Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 14862 del 15/06/2017


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Cassazione civile, sez. lav., 15/06/2017, (ud. 24/01/2017, dep.15/06/2017),  n. 14862

 

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. DI CERBO Vincenzo – Presidente –

Dott. CURCIO Laura – Consigliere –

Dott. NEGRI DELLA TORRE Paolo – rel. Consigliere –

Dott. BALESTRIERI Federico – Consigliere –

Dott. PATTI Adriano Piergiovanni – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 26467/2015 proposto da:

G.G., C.F. (OMISSIS), elettivamente domiciliato in ROMA,

VIALE DELLE MILIZIE 38, presso lo studio dell’avvocato PAOLO MARIA

MONTALDO, rappresentato e difeso dall’avvocato CLAUDIO MOSCATI,

giusta delega in atti;

– ricorrente –

contro

AVIVA ITALIA S.P.A., C.F. (OMISSIS), in persona del legale

rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, CORSO

TRIESTE 130, presso lo studio dell’avvocato ENRICO MARIA TERENZIO,

che la rappresenta e difende unitamente all’avvocato SERGIO

CARNEVALE, giusta delega in atti;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 961/2015 della CORTE D’APPELLO di BOLOGNA,

depositata il 24/09/2015 R.G.N. 623/2015;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

24/01/2017 dal Consigliere Dott. PAOLO NEGRI DELLA TORRE;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

MASTROBERARDINO Paola, che ha concluso per il rigetto del ricorso;

udito l’Avvocato CLAUDIO MOSCATI;

udito l’Avvocato SERGIO CARNEVALE.

Fatto

FATTI DI CAUSA

Con sentenza n. 961/2015, depositata il 24 settembre 2015, la Corte di appello di Bologna respingeva il reclamo principale proposto da G.G. nei confronti della sentenza del Tribunale di Bologna che, pronunciando sulla domanda di illegittimità del licenziamento per giusta causa allo stesso intimato, con lettera in data 7/8/2013, da Aviva Italia S.p.A. per abuso della connessione internet del PC assegnatogli in dotazione nei mesi di aprile e maggio 2013, aveva, in parziale accoglimento dell’opposizione del lavoratore, dichiarato risolto il rapporto fra le parti e condannato la società, L. n. 300 del 1970, ex art. 18, comma 5, come modificato dalla L. n. 92 del 2012, al pagamento di un’indennità risarcitoria nella misura di venti mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto.

La Corte territoriale, escluso che la contestazione disciplinare non fosse tempestiva o sufficientemente specifica, anche in relazione alla specificazione della norma violata, ed escluso altresì che il provvedimento fosse stato comunicato oltre il termine di quindici giorni stabilito dalla contrattazione collettiva per la conclusione del procedimento, dovendosi avere riguardo al momento di spedizione dell’atto, osservava, in primo luogo, come la dedotta violazione della normativa sulla riservatezza non potesse ritenersi attinente al caso di specie, posto che la società si era limitata a verificare l’esistenza di accessi indebiti alla rete ed i relativi tempi di collegamento, senza compiere alcuna analisi dei siti visitati dal dipendente durante la navigazione o della tipologia dei dati scaricati, nè che si vertesse in materia di controllo a distanza della prestazione lavorativa. Osservava, quindi, come i fatti, di cui all’addebito, non risultassero in sè contestati e comunque emergessero dal dettaglio del traffico e, d’altra parte, il ricorrente, pur avendone l’onere, non aveva dimostrato, e prima ancora allegato, che la navigazione fosse avvenuta per motivi di lavoro: si era, pertanto, ad avviso della Corte di appello, di fronte ad un utilizzo della dotazione aziendale per fini personali non sporadica o eccezionale ma, al contrario, sistematica, e ciò in considerazione del numero delle connessioni (47), della durata dell’accesso (complessivamente 45 ore) e della rilevante entità dei volumi di traffico; ne conseguiva la legittimità del provvedimento espulsivo adottato dalla società, anche se – notava la Corte – non poteva configurarsi una giusta causa di recesso, in relazione all’assenza di precedenti, al fatto che la condotta illecita non aveva inciso sull’attività professionale e all’esiguità del danno sofferto dall’azienda, e la fattispecie richiedeva invece la conversione del recesso, così come intimato, in licenziamento per giustificato motivo soggettivo. Su tali premesse, e in parziale accoglimento del reclamo incidentale della società, il giudice di secondo grado, disposta la conversione, condannava Aviva Italia S.p.A. al pagamento della indennità sostitutiva del preavviso, oltre accessori di legge, con compensazione per intero delle spese di entrambi i gradi.

