Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 14864 del 13/07/2020

Cassazione civile sez. trib., 13/07/2020, (ud. 30/01/2020, dep. 13/07/2020), n.14864

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. BISOGNI Giacinto – Presidente –

Dott. MANZON Enrico – Consigliere –

Dott. SUCCIO Robert – rel. Consigliere –

Dott. PUTATURO DONATI VISCIDO DI NOCERA M.G. – Consigliere –

Dott. GORI P. – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso iscritto al n. 15740/2013 R.G. proposto da:

L.G. rappresentato e difeso giusta delega in atti dall’avv.

Guerrini Elido (PEC elido.guerrini.pec.avvocatilucca.it) e dall’avv.

Pacifici Paolo (PEC paolopacifici.ordineavvocatiroma.orq) presso il

quale è elettivamente domiciliato in Roma nel suo studio in via

Vallisneri n. 1;

– ricorrente –

contro

AGENZIA DELLE ENTRATE in persona del Direttore pro tempore,

rappresentata e difesa dall’Avvocatura Generale dello Stato, con

domicilio eletto in Roma, via Dei Portoghesi, n. 12, presso

l’Avvocatura Generale dello Stato (PEC

ags.rm.mailcert.avvocaturastato.it);

– controricorrente –

Avverso la sentenza della Commissione Tributaria Regionale della

Toscana n. 08/21/13 depositata il 04/01/2013, non notificata;

Udita la relazione della causa svolta nell’adunanza camerale del

30/1/2020 dal consigliere Succio Roberto.

Fatto

RILEVATO

Che:

– con la sentenza di cui sopra il giudice di seconde cure rigettava l’appello del contribuente avverso la sentenza della CTP che aveva confermato la legittimità dell’atto impugnato, avviso di accertamento per IRPEG, IVA ed IRAP 2005;

– con tal atto l’Erario in particolare, per quanto qui interessa, l’Ufficio rideterminava il reddito d’impresa richiedendo anche i dovuti interessi e le prescritte sanzioni (pretesa in parte annullata in via di autotutela) a fronte della risoluzione di un contratto di affitto di azienda;

– riteneva l’Ufficio di dovere fare applicazione dell’art. 2561 c.c., comma 4, relativo alla regolazione in denaro delle differenze di patrimonio netto tra patrimonio iniziale e patrimonio finale all’atto della restituzione dell’azienda; poichè il contratto di affitto includeva le merci tra gli elementi che concorrevano a formare il patrimonio dell’azienda oggetto dell’affitto e dette merci non erano stata inserite nell’inventario, l’Ufficio riteneva che dette merci restituite al momento della retrocessione dell’azienda andavano assoggettate ad IVA;

– avverso la sentenza di seconde cure propone ricorso per cassazione il contribuente con atto affidato a due motivi; l’amministrazione Finanziaria resiste con controricorso e propone anche ricorso incidentale articolato in un solo motivo.

Diritto

CONSIDERATO

Che:

– con il primo motivo di ricorso principale si censura la sentenza impugnata per violazione e falsa applicazione ex art. 360 c.p.c., n. 3, di norme di diritto in relazione al D.P.R. n. 633 del 1972, art. 2, comma 3, lett. a) e dell’art. 15, n. 1 e degli art. 2697,2561 e 2562 c.c. per avere la CTR ritenuto, come sostenuto dall’Ufficio, che le merci in questione siano state in realtà vendute dal L.G. al proprietario dell’azienda oggetto dell’affitto, prima, e della retrocessione poi;

– il motivo, con le precisazioni che seguono, è fondato;

