Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 14866 del 13/07/2020

Cassazione civile sez. trib., 13/07/2020, (ud. 30/01/2020, dep. 13/07/2020), n.14866

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. BISOGNI Giacinto – Presidente –

Dott. MANZON Enrico – Consigliere –

Dott. SUCCIO Roberto – Consigliere –

Dott. PUTATURO DONATI VISCIDO M.G. – rel. Consigliere –

Dott. GORI Pierpaolo – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

Sul ricorso iscritto al numero 915 del ruolo generale dell’anno 2013,

proposto da:

Agenzia delle entrate, in persona del Direttore pro tempore,

domiciliata in Roma, Via dei Portoghesi n. 12, presso l’Avvocatura

Generale dello Stato che la rappresenta e difende;

– ricorrente –

contro

L.V.A. s.r.l., in persona del legale rappresentante pro tempore,

rappresentata e difesa, giusta procura speciale a margine del

controricorso, dall’avv.to Domenico Papaleo, elettivamente

domiciliata presso lo studio dell’avv.to Diletta Bocchini, in Roma,

Piazza Nerazzini n. 5;

-controricorrente –

per la cassazione della sentenza della Commissione tributaria

regionale della Campania, sezione staccata di Salerno, n. 325/12/12

depositata in data 15 maggio 2012, non notificata.

Udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del

30 gennaio 2020 dal Relatore Consigliere Dott.ssa Putaturo Donati

Viscido di Nocera Maria Giulia.

Fatto

RILEVATO

che:

-con sentenza n. 325/12/12 depositata in data 16 maggio 2012, non notificata, la Commissione tributaria regionale della Campania, sezione staccata di Salerno, rigettava l’appello proposto dall’Agenzia delle entrate, in persona del Direttore pro tempore, nei confronti di L.V.A. s.r.l., in persona del legale rappresentante pro tempore, avverso la sentenza n. 159/02/10 della Commissione tributaria provinciale di Roma che aveva accolto il ricorso proposto dalla suddetta società contribuente avverso l’avviso di accertamento n. (OMISSIS) con il quale l’Agenzia delle entrate aveva contestato, ai fini Ires, Irap e Iva, essendo emersa, per l’anno 2004, un grave scostamento tra i ricavi dichiarati e quelli desumibili dagli studi di settore;

– la CTR, in punto di diritto, per quanto di interesse, ha osservato che 1)trattandosi di accertamento induttivo basato sugli studi di settore, il previo contraddittorio era determinante al fine di adeguare lo standard alla concreta realtà economica del singolo contribuente e, nella specie, “sarebbe stato omesso tale necessario presupposto che impone all’Agenzia quel principio di collaborazione e cooperazione previsto dallo Statuto al fine di consentire, in contraddittorio con il contribuente, ogni idonea e necessaria giustificazione dello scostamento e conseguentemente dell’inapplicabilità dello standard”; 2) come assunto dal giudice di primo grado, l’Agenzia, anche in sede di gravame, si sarebbe limitata ad affermazioni generiche senza nulla dedurre in ordine alle eccezioni in diritto che assumono una loro preliminare ed importante valutazione ai fini delle successive considerazioni di merito;

-avverso la sentenza della CTR, l’Agenzia delle entrate propone ricorso per cassazione affidato a due motivi, cui resiste, con controricorso, la società contribuente;

– il ricorso è stato fissato in camera di consiglio, ai sensi dell’art. 375 c.p.c., comma 2, e art. 380-bis.1 c.p.c., introdotti dal D.L. 31 agosto 2016, n. 168, art. 1-bis, convertito, con modificazioni, dalla L. 25 ottobre 2016, n. 197.

Diritto

CONSIDERATO

che:

– con il primo motivo, la ricorrente denuncia, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, l’insufficiente motivazione su un fatto controverso e decisivo della sentenza impugnata per avere la CTR, sull’erroneo presupposto dell’omesso espletamento del contraddittorio (avvenuto, invece, nei giorni 27 e 30 novembre 2009), argomentato insufficientemente in ordine al contestato scostamento tra i ricavi dichiarati e le risultanze degli studi di settore ritenendolo giustificato da una non dimostrata riduzione di attività;

– con il secondo motivo, la ricorrente denuncia, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, la violazione del D.L. n. 331 del 1993, art. 62-sexies, del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 39, comma 1, lett. d) e del D.P.R. n. 633 del 1972, art. 54, artt. 2729 e 2697 c.c., in combinato con l’art. 115 c.p.c., comma 1 e art. 116 c.p.c., comma 1, per avere la CTR, a fronte delle presunzioni basate sugli studi di settore, posto erroneamente a carico dell’Ufficio l’onere probatorio della pretesa impositiva, e non già a carico del contribuente l’onere di dimostrare le condizioni atte a giustificare l’esclusione dell’impresa dall’area di applicazione degli standards ovvero la specifica realtà della propria attività economica nel periodo di riferimento dell’accertamento;

– i motivi- da trattarsi congiuntamente per connessione- sono infondati;