Ha proposto ricorso per la cassazione della sentenza il G. con nove motivi, illustrati da memoria; la società ha resistito con controricorso.

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

Con il primo motivo, deducendo violazione e/o falsa applicazione della L. n. 300 del 1970, art. 7, e degli artt. 26, 28, 70, 75 e 77 del CCNL per il personale dipendente non dirigente delle imprese di assicurazione, in relazione agli artt. 1362 e 1363 c.c., nonchè violazione e/o falsa applicazione degli artt. 1334 e 1335 c.c., il ricorrente censura la sentenza impugnata per avere erroneamente ritenuto che il termine per l’irrogazione della sanzione fosse stato rispettato dal datore di lavoro con la spedizione della relativa lettera di comunicazione entro i quindici giorni (decorrenti dalla data di presentazione delle difese scritte del lavoratore) fissati dalla contrattazione collettiva, nonostante che il tenore delle norme e la natura di atto ricettizio del licenziamento richiedessero che, entro tale termine, l’atto fosse anche portato a conoscenza del destinatario.

Con il secondo motivo, deducendo illegittimità per errore in procedendo (art. 360 c.p.c., n. 4), con riguardo all’onere di motivazione ex art. 132 c.p.c., e violazione e/o falsa applicazione dell’art. 111 Cost., il ricorrente si duole che la Corte non abbia fornito, sulla questione di cui al primo motivo, una motivazione compiuta.

Con il terzo motivo, deducendo la violazione e/o falsa applicazione della L. n. 300 del 1970, art. 7, art. 2104 c.c., artt. 28 e 100 CCNL di riferimento, anche in relazione agli artt. 1362 e 1363 c.c., nonchè violazione dell’art. 24 Cost., il ricorrente censura la sentenza impugnata per avere, ascrivendo la condotta addebitata a violazione delle elementari regole del vivere comune, ritenuto irrilevante il fatto che egli – come emerso nel corso del giudizio – non avesse avuto conoscenza preventiva (come non l’aveva avuta neppure in sede di procedimento disciplinare, con pregiudizio del diritto di difesa) del regolamento sull’utilizzo degli apparati mobili aziendali del luglio 2011, nonostante che tale regolamento fosse da considerarsi come il documento fondamentale per l’identificazione dei comportamenti ammissibili o meno in materia e che, proprio in ragione di tale importanza, la società lo avesse espressamente indicato nella lettera di contestazione tra le disposizioni che definivano la valenza disciplinare della condotta.

Con il quarto motivo, denunciando il vizio di cui all’art. 360, n. 5, il ricorrente si duole che la Corte abbia omesso di prendere in esame il fatto della mancata consegna (e, quindi, della mancata conoscenza) del regolamento del luglio 2011 sull’utilizzo degli apparati mobili aziendali.

Con il quinto motivo, deducendo la violazione e/o falsa applicazione del D.Lgs. n. 196 del 2003, artt. 4, 7, 10, 11, 13, 23 e 123, (Codice in materia di protezione dei dati personali), delle Direttive n. 95/46/CE e n. 2002/58/CE, delle “Linee guida dell’Autorità Garante per la protezione dei dati personali” assunte con deliberazione n. 13 in data 1/3/2017 e dell’art. 25 bis del CCNL di riferimento, nonchè la violazione e/o falsa applicazione della L. n. 300 del 1970, art. 4, in relazione al D.Lgs. n. 196 del 2003, art. 114, il ricorrente censura la sentenza impugnata nella parte in cui il giudice del reclamo ha ritenuto non attinente al caso di specie la normativa sulla tutela della riservatezza, e ciò sul rilievo che il datore non aveva analizzato quali siti il dipendente avesse visitato durante la navigazione in internet, nè di quale tipo fossero i dati che aveva scaricato, nè se li avesse salvati sul pc, posto che, contrariamente a quanto così ritenuto, anche i dati relativi alla data, all’ora, alla durata e al volume del traffico, i soli riportati nella lettera di contestazione, erano da considerarsi ad ogni effetto “dati personali”, con ogni conseguenza circa le modalità di trattamento e di utilizzo; ed inoltre nella parte in cui ha ritenuto non conferente il richiamo alla L. n. 300 del 1970, art. 4, sul rilievo della estraneità della concreta fattispecie al tema del controllo a distanza della prestazione lavorativa, peraltro senza tener conto della disciplina dettata dall’Autorità Garante per la protezione dei dati personali ed espressamente recepita dal CCNL di settore.