– va infatti premesso come la ricostruzione in diritto della CTR si fondi su un presupposto evidente, consistente nella fuoriuscita delle rimanenze di merce dal complesso aziendale: essa ritiene che il L.G., conduttore dell’azienda affittata, non abbia dimostrato la consistenza del patrimonio aziendale, stante la mancata redazione dell’inventario, e che pertanto l’omessa indicazione del valore originario delle merci non possa esser computato in diminuzione del valore di restituzione; conseguentemente l’intero importo delle stesse, secondo la prospettazione della CTR, va ritenuto – questo ciò che più conta – oggetto di cessione che sia pur gratuita (stante la mancata corresponsione di prezzo) rileva a fini IVA;

– tal affermazione è invero errata in diritto;

– questa Corte ritiene infatti, come correttamente osservato in ricorso, (Cass. Sez. 5, Sentenza n. 20443 del 06/10/2011) che in tema di IVA, le rimanenze costituiscono – salvo diversa volontà negoziale delle parti ed ove non considerate isolatamente rispetto alla loro destinazione funzionale, il che nel presente caso non è – beni a servizio dell’impresa e, dunque, appartenenti a tutti gli effetti al complesso aziendale, con la conseguenza che, in caso di affitto dell’azienda, esse permangono in capo al concedente, il quale cede all’affittuario soltanto il diritto personale di utilizzo del bene produttivo (azienda), dovendo, quindi, escludersi la ravvisabilità di un autonomo atto di cessione delle rimanenze assoggettabile ad IVA;

– ed invero, il disposto dell’art. 2561 c.c., in tema di usufrutto dell’azienda, applicabile nelle analoghe fattispecie di locazione, prevede che “l’usufruttuario dell’azienda deve esercitarla sotto la ditta che la contraddistingue. Egli deve gestire l’azienda senza modificarne la destinazione e in modo da conservare l’efficienza dell’organizzazione e degli impianti e le normali dotazioni di scorte. Se non adempie a tale obbligo o cessa arbitrariamente dalla gestione dell’azienda, si applica l’art. 1015. La differenza tra le consistenze d’inventario all’inizio e al termine dell’usufrutto è regolata in danaro, sulla base dei valori correnti al termine dell’usufrutto”. Orbene, appare evidente come l’obbligo di regolare la differenza di consistenza delle rimanenze sia funzionale a garantire (anche in forza della collocazione di tal obbligo in chiusura della disposizione civilistica) la “normalità” della dotazione delle scorte, in modo che una volta ripresa la “sua” azienda, il proprietario possa immediatamente tornare a esercitare l’attività d’impresa o altrettanto immediatamente locarla ad altri, o quant’altro, senza interruzioni dell’attività stessa che potrebbero comprometterne l’avviamento e la stessa operatività;