– questa Corte di legittimità ha ripetutamente affermato il principio secondo cui “i parametri o studi di settore previsti dalla L. 28 dicembre 1995, n. 549, art. 3, commi da 181 a 187, rappresentando la risultante dell’estrapolazione statistica di una pluralità di dati settoriali acquisiti su campioni di contribuenti e dalle relative dichiarazioni, rivelano valori che, quando eccedono il dichiarato, integrano il presupposto per il legittimo esercizio da parte dell’Ufficio dell’accertamento analitico-induttivo, del D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, ex art. 39, comma 1, lett. d, che deve essere necessariamente svolto in contraddittorio con il contribuente, sul quale, nella fase amministrativa e, soprattutto, in quella contenziosa, incombe l’onere di allegare e provare, senza limitazioni di mezzi e di contenuto, la sussistenza di circostanze di fatto tali da allontanare la sua attività dal modello normale al quale i parametri fanno riferimento, sì da giustificare un reddito inferiore a quello che sarebbe stato normale secondo la procedura di accertamento tributario standardizzato, mentre all’ente impositore fa carico la dimostrazione dell’applicabilità dello “standard” prescelto al caso concreto oggetto di accertamento”, Cass. sez. V, sent. 20.02.2015, n. 3415. La legittimità dell’accertamento tributario fondato sugli studi di settore, ed il ricordato orientamento della giurisprudenza di legittimità, del resto, è stato confermato anche in sede sovranazionale, cfr. CGUE, 21.11.2018, in causa C-648-16;

– questa Corte ha già avuto modo di precisare, altresì, che “L’accertamento tributario standardizzato mediante applicazione dei parametri o degli studi di settore costituisce un sistema di presunzioni semplici, la cui gravità, precisione e concordanza non è “ex lege” determinata dallo scostamento del reddito dichiarato rispetto agli “standards” in sè considerati – meri strumenti di ricostruzione per elaborazione statistica della normale redditività – ma nasce solo in esito al contraddittorio da attivare obbligatoriamente, pena la nullità dell’accertamento, con il contribuente. In tale sede, questi ha l’onere di provare, senza limitazione di mezzi e contenuto, la sussistenza di condizioni che giustificano l’esclusione dell’impresa dall’area dei soggetti cui possono essere applicati gli “standards” o la specifica realtà dell’attività economica nel periodo di tempo in esame, mentre la motivazione dell’atto di accertamento non può esaurirsi nel rilievo dello scostamento, ma va integrata con la dimostrazione dell’applicabilità in concreto dello “standard” prescelto e le ragioni per le quali sono state disattese le contestazioni sollevate. L’esito del contraddittorio, tuttavia, non condiziona l’impugnabilità dell’accertamento, potendo il giudice tributario liberamente valutare tanto l’applicabilità degli “standards” al caso concreto, da dimostrarsi dall’ente impositore, quanto la controprova offerta dal contribuente che, al riguardo, non è vincolato alle eccezioni sollevate nella fase del procedimento amministrativo e dispone della più ampia facoltà, incluso il ricorso a presunzioni semplici, anche se non abbia risposto all’invito al contraddittorio in sede amministrativa. In tal caso, però, egli ne assume le conseguenze, in quando l’Ufficio può motivare l’accertamento sulla sola base dell’applicazione degli “standards”, dando conto dell’impossibilità di costituire il contraddittorio con il contribuente, nonostante il rituale invito, ed il giudice può valutare, nel quadro probatorio, la mancata risposta all’invito (da ultimo, Cass. sez. 5, Sentenza n. 9484 del 12/04/2017); peraltro, da ultimo, “La determinazione del reddito mediante l’applicazione degli studi di settore, a seguito dell’instaurazione del contraddittorio con il contribuente, è idonea a integrare presunzioni legali che sono, anche da sole, sufficienti ad assicurare un valido fondamento all’accertamento tributario, ferma restando la possibilità, per il contribuente che vi è sottoposto, di fornire la prova contraria, nella fase amministrativa e anche in sede contenziosa” (Cass. Sez. 5, Ordinanza n. 23252 del 18/09/2019);

– nella specie, premesso che non risulta contestato l’avvenuto espletamento ontraddittorio endoprocedimentale (v. verbale del 30 novembre 2009 riportato nel controricorso pagg. 2-3), la CTR- che ha confermato la sentenza di prime cure- si è uniformata ai suddetti principi, in quanto, nell’affermare che il previo contraddittorio con la contribuente “sarebbe stato omesso”, e, al contempo, che l’Agenzia “si sarebbe limitata ad affermazioni generiche senza nulla dedurre in ordine alle eccezioni in diritto”, ha ritenuto in sostanza – come si evince anche dalla sentenza di primo grado cui rinvia il giudice di appello e riprodotta, nelle parti rilevanti, sia in ricorso che in controricorso- non essersi svolto un effettivo previo contraddittorio, nel senso che, a fronte delle rappresentate ragioni giustificative dello scostamento dallo standand addotte dalla contribuente in sede di contraddittorio (con riguardo alla asserita riduzione dell’attività di impresa) e, dunque, dello stimato effettivo assolvimento da parte della contribuente dell’onere di provare “la sussistenza di condizioni che giustificassero l’esclusione dell’impresa dall’area dei soggetti cui potessero essere applicati gli “standards”, alcuna prova circa l’applicabilità degli “standards”-e dunque circa le ragioni per le quali fossero state disattese le contestazioni sollevate – risultava essere stata offerta dall’ufficio neanche in sede giudiziale (essendosi quest’ultimo limitato ad “affermazioni generiche”);ogni altra argomentazione sottesa al motivo di ricorso tende ad una inammissibile rivisitazione di valutazioni di merito effettuate dal giudice di appello;

– in conclusione, il ricorso va rigettato;

– le spese del giudizio di legittimità seguono la soccombenza e vengono liquidate come in dispositivo.

PQM

la Corte:

-rigetta il ricorso; condanna la ricorrente al pagamento in favore della società contribuente delle spese del giudizio di legittimità che si liquidano in Euro 5.600,00 per compensi, oltre 15% per spese generali ed accessori di legge.

Così deciso in Roma, il 30 gennaio 2020.

Depositato in cancelleria il 13 luglio 2020

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