Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 14841 del 06/07/2011

Cassazione civile sez. un., 06/07/2011, (ud. 07/06/2011, dep. 06/07/2011), n.14841

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONI UNITE CIVILI

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. VITTORIA Paolo – Primo Presidente f.f. –

Dott. PROTO Vincenzo – Presidente Sezione –

Dott. FIORETTI Francesco Maria – Consigliere –

Dott. GOLDONI Umberto – Consigliere –

Dott. SALME’ Giuseppe – Consigliere –

Dott. SALVAGO Salvatore – rel. Consigliere –

Dott. BUCCIANTE Ettore – Consigliere –

Dott. SPIRITO Angelo – Consigliere –

Dott. PETITTI Stefano – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso proposto da:

GESTIONI ASSOCIATE S.R.L., in persona del legale rappresentante pro-

tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIALE ANGELICO 103,

presso lo studio dell’avvocato LETIZIA MASSIMO, che la rappresenta e

difende unitamente agli avvocati SUCCI ANTONELLA, COLAGRANDE ROBERTO,

per delega a margine del ricorso;

– ricorrente –

contro

COMUNE DI ROMA (ora ROMA CAPITALE), in persona del Sindaco pro-

tempore, elettivamente domiciliato in ROMA, VIA DEL TEMPIO DI GIOVE

21, presso gli Uffici dell’Avvocatura comunale, rappresentato e

difeso dall’avvocato SABATO NICOLA, per delega a margine del

controricorso;

– controricorrente –

avverso la decisione n. 4673/2009 del CONSIGLIO DI STATO, depositata

il 23/07/2009;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

07/06/2011 dal Consigliere Dott. SALVATORE SALVAGO;

uditi gli avvocati Massimo LETIZIA, Roberto COLAGRANDE, Nicola

SABATO;

udito il P.M. in persona dell’Avvocato Generale Dott. CICCOLO

Pasquale Paolo Maria, che ha concluso per l’inammissibilità del

ricorso.

Fatto

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

Il TAR Lazio, con sentenza del 21 novembre 2008,respinse il ricorso della s.r.l. Gestioni Associate contro la determina 2805/2007 del Dirigente della U.O.T. che, sul presupposto che detta società avesse eseguito senza concessione edilizia sulla riva sinistra del fiume Tevere,all’altezza del (OMISSIS), l’ancoraggio alla banchina di un edificio galleggiante, ne aveva intimato la demolizione ed il ripristino dello stato dei luoghi.

L’appello della società è stato rigettato dal Consiglio di Stato con sentenza del 23 luglio 2009,in quanto: anche i galleggianti stabilmente ancorati alle sponde di un fiume sono soggetti al regime del D.P.R. n. 380 del 2001, artt. 3, 10 e 35 e perciò necessitano di permesso di costruire,non conseguito dalla società; b)che nella specie trattavasi di galleggiante di tre piani con terrazzo occupante una superficie acquea di 300 mq. perciò giustamente compreso dal TAR nella disposizione del menzionato D.P.R. del 2001, art. 3, che vi include espressamente l’installazione di imbarcazioni che siano utilizzate come abitazioni,ambienti di lavoro,oppure come depositi magazzini e simili e che non siano diretti a soddisfare esigenze meramente temporanee.

Per la cassazione della sentenza la società ha proposto ricorso per un motivo, cui resiste con controricorso il comune di Roma, il quale ha eccepito l’inammissibilità per tardività del ricorso.

Diritto

MOTIVI DELLA DECISIONE

Con il ricorso, la s.r.l. Gestioni associate deducendo eccesso di potere giurisdizionale del Consiglio di Stato in violazione dell’art. 111 Cost., per avere sconfinato in valutazioni di merito, si duole che la sentenza impugnata, malgrado la determina dirigenziale avesse riguardato l’ancoraggio del galleggiante alla banchina ravvisando l’opera abusiva nel relativo sistema e non nella struttura del galleggiante in quanto tale, abbia innovato l’assetto amministrativo predisposto dal provvedimento, prefigurando un’integrale demolizione del galleggiante mai disposta dalla determina; ed ampliandone gli effetti dal sistema di ancoraggio alla banchina alla intera struttura galleggiante,con conseguente reformatio in pejus, per di più di ufficio, della decisione del TAR che nel delineare la portata del provvedimento repressivo si era riferita alla sola installazione della struttura.