– dalla lettura della sentenza della CTR risulta invece che i Giudici di appello abbiano inteso mantenere autonomo dal contratto di affitto di azienda la cessione delle rimanenze di magazzino, rinvenendo la autonomia negoziale delle due operazioni nella disciplina dei beni inventariati dettata dall’art. 2561 c.c., già citato, applicabile anche all’affitto di azienda in virtù dell’espresso richiamo operato dall’art. 2562 c.c. Tale “modus operandi” – pacifico essendo che le rimanenze di magazzino hanno costituito oggetto del medesimo contratto di affitto di azienda – non può ritenersi coerente con la nozione di azienda generalmente condivisa nella dottrina come nella in giurisprudenza, nè può ritenersi conforme alla disciplina del tipo negoziale (contratto di affitto). Secondo la nozione civilistica dell’istituto, costituisce azienda “l’organizzazione dei beni finalizzata all’esercizio dell’impresa”, intesa come opera unificatrice dell’imprenditore diretta alla realizzazione di un rapporto di complementarietà strumentale tra beni destinati alla produzione (art. 2555 c.c.). Pertanto viene a configurarsi una cessione di azienda tutte le volte in cui la relativa convenzione negoziale abbia avuto ad oggetto il trasferimento di beni organizzati in un contesto produttivo (anche solo potenziale) dall’imprenditore per l’attività d’impresa, senza che risulti di ostacolo alla configurabilità della cessione nè la eventuale mancanza attuale del cosiddetto “avviamento”, nè la destinazione dei beni aziendali ad altro settore produttivo da parte dall’acquirente, purchè la nuova produzione si realizzi, pur sempre, attraverso tale complesso di beni già organizzati dal precedente imprenditore (cfr. Corte Cass. 1 Sez. 28.4.1998 n. 4319; id. 5 Sez. 25.1.2002n. 897 che dall’accertamento della strumentactis ed interdipendenza dei beni diretti all’esercizio della impresa, qualifica il negozio come cessione di azienda, con conseguente applicazione della imposta di registro in luogo di assoggettamento ad IVA; id. 30.5.2005 n. 11457; id. 4.5.2007 n. 10273; id. 19.11.2007 n. 23857). L'”organizzazione dei beni aziendali” è dunque il risultato che consegue all’esercizio della autonomia privata del soggetto che imprime il nesso di strumentalità ai singoli beni destinandoli all’esercizio della impresa, con la conseguenza che anche le giacenze o scorte di magazzino (che invero debbono iscriversi nello stato patrimoniale alla voce dell’attivo circolante – materie prime, semilavorati, prodotti finiti e merci -: cfr. art. 2424 c.c.) costituiscono – salvo diversa volontà negoziale delle parti contraenti ed ove non considerate isolatamente rispetto alla loro destinazione funzionale “beni a servizio della impresa” e dunque, a tutti gli effetti, beni appartenenti al complesso aziendale;

– tali beni restano pertanto sempre assoggettati alla disciplina pattizia e sussidiaria del codice civile in materia di trasferimento e di affitto del complesso aziendale considerato unitariamente in relazione a tutte le sue componenti, ove non risulti che le parti abbiano diversamente stabilito. La indagine relativa alla qualificazione giuridica dei beni compresi nelle rimanenze di magazzino, come beni appartenenti al complesso aziendale, deve quindi essere svolta, ai fini della individuazione del regime fiscale applicabile, ricercando la “causa reale del negozio e gli interessi effettivamente perseguiti dai contraentè, essendo al riguardo irrilevante la mera circostanza che i beni facenti parte della azienda siano oggetto di plurimi e diacronici atti negoziali, dovendo in tal caso il Giudice valutare congiuntamente i vari negozi stipulati tra le parti e verificare se gli stessi siano complessivamente diretti a realizzare od a mantenere la destinazione unitaria dei beni a servizio di un’attività di impresa (cfr. Corte Cass. 5 sez. 16.4.2010 n. 9162. Vedi in particolare Corte Cass. 5 sez 12.5.2008 n. 11769 che ravvisa un unico contratto di cessione di azienda nel collegamento funzionale di due distinti negozi di trasferimento aventi ad oggetto, rispettivamente, cessione della azienda e cessione delle rimanenze e materie prime). La separazione della “situazione statica di appartenenza” dei beni costituti in azienda dalla “situazione dinamica della gestione” di impresa (id est tra il titolare del diritto di proprietà – nel presente caso Magazzini E. di L.E. & c. s.a.s. ed il titolare del diritto reale o personale di godimento del complesso aziendale nel presente caso L.G. qui ricorrente) consente al proprietario, che imprenditore cessa di essere, di mantenere od accrescere il valore patrimoniale della azienda sottraendosi ai rischi ed alle responsabilità che ricadono sull’imprenditore, che risulta essere unicamente il locatario dell’azienda;

– a fronte di tale interesse riconducibile alla causa dei contratti di godimento dell’azienda, trova logica giustificazione l’obbligo gravante sull’affittuario di gestire l’azienda “senza modificarne la destinazione ed in modo da conservare l’efficienza della organizzazione e degli impianti e le normali dotazioni di scorte” (art. 2561 c.c. richiamato dall’art. 2562 c.c.), come già accennato;