Con il sesto motivo, deducendo violazione e/o falsa applicazione degli artt. 2119 e 2106 c.c., L. n. 300 del 1970, art. 7, L. n. 183 del 2010, art. 30 comma 3, L. n. 604 del 1966, art. 3, in relazione agli art. 1453 e 1455 c.c., agli artt. 26, 75 e 76 CCNL di riferimento e agli artt. 1362 e 1363 c.c., nonchè violazione e/o falsa applicazione degli artt. 115 e 116 c.p.c., il ricorrente censura la sentenza impugnata per non avere il giudice del reclamo, nel ritenere dimostrato l’illecito disciplinare, compiuto il pur necessario accertamento dell’elemento soggettivo (oltre che dei fatti oggettivi) e, in particolare, per non avere considerato – ciò che lo avrebbe portato a escludere la sussistenza di tale elemento – che il lavoratore non aveva ricevuto comunicazione del regolamento aziendale del luglio 2011 e che, pertanto, non era stato preventivamente edotto dal proprio datore di lavoro in ordine alle modalità e ai limiti cui si sarebbe dovuto attenere nell’utilizzo della strumentazione affidatagli. Con il settimo motivo, denunciando il vizio di motivazione, il ricorrente si duole che la Corte non abbia preso in esame diversi fatti idonei a smentire, o comunque a mitigare, la reale portata dell’addebito e segnatamente il difetto di indicazioni circa eventuali restrizioni nell’utilizzo della chiavetta per la navigazione in internet, la mancata comunicazione del regolamento del luglio 2011, la sostanziale insussistenza di un danno di natura economica per la società e il carattere marginale dei fatti contestati e sanzionati rispetto ad un’attività lavorativa sempre esercitata con serietà.

Con l’ottavo motivo, deducendo violazione e/o falsa applicazione degli artt. 2119 e 2106 c.c., L. n. 300 del 1970, art. 7, L. n. 183 del 2010, art. 30 comma 3, L. n. 604 del 1966, art. 3, in relazione all’art. 1455 c.c., agli artt. 26, 75 e 76 CCNL di riferimento e agli artt. 1362 e 1363 c.c., nonchè violazione e/o falsa applicazione degli artt. 115 e 116 c.p.c., il ricorrente censura la sentenza per non avere valutato che la sanzione (anche nella sua conversione in licenziamento per giustificato motivo soggettivo) risultava del tutto sproporzionata rispetto ai fatti contestati, alla stregua degli elementi già posti in rilievo nei precedenti motivi sesto e settimo.

Con il nono motivo, infine, il ricorrente, denunciando il vizio di motivazione e la violazione dell’art. 112 (art. 360, n. 3), si duole, ancora con riferimento al giudizio di proporzionalità, dell’omesso esame dei fatti decisivi riportati nei precedenti motivi settimo e ottavo.

Il primo e il secondo motivo di ricorso possono essere esaminati congiuntamente, in quanto entrambi attengono, se pure sotto i differenti angoli visuali di vizi distinti, al capo di pronuncia relativo alla tempestività, rispetto alle previsioni collettive, dell’adozione e comunicazione del provvedimento disciplinare da parte del datore di lavoro.

I motivi in esame risultano infondati.

In primo luogo, è da ritenersi corretta la lettura che il giudice di merito ha dato dell’art. 28 CCNL per il personale dipendente non dirigente delle imprese di assicurazione, là dove è stabilito (co. 2) che “qualora decida di adottare un provvedimento, l’Impresa lo comunicherà all’interessato entro i successivi 15 giorni oppure entro 15 giorni dal ricevimento delle eventuali difese scritte presentate dal lavoratore”, considerando assolto l’onere così posto a carico del datore di lavoro, ai fini della ritualità del procedimento di applicazione della sanzione, con la mera spedizione della lettera di comunicazione del provvedimento. La previsione collettiva tende, infatti, manifestamente a contemperare l’interesse, che è comune ad entrambe le parti, ad una pronta e sollecita definizione del procedimento, quale episodio che si inscrive patologicamente nell’esecuzione del rapporto, con l’interesse ad una vera e adeguata ponderazione della inevitabilità della sanzione e del contenuto giustificativo delle difese svolte dal dipendente: interesse che appare anch’esso comune ad entrambe le parti del rapporto, essendo chiara la necessità, anche per il datore di lavoro, di uniformare la propria azione, nel più generale contesto delle relazioni aziendali, ai canoni di correttezza e buona fede (e, per la ipotesi in cui ricorrano elementi gravi e obiettivamente rilevanti, idonei a comportare l’adozione di un provvedimento espulsivo, anche di vagliare gli effetti della perdita, che l’adozione di tale provvedimento determinerebbe, di un’eventuale risorsa di specifica e non sostituibile importanza professionale ai fini del conseguimento delle finalità dell’impresa); ma che è di particolare rilievo per il lavoratore, che deve poter contare su di una valutazione concreta e approfondita sia dei presupposti fattuali di possibile rilievo disciplinare, sia (nel caso di presentazione di difese scritte) su di un esame attento degli elementi portati a propria discolpa.

