N. 3635/04;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

27/05/2010 dal Consigliere Dott. VITTORIO NOBILE;

udito l’Avvocato FIORILLO LUIGI;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

VELARDI MAURIZIO, che ha concluso per il rigetto del ricorso.

 

Fatto

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

Con sentenza in data 15-4-2003 il Giudice del lavoro del Tribunale di Napoli dichiarava la nullità del termine apposto al contratto di lavoro stipulato tra V.C. e la s.p.a. Poste Italiane, con conseguente sussistenza tra le parti di un rapporto a tempo indeterminato a decorrere dal 12-11-1999 e con condanna della società al pagamento delle retribuzioni maturate.

La società proponeva appello avverso la detta sentenza chiedendone la riforma con il rigetto della domanda di controparte.

La V. si costituiva e resisteva al gravame.

La Corte d’Appello di Napoli, con sentenza depositata il 30-12-2005, rigettava l’appello e condannava l’appellante al pagamento delle spese.

Per la cassazione di tale sentenza la società ha proposto ricorso con tre motivi.

La V. ha resistito con controricorso.

Diritto

MOTIVI DELLA DECISIONE

Con il primo motivo la società, denunciando violazione dell’art. 1372 c.c., comma 1, artt. 1175, 1375, 2697, 1427 e 1431 c.c., art. 100 c.p.c. e vizio di motivazione, deduce che erroneamente la Corte territoriale ha respinto la eccezione di risoluzione del rapporto per mutuo consenso, nonostante la prolungata inerzia della lavoratrice e il disinteresse dimostrato da parte della stessa prima dell’instaurazione del giudizio.

Sul punto la Corte territoriale ha rilevato che la società si è limitata ad invocare unicamente il lasso di tempo trascorso ed ha affermato che “la mancata allegazione e prova di ulteriori significative circostanze appare ancor più ostativa all’accoglimento dell’eccezione in esame ove si consideri che: a) già prima del deposito del ricorso ex art. 414 c.p.c. (avvenuto il 23-4-2002) l’appellata aveva comunque manifestato la volontà di contestare la validità del termine apposto al contratto scaduto il 31-12-1999 e di chiederne la conversione ex lege in rapporto a tempo indeterminato mediante la presentazione in data 25-2-2000 della richiesta del tentativo di conciliazione ex art. 410 c.p.c.; b) il lasso di tempo trascorso tra tale atto e la scadenza del contratto non appare già di per sè particolarmente rilevante e significativo; c) il decorso del tempo non risulta accompagnato da alcuna altra circostanza obiettiva desumibile dagli atti di causa”.

Tale decisione è conforme al principio più volte affermato da questa Corte, in base al quale “nel giudizio instaurato ai fini del riconoscimento della sussistenza di un unico rapporto di lavoro a tempo indeterminato, sul presupposto dell’illegittima apposizione al contratto di un termine finale ormai scaduto, affinchè possa configurarsi una risoluzione del rapporto per mutuo consenso, è necessario che sia accertata – sulla base del lasso di tempo trascorso dopo la conclusione dell’ultimo contratto a termine, nonchè del comportamento tenuto dalle parti e di eventuali circostanze significative – una chiara e certa comune volontà delle parti medesime di porre definitivamente fine ad ogni rapporto lavorativo; la valutazione del significato e della portata del complesso di tali elementi di fatto compete al giudice di merito, le cui conclusioni non sono censurabili in sede di legittimità se non sussistono vizi logici o errori di diritto” (v. Cass. 10-11-2008 n. 26935, Cass. 28-9-2007 n. 20390, Cass. 17-12-2004 n. 23554, Cass. 11- 12-2001 n. 15621). Del resto, come pure è stato precisato, “grava sul datore di lavoro, che eccepisca la risoluzione per mutuo consenso, l’onere di provare le circostanze dalle quali possa ricavarsi la volontà chiara e certa delle parti di volere porre definitivamente fine ad ogni rapporto di lavoro” (v. Cass. 2-12-2002 n. 17070).

Con il secondo motivo, denunciando violazione degli artt. 1362 e ss.

c.c. e vizio di motivazione, la ricorrente censura la sentenza impugnata nella parte in cui ha ritenuto che la possibilità di assunzioni a termini in base all’accordo del 1997 e successivi avesse una efficacia limitata temporalmente al 30-4-1998, sostenendo, in particolare, la natura meramente ricognitiva degli accordi attuativi.

Il motivo è infondato in base all’indirizzo ormai consolidato in materia dettato da questa Corte (con riferimento al sistema vigente anteriormente al c.c.n.l. del 2001 ed al D.Lgs. n. 368 del 2001).

Al riguardo, sulla scia di Cass. S.U. 2-3-2006 n. 4588, è stato precisato che “l’attribuzione alla contrattazione collettiva, L. n. 56 del 1987, ex art. 23, del potere di definire nuovi casi di assunzione a termine rispetto a quelli previsti dalla L. n. 230 del 1962, discende dall’intento del legislatore di considerare l’esame congiunto delle parti sociali sulle necessità del mercato del lavoro idonea garanzia per i lavoratori ed efficace salvaguardia per i loro diritti (con l’unico limite della predeterminazione della percentuale di lavoratori da assumere a termine rispetto a quelli impiegati a tempo indeterminato) e prescinde, pertanto, dalla necessità di individuare ipotesi specifiche di collegamento fra contratti ed esigenze aziendali o di riferirsi a condizioni oggettive di lavoro o soggettive dei lavoratori ovvero di fissare contrattualmente limiti temporali all’autorizzazione data al datore di lavoro di procedere ad assunzioni a tempo determinato” (v. Cass. 4-8-2008 n. 21063, v. anche Cass. 20-4-2006 n. 9245, Cass. 7-3-2005 n. 4862, Cass. 26-7-2004 n. 14011). “Ne risulta, quindi, una sorta di “delega in bianco” a favore dei contratti collettivi e dei sindacati che ne sono destinatari, non essendo questi vincolati alla individuazione di ipotesi comunque omologhe a quelle previste dalla legge, ma dovendo operare sul medesimo piano della disciplina generale in materia ed inserendosi nel sistema da questa delineato” (v., fra le altre, Cass. 4-8-2008 n. 21062, Cass. 23-8-2006 n. 18378).