– ne deriva come logica conseguenza che lo stesso usufruttuario od affittuario è tenuto ad usare ed anche a disporre di tali beni (impianti, attrezzature, scorte) ove ciò si renda necessario per il corretto adempimento dell’obbligo di gestione aziendale;

– la norma del codice civile, pertanto, al contrario di quanto sostenuto dai giudici territoriali, non individua – salva diversa pattuizione tra le parti, che qui non è in atti – una autonoma fattispecie negoziale (avente ad oggetto la cessione dei beni/giacenze di magazzino) distinta dal contratto avente ad oggetto la concessione in godimento della azienda, ma è volta a regolare, in considerazione del carattere “circolante” di tali beni, soltanto uno degli aspetti della medesima obbligazione restitutoria gravante sul concessionario (per l’affittuario cfr. art. 1590 c.c.) derivante dal contratto di affitto di azienda. I beni organizzati in funzione dell’esercizio della impresa, ivi incluse le rimanenze, considerati unitariamente come complesso aziendale non sono, infatti, mai stati trasferiti in proprietà all’affittuario, ma permangono in capo al locatore che concede all’affittuario soltanto il diritto personale di sfruttamento del bene produttivo (azienda) in conformità alla destinazione economico-funzionale impressacbetti beni dal concedente, essendo tenuto l’affittuario al termine di efficacia contrattuale a restituire l’azienda al proprietario. Tale obbligo, attesa la diversa natura o funzione dei beni del complesso aziendale, non può che essere adempiuto in modo differente, a seconda che tali beni siano destinati a durare nel tempo (inconsumabili) o siano destinati ad essere impiegati nel ciclo produttivo o commerciale della azienda (consumabili): appare dunque logico, in quest’ultimo caso, che l’obbligazione di restituzione dell’azienda gravante sull’affittuario venga assolta in forma generica mediante corresponsione del “tantundem”, diversamente rendendosi impossibile la gestione dell’impresa da parte del locatario dell’azienda;

– errata è quindi l’applicazione alla fattispecie, come rilevata in concreto (dai Giudici di merito, del D.P.R. n. 633 del 1972, art. 2, che fa riferimento alle cessioni gratuite, risultando nel presente caso difettoso l’elemento della cessione (macrocategoria nella quale si colloca la cessione gratuita, microcategoria in rapporto con la prima di genere a specie) di cui al D.P.R. n. 633 del 1972, art. 6, intesa come trasferimento del potere di disporre del bene uti dominus;

– la conclusione qui adottata, poi, risulta conforme alle prescrizioni Eurounitarie: l’art. 5 comma 8 della Sesta direttiva 77/388/CEE del Consiglio, del 17 maggio 1977, prevede infatti che “in caso di trasferimento a titolo oneroso o gratuito o sotto forma di conferimento a una società di una universalità totale o parziale di beni, gli Stati membri possono considerare l’operazione come non avvenuta e che il beneficiario continua la persona del cedente”;

– se pertanto non sussiste atto di cessione delle rimanenze dal concedente in locazione al locatario, specularmente non sussiste atto di cessione parimenti rilevante a fini IVA nella direzione inversa, vale a dire in sede di restituzione delle rimanenze dal locatario al proprietario dell’azienda;

– non si vede infatti in forza di quale ragione dovrebbe, in assenza di una cessione delle rimanenze oggetto di affitto dell’azienda, non applicarsi VIVA nel rapporto locatore – locatario e invece applicarsi l’IVA nel rapporto locatario – locatore; o la cessione esiste nella prima direzione (e allora esiste anche in direzione inversa) o la cessione non esiste nella prima direzione – come è – ed allora non può esistere neppure nella direzione inversa, non potendo il locatario retrocedere ciò che non è suo in forza del noto principio nemo transferre potest plus quam habet;