Di tale preminente rilievo è conferma nel successivo comma terzo dell’art. 28, là dove è previsto che il termine di quindici giorni può essere prorogato di altri quindici “per esigenze derivanti da difficoltà nella fase di valutazione delle difese scritte del lavoratore”.

Su tali premesse non può condividersi un’interpretazione della norma che dia assorbente rilievo, rispetto alla comune volontà delle parti di definire una disciplina che costituisca punto di incontro e di bilanciamento, al dato letterale imperniato sul verbo “comunicherà”, interpretazione la cui naturale conseguenza sarebbe solo quella di comprimere la durata del termine sulla base del computo di un rischio “tecnico” connesso ai tempi di esecuzione dell’attività partecipativa, e, in quanto tale, non soggetto a(controllo del mittente, ove essa, come d’ordinario, venga affidata al servizio postale, nella carente idoneità di altri mezzi (come il telefax) a garantire la certezza della conoscenza e in difetto dell’obbligo del dipendente di dotarsi un indirizzo di posta elettronica certificata; mentre il destinatario non potrebbe dolersi di una ricezione che, superando in misura non apprezzabile il termine di quindici giorni fissato dalla norma, vedrebbe comunque assicurata, sul piano sostanziale e della effettività, la tutela del rilevante interesse di cui è portatore.

Non rileva, d’altra parte, per una diversa ricostruzione della fattispecie, la natura ricettizia del licenziamento, che attiene al momento in cui l’atto acquista efficacia, ponendosi invece, con la censura espressa nel primo motivo, la diversa questione se il termine di quindici giorni, stabilito dalla contrattazione collettiva, possa dirsi rispettato dal datore di lavoro mittente con la semplice spedizione (come esattamente ritenuto dalla Corte territoriale, per tutto quanto sopra osservato) ovvero richieda anche il compimento del procedimento di comunicazione.

E’, poi, da escludere che la motivazione adottata dal giudice di merito nel risolvere la questione sia inesistente, posto che la sentenza contiene una parte, pur nella sua brevità, specificamente dedicata ad essa, nè che sia apparente, potendo correttamente ritenersi tale la motivazione che non permetta di ricostruire la ragione decisoria posta alla base della decisione assunta, mentre, nella specie, la Corte, lungi dall’asserire il mero fatto di un’avvenuta osservanza del termine, ha chiaramente affermato, nell’alveo concettuale della scissione tra spedizione e ricezione, l’idoneità e sufficienza del primo elemento dicotomico.

Il terzo motivo è infondato.

Al riguardo, si osserva come il fatto che il ricorrente non fosse stato posto nelle condizioni di conoscere tempestivamente le disposizioni sull’utilizzo degli apparati mobili aziendali, contenute nel regolamento in data 1 luglio 2011, non attiene al requisito di specificità che deve possedere la contestazione disciplinare, operando sul diverso piano dell’ascrizione di una condotta di cui si assume che non potesse essere nota la illiceità.

Se, poi, la censura, come sembra doversi desumere da una complessiva lettura del motivo, ha riguardo alla diversa disposizione di cui alla L. n. 300 del 1970, art. 7, comma 1, allora è da ritenere che essa – al pari di quella relativa alla mancata consegna del regolamento in sede di procedimento disciplinare, con pregiudizio del diritto di difesa – non sia tale da poter rimuovere criticamente la ragione decisoria posta dalla Corte territoriale a sostegno delle proprie conclusioni e cioè l’accertata contrarietà della condotta, riassunta dalla Corte in un ampio e indebito utilizzo dello strumento aziendale per finalità estranee all’attività lavorativa, alle “elementari regole del vivere comune” e al contenuto precettivo tanto dell’art. 2104 c.c., come dell’art. 100 CCNL di settore, entrambi esplicitamente richiamati nella lettera di contestazione.