In tale quadro, ove però un limite temporale sia stato previsto dalle parti collettive (anche con accordi integrativi del contratto collettivo) la sua inosservanza determina la nullità della clausola di apposizione del termine (v. fra le altre Cass. 23-8-2006 n. 18383, Cass. 14-4-2005 n. 7745, Cass. 14-2-2004 n. 2866).

In particolare, quindi, come questa Corte ha ripetutamente affermato, “in materia di assunzioni a termine di dipendenti postali, con l’accordo sindacale del 25 settembre 1997, integrativo dell’art. 8 del c.c.n.l. 26 novembre 1994, e con il successivo accordo attuativo, sottoscritto in data 16 gennaio 1998, le parti hanno convenuto di riconoscere la sussistenza della situazione straordinaria, relativa alla trasformazione giuridica dell’ente ed alla conseguente ristrutturazione aziendale e rimodulazione degli assetti occupazionali in corso di attuazione, fino alla data del 30 aprile 1998; ne consegue che deve escludersi la legittimità delle assunzioni a termine cadute dopo il 30 aprile 1998, per carenza del presupposto normativo derogatorio, con la ulteriore conseguenza della trasformazione degli stessi contratti a tempo indeterminato, in forza della L. 18 aprile 1962, n. 230, art. 1” (v., fra le altre, Cass. 1- 10-2007 n. 20608, Cass. 27-3-2008 n. 7979, Cass. 18378/2006 cit.).

Con il terzo motivo la ricorrente, denunciando violazione degli artt. 1217 e 1233 c.c., in sostanza lamenta che la Corte d’appello “non ha svolto alcun tipo di verifica” in ordine alla messa in mora del datore di lavoro da parte del lavoratore e non ha tenuto “conto della possibilità che il lavoratore abbia anche espletato attività lavorativa retribuita da terzi una volta cessato il rapporto di lavoro con la società resistente”, disattendendo, peraltro, le richieste della società di ordine di esibizione dei modelli 101 e 740 del lavoratore.

Il motivo è inammissibile.

La prima censura risulta del tutto generica e priva di autosufficienza in quanto si incentra nella doglianza circa la mancanza di una verifica da parte della Corte territoriale sul punto, ma non indica se e in che modo il punto stesso (per nulla trattato nell’impugnata sentenza) fosse stato oggetto di specifico motivo di appello da parte della società (cfr. Cass. 15-2-2003 n. 2331, Cass. 10-7-2001 n. 9336).

La ricorrente, inoltre, da un lato afferma che “il giudice di appello ha condannato la società al pagamento delle retribuzioni decorrenti dalla data di notifica del ricorso di primo grado” e dall’altro, contraddittoriamente, deduce che alcun “valore” di atto di messa in mora può assumere “l’istanza per il tentativo obbligatorio di conciliazione la quale è esclusivamente prodromica alla instaurazione della controversia”.

Parimenti, poi, del tutto generica e priva di autosufficienza è la censura relativa all’aliunde perceptum.

Anche al riguardo la ricorrente non specifica come e in quali termini abbia allegato davanti ai giudici di merito un aliunde perceptum (in relazione al quale è pur sempre necessaria una rituale acquisizione della allegazione e della prova, pur non necessariamente proveniente dal datore di lavoro in quanto oggetto di eccezione in senso lato – cfr. Cass. 16-5-2005 n. 10155, Cass. 20-6-2006 n. 14131, Cass. 10-8- 2007 n. 17606, Cass. S.U. 3-2-1998 n. 1099 -).

Nè è censurabile in questa sede il mancato accoglimento della richiesta di esibizione (dei modelli 101 e 740) avanzata dalla società.

Come questa Corte ha più volte precisato, “il rigetto da parte del giudice di merito dell’istanza di disporre l’ordine di esibizione al fine di acquisire al giudizio documenti ritenuti indispensabili dalla parte non è sindacabile in cassazione, perchè, trattandosi di strumento istruttorio residuale, utilizzabile soltanto quando la prova del fatto non sia acquisibile aliunde e l’iniziativa non presenti finalità esplorative, la valutazione della relativa indispensabilità è rimessa al potere discrezionale del giudice di merito e non necessita neppure di essere esplicitata nella motivazione, il mancato esercizio di tale potere non essendo sindacabile neppure sotto il profilo del difetto di motivazione” (v.

fra le altre Cass. 14-7-2004 n. 12997, Cass. sez. 1^ 17-5-2005 n. 10357, Cass. sez. 3^ 2-2-2006 n. 2262). D’altra parte “l’esibizione di documenti non può essere chiesta a fini meramente esplorativi, allorquando neppure la parte istante deduca elementi sulla effettiva esistenza del documento e sul suo contenuto per verificarne la rilevanza in giudizio” (v. fra le altre Cass. 20-12-2007 n. 26943).

Il ricorso va pertanto respinto e la ricorrente va condannata al pagamento delle spese in favore della V..

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento, in favore della V. delle spese liquidate in Euro 20,00 oltre Euro 2.000,00 per onorari, oltre spese generali, IVA e CPA. Così deciso in Roma, il 27 maggio 2010.

Depositato in Cancelleria il 21 giugno 2010

 

 

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