– il secondo motivo del ricorso principale denuncia poi la violazione dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, per omessa, insufficiente o contraddittoria motivazione circa un punto decisivo della controversia, prospettato dalle parti o rilevabile di ufficio in relazione agli artt. 132 c.p.c. e al D.P.R. n. 633 del 1972, art. 2, comma 3, lett. a) e art. 15 e agli artt. 2697 – 2651 e 2652 c.c. per avere la CTR omesso di illustrare le ragioni per le quali ha ritenuto possibile la fatturazione di beni (le rimanenze) da parte del L.G. e le ragioni in forza delle quali non è stato applicato il D.P.R. n. 633 del 1972, art. 2 e infine perchè il ricorrente era onerato di indicare la differenza di valore dell’azienda al termine della locazione, posto che non vi è stato conguaglio;

– il motivo è inammissibile;

– invero, esso costituisce censura motivazionale; in quanto in sostanza denuncia vizio di motivazione della sentenza impugnata, vizio che in questo caso non può essere dedotto; infatti, poichè la sentenza impugnata risulta depositata in data 4 gennaio 2013 trova applicazione, quanto ai motivi di ricorso e ai vizi deducibili per cassazione, il nuovo testo dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, (come modificato dal D.L. 22 giugno 2012, n. 83, cosiddetto “Decreto Sviluppo”, pubblicato in Gazzetta Ufficiale 26 giugno 2012, n. 147, convertito con modificazioni, dalla L. 7 agosto 2012, n. 134 pubblicata in Gazzetta Ufficiale n. 187 del 11-08-2012). Tal disposizione, applicabile alle sentenze pubblicata a partire dall’11 settembre 2012, quindi anche alla pronuncia qui gravata che risulta depositata dopo tale data, di adire la Suprema Corte non per vizio di sufficienza motivazionale ma per “omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti”;

– va ora esaminato il motivo di ricorso incidentale proposto dall’Erario;

– esso aggredisce la sentenza della CTR per motivazione insufficiente, illogica e contraddittoria circa un fatto controverso e decisivo per la controversia in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5 per avere il giudice dell’appello omesso di precisare i motivi per i quali ha ritenuto verosimile la tesi secondo la quale i versamenti contestati fossero parziali restituzioni di quanto prelevato dalle casse della ditta;

– il motivo è inammissibile;

– invero, esso costituisce censura motivazionale; in quanto in sostanza denuncia vizio di motivazione della sentenza impugnata, vizio che in questo caso non può essere dedotto; infatti, poichè la sentenza impugnata risulta depositata in data 4 gennaio 2013 trova applicazione, quanto ai motivi di ricorso e ai vizi deducibili per cassazione, il nuovo testo dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5 (come modificato dal D.L. 22 giugno 2012, n. 83, cosiddetto “Decreto Sviluppo”, pubblicato in Gazzetta Ufficiale 26 giugno 2012, n. 147, convertito con modificazioni, dalla L. 7 agosto 2012, n. 134 pubblicata in Gazzetta Ufficiale n. 187 del 11-08-2012). Tal disposizione, applicabile alle sentenze pubblicata a partire dall’11 settembre 2012, quindi anche alla pronuncia qui gravata che risulta depositata dopo tale data, di adire la Suprema Corte non per vizio di sufficienza motivazionale ma per “omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti”;

– pertanto, va accolto il primo motivo del ricorso principale; il secondo motivo è rigettato; il ricorso incidentale è respinto;

– la sentenza va quindi cassata limitatamente al motivo accolto, con rinvio al giudice dell’appello per nuovo esame.

P.Q.M.

accoglie il primo motivo del ricorso principale; rigetta nel resto il ricorso principale; rigetta il ricorso incidentale; cassa la sentenza impugnata limitatamente al motivo accolto e rinvia alla Commissione Tributaria regionale della Toscana in diversa composizione che statuirà anche quanto alle spese del presente giudizio di Legittimità.

Così deciso in Roma, il 30 gennaio 2020.

Depositato in Cancelleria il 13 luglio 2020

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