Il ricorso, notificato nel termine di cui all’art. 327 cod. proc. civ., è ammissibile in quanto prima di esso la società Gestioni non aveva proposto alcun’altra impugnazione contro la decisione 23 luglio 2009 del Consiglio di Stato, che perciò equivalesse – agli effetti della scienza legale – alla notificazione della sentenza suddetta (Cass. 2055/2010; 5548/1996), nè aveva avuto conoscenza legale del provvedimento suddetto per effetto di un’attività svolta nel presente processo (Cass. 7962/2009; 15359/2008): essendosi limitata dapprima a proporre un secondo ricorso al TAR (e quindi un altro giudizio) per l’ottemperanza alla precedente decisione 21 novembre 2008 di detto giudice (confermata dalla sentenza impugnata e quindi passata in giudicato) e contro altra determinazione dirigenziale 7 aprile 2009 per l’esecuzione di quella impugnata nel presente giudizio; e successivamente ricorso per revocazione contro una successiva decisione del Consiglio di Stato (2636/2010) del tutto estranea a questo giudizio. Il ricorso è tuttavia infondato.

Con riguardo alle pronunzie del Consiglio di Stato, l’eccesso di potere giurisdizionale, denunziabile ai sensi dell’art. 111 Cost., sotto il profilo dello sconfinamento nella sfera del merito, è configurabìle soltanto allorchè l’indagine svolta non sia rimasta nei limiti del riscontro di legittimità del provvedimento impugnato, ma sia stata strumentale a una diretta e concreta valutazione dell’opportunità e convenienza dell’atto: nel caso, invece, neppure menzionate dalla sentenza. Ovvero quando la decisione finale, pur nel rispetto della formula dell’annullamento, esprima una volontà dell’organo giudicante che si sostituisce a quella dell’amministrazione, nel senso che, procedendo ad un sindacato di merito, si estrinsechi in una pronunzia autoesecutiva, intendendosi per tale quella che abbia il contenuto sostanziale e l’esecutorietà stessa del provvedimento sostituito, senza salvezza degli ulteriori provvedimenti dell’autorità amministrativa (Cass. 28263/2005;

19664/2003). Tutt’altro è invece il contenuto della sentenza impugnata che non ha annullato affatto la determina dirigenziale 2875/2007 del Municipio di Roma, ma ha semplicemente confermato la decisione del TAR che aveva respinto l’impugnazione della società contro il provvedimento suddetto. E che nella motivazione ha limitato l’esame al solo “unico articolato motivo di appello” della società contro questa sentenza dichiarando di non condividerlo ed esplicitandone le ragioni in quanto la società aveva insistito nel sostenere l’inapplicabilità della normativa del D.P.R. n. 380 del 2001, artt. 3 e 10, per non avere effettuato alcuna installazione sul suolo demaniale (di cui il successivo art. 35 prevede la demolizione). Laddove il Consiglio di Stato ha condiviso l’interpretazione di dette disposizioni da parte del TAR e muovendo dal tenore letterale del comma 1 sub c) di detto art. 3 ha incluso nella categoria delle “installazioni” anche gli impianti fissi galleggianti collocati in uno spazio acquatico e non solo terrestre:

senza rivolgere alcuna considerazione all’assetto amministrativo delineato dal comune nella determina e senza modificarne la nozione di “installazione” in esso contenuta che invece entrambi i giudici amministrativi hanno interamente condiviso.

Per cui, conclusivamente, il ricorso sotto l’apparente prospettazione di eccesso di potere giurisdizionale da parte della decisione impugnata, le addebita in sostanza una violazione di legge commessa dal Consiglio di Stato nell’interpretazione della menzionata normativa del T.U. del 2001 con riferimento alla categoria delle “installazioni” per cui è richiesto il permesso di costruire non rientrante nell’ambito del ricorso per cassazione di cui all’art. 111 Cost., u.c..

E d’altra parte tale asserito errore di giudizio non può configurare neppure l’eccesso di potere giurisdizionale per invasione della sfera di attribuzioni riservata al legislatore,che è figura di rilievo meramente teorico: in quanto – postulando che il giudice applichi, non la norma esistente, ma una norma da lui creata – può ipotizzarsi solo a condizione di poter distinguere un’attività di produzione normativa inammissibilmente esercitata dal giudice, da un’attività interpretativa, la quale non ha una funzione meramente euristica, ma si sostanzia in un’opera creativa della volontà della legge nel caso concreto (Cass. 24175/2004; 11091/2003).

Le spese de giudizio seguono la soccombenza e si liquidano come da dispositivo.

P.Q.M.

La Corte a sezioni unite, dichiara inammissibile il ricorso e condanna la società ricorrente al pagamento delle spese processuali che liquida in favore del comune di Roma in complessivi Euro 7.200,00 di cui Euro 7.000,00 per onorario di difesa,oltre a spese generali ed accessori come per legge.

Così deciso in Roma, il 7 giugno 2011.

Depositato in Cancelleria il 6 luglio 2011

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