E’ infatti consolidato l’orientamento di legittimità, per il quale “l’onere di pubblicità del cosiddetto codice disciplinare, previsto dalla L. n. 300 del 1970, art. 7, comma 1, si applica al licenziamento disciplinare soltanto nei limiti in cui questo sia stato intimato per una delle specifiche ipotesi di comportamento illecito vietate e sanzionate con il provvedimento espulsivo da norme della contrattazione collettiva o da quelle validamente poste dal datore di lavoro entrambe soggette all’obbligo della pubblicità per l’esigenza di tutelare il lavoratore contro il rischio di incorrere nel licenziamento per fatti da lui non preventivamente conosciuti come mancanze – e non anche quando, senza avvalersi di una di queste specifiche ipotesi, il datore di lavoro contesti un comportamento che, secondo quanto accertato in fatto dal giudice del merito, integri una violazione di una norma penale, o sia manifestamente contrario all’etica comune, ovvero concreti un grave o comunque notevole inadempimento dei doveri fondamentali connessi al rapporto di lavoro, quali sono gli obblighi di diligenza e di fedeltà prescritti dagli artt. 2104 e 2105 c.c., poichè in tali casi il potere di licenziamento deriva direttamente dalla legge (art. 2119 c.c., e L. n. 604 del 1966, artt. 1 e 3): Cass. n. 14615/2000. Conformi, fra le altre: n. 6134/2001; n. 23120/2004.

E’ stato, inoltre, ripetutamente affermato nella giurisprudenza di questa Corte che l’obbligo di diligenza previsto dall’art. 2104 c.c., costituendo una specificazione del principio generale di cui all’art. 1176 c.c., comma 2, deve essere valutato con ampio e complessivo riguardo alla natura dell’attività esercitata, in particolare rilevandosi, a questo proposito, che il contenuto dell’obbligo si sostanzia non solo nell’esecuzione della prestazione lavorativa secondo la particolare natura di essa (diligenza in senso tecnico) ma anche nell’esecuzione di quei comportamenti accessori che si rendano necessari in relazione all’interesse del datore di lavoro ad un’utile prestazione (cfr., in tal senso, già Cass. n. 3845/1992; cfr., più di recente, fra le molte: n. 12769/2000 e n. 7398/2010).

Il quarto motivo è, per un verso, inammissibile, là dove lamenta, in relazione all’art. 360, n. 5, l’omesso esame del fatto decisivo per il giudizio costituito dalla mancata consegna, e quindi dalla mancata conoscenza, da parte del lavoratore, del regolamento aziendale sull’utilizzo degli apparti mobili, e, per altro verso, infondato, là dove, pur non esprimendola nella rubrica, muove alla sentenza impugnata una censura di motivazione apparente (se non addirittura inesistente): (a) inammissibile, in quanto della circostanza dedotta come omessa nella ricostruzione fattuale del giudice del reclamo non si dimostra la valenza “decisiva” (e cioè l’idoneità a determinare un esito diverso della decisione), in rapporto alla ratio su cui si fonda la pronuncia, e comunque essa, diversamente da quanto allegato, ha formato oggetto di specifico esame da parte del giudice (cfr. sentenza, p. 8, prima parte), che ne ha escluso la rilevanza nella fattispecie concreta, in coerenza, del resto, con le proprie valutazioni; (b) infondato, per le stesse considerazioni già svolte a proposito del secondo motivo, avendo la Corte fornito una motivazione sintetica ma del tutto adeguata a far comprendere le essenziali ragioni a sostegno della conclusioni raggiunte.

Il quinto motivo, per ciò che attiene alla violazione della normativa sulla tutela della riservatezza, è inammissibile, in quanto non censura specificamente l’affermazione centrale del ragionamento della Corte territoriale, per la quale la possibilità di configurare, nella specie, una tale violazione è da ritenersi esclusa, sul rilievo che “l’azienda non ha analizzato quali siti” il G. “ha visitato durante la navigazione in internet, nè la tipologia di dati che ha scaricato, nè infine se li ha salvati sul p.c.” (p. 9); e comunque è infondato, atteso che i dettagli del traffico, quali esclusivamente indicati nella lettera di contestazione disciplinare (data, ora, durata della connessione e importo del traffico), secondo l’accertamento compiuto sul punto dal giudice del merito, non costituiscono dati personali, non comportando alcuna indicazione di elementi riferibili alla persona dell’utente e di sue scelte o attitudini politiche, religiose, culturali, sessuali, rimanendo confinati in una sfera estrinseca e quantitativa che è di per sè sovrapponibile, senza alcuna capacità di individuazione, ad un numero indistinto di utenti della rete.

Il motivo risulta, poi, palesemente inammissibile, con riferimento a quella parte della sentenza in cui la Corte ha dichiarato inconferente il richiamo alla L. n. 300 del 1970, art. 4, sul rilievo che nella specie non si verte “in materia di controllo a distanza della prestazione lavorativa” (cfr. ancora p. 9), risolvendosi la censura in una pura manifestazione di dissenso rispetto alla pronuncia del giudice, non sostenuta da alcun riferimento alla natura, all’oggetto e alle finalità del c.d. controllo a distanza del lavoratore e dalla positiva dimostrazione dell’esistenza, negata dalla decisione impugnata, dei presupposti per l’applicabilità della relativa disciplina.

Si deve, in ogni caso, precisare che è controllo a distanza, ai sensi della L. n. 300 del 1970, art. 4, l’attività che abbia ad oggetto la prestazione lavorativa e il suo esatto adempimento, restando esclusa dal campo di applicazione della norma quella che sia volta a individuare la realizzazione di comportamenti illeciti da parte del dipendente, idonei a ledere il patrimonio aziendale sotto il profilo della sua integrità e del regolare funzionamento e della sicurezza degli impianti (cfr. da ultimo Cass. n. 10955/2015).

I motivi sesto, settimo, ottavo e nono possono essere esaminati congiuntamente, in quanto, sulla base della riproposizione di rilievi già formulati nei motivi precedenti, tendono a censurare l’accertamento di fatto compiuto dal giudice di merito, sotto i profili dell’elemento soggettivo e della proporzionalità tra fatto e sanzione.

I motivi in esame sono infondati.

Ed invero, nel presupposto (che resiste, come si è notato, alle censure mosse con i motivi terzo e quarto) della ininfluenza della mancata consegna del regolamento aziendale e della essenziale rilevanza, al contrario, di un ampio e indebito utilizzo dello strumento, contrario alle regole elementari del vivere comune, la Corte territoriale ha proceduto ad un’articolata ricognizione della fattispecie, prendendo in esame l’insieme complessivo delle circostanze del caso concreto, anche di natura soggettiva, conformemente a consolidato orientamento di questa Corte (cfr., fra le molte, Cass. n. 7543/2006), e, in tal modo, sottraendosi alle critiche svolte con i motivi in esame.

In particolare, il giudice di merito ha posto in rilievo come ci si trovi di fronte, nella specie, “ad un utilizzo della dotazione aziendale per fini personali non sporadica e/o eccezionale, bensì sistematica in considerazione della frequenza (complessivamente 27 connessioni), della durata dell’accesso (complessivamente 45 ore) e dello scambio di dati di traffico (migliaia di kbyte)” e come tale condotta integri con evidenza un utilizzo indebito dello strumento aziendale non solo “reiterato” ma anche, e di conseguenza, “intenzionale” (pp. 11-12).

Sulla base di tali elementi, come della loro correlazione al “ruolo” di responsabilità che il G. ricopriva in azienda (“di controllore della qualità dei sinistri sul territorio nazionale”: cfr. ancora pp. 11-12), la Corte è infine pervenuta a ritenere legittima l’adozione di un provvedimento espulsivo, pur dando atto di una serie di elementi idonei a privare di un persuasivo fondamento la ritenuta giusta causa di recesso.

Si tratta di un insieme unitario di accertamenti di fatto che rientrano nella competenza esclusiva del giudice di merito e rispetto ai quali l’insieme di circostanze, specificate nel sesto e nel settimo motivo per essere ulteriormente riprese in quelli successivi, non si offrono come “decisive” al fine di una diversa ricostruzione della fattispecie.

Il ricorso deve conclusivamente essere respinto.

Le spese seguono la soccombenza e si liquidano come in dispositivo.

PQM

 

La Corte rigetta il ricorso; condanna il ricorrente al pagamento delle spese del presente giudizio di legittimità, liquidate in Euro 200,00 per esborsi e in Euro 4.000,00 per compensi professionali, oltre rimborso spese generali al 15% e accessori di legge.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.

Così deciso in Roma, nella Camera di Consiglio, il 24 gennaio 2017.

Depositato in Cancelleria il 15 giugno 2017

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