Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 14840 del 10/07/2020

Cassazione civile sez. I, 10/07/2020, (ud. 01/07/2020, dep. 10/07/2020), n.14840

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE PRIMA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. GENOVESE Francesco Antonio – Presidente –

Dott. MERCOLINO Guido – Consigliere –

Dott. TERRUSI Francesco – Consigliere –

Dott. PAZZI Alberto – Consigliere –

Dott. CARADONNA Lunella – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso n. 3075/2019 proposto da:

D.A., rappresentato e difeso dall’Avv. Mariagrazia

Stigliano, elettivamente domiciliato presso il suo studio in

Taranto, per mezzo di procura allegata al ricorso per cassazione.

– ricorrente –

contro

Ministero dell’Interno, in persona del Ministro in carica,

domiciliato ex lege in Roma, Via dei Portoghesi, 12, presso gli

uffici dell’Avvocatura Generale dello Stato.

– resistente –

avverso il decreto del Tribunale di BARI n. cronol. 241/2019 del 12

gennaio 2019;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio

dell’1/07/2020 dal consigliere Lunella Caradonna.

Fatto

FATTI DI CAUSA

1. D.A., nato in Senegal, in data 1 gennaio 2020, ha proposto ricorso avverso la decisione della Commissione territoriale competente del 15 gennaio 2019, che aveva rigettato la domanda volta al riconoscimento dello status di rifugiato e le domande di protezione sussidiaria e umanitaria.

2. Il richiedente ha dichiarato di essere originario di Medina Gounass, regione di Kolda-Casamance, e che la madre si era risposata con uno zio che lo maltrattava e lo picchiava ogni giorno; che, rifugiatosi nel 2012 presso uno zio materno, finiva per chiedere l’elemosina; che aveva una scheggia nel collo di una bomba esplosa in Libia e un proiettile nel polso.

3. Il Tribunale ha rigettato il ricorso, affermando che dal narrato emergeva un conflitto privatistico e che non vi era una vessazione o repressione violenta; che non sussistevano ipotesi di danno grave e non si ravvisava nel Paese di provenienza la presenza di un conflitto armato interno da cui potesse conseguire violenza indiscriminata tale da comportare una minaccia individualizzata a danno del ricorrente; che non sussistevano, infine, profili di vulnerabilità non essendo sufficiente la sola età del richiedente, nè si poteva dire attuato un percorso di integrazione socio-economica riscontrato con un contratto di apprendistato stipulato in corso di giudizio e con le relazioni sociali e le attestazioni di frequenza a corsi di lingua italiana o di pittura.

4. D.A. ricorre in cassazione con tre motivi.

5. L’Amministrazione intimata non ha svolto difese.

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

1. Con il primo motivo D.A. lamenta la violazione e falsa applicazione, ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, del D.Lgs. n. 251 del 2007, artt. 3 e 7 nonchè difetto di motivazione in ordine alla mancata valutazione delle condotte subite dal ricorrente quali atti di persecuzione basati sul genere, essendo stato vittima di violenze domestiche da minorenne dal patrigno e poi da un altro zio in Costa d’Avorio.

1.1 Il motivo è infondato.

1.2 Nel caso concreto, come si evince dalla lettura del provvedimento impugnato, il Tribunale ha ritenuto che, proprio alla stregua del racconto del richiedente, non sussistevano i presupposti della protezione D.Lgs. n. 251 del 2007, ex art. 7 poichè non erano state dedotte situazioni di persecuzione intesa quale vessazione o repressione violenta implacabile e ha, altresì, affermato che il ricorrente aveva ammesso di non essersi mai rivolto alla polizia o al capo villaggio per chiedere protezione, sicchè non era da escludere che le stesse autorità gli avrebbero fornito adeguata tutela.

Inoltre, il Tribunale ha evidenziato che il ricorrente non aveva avuto alcun problema ad andarsene da casa dello zio paterno, ritenendo quindi l’insussistenza di alcun problema di incolumità nel caso di danno grave.

1.3 La decisione censurata, quindi, nel caso in esame, ha valutato, seppure in modo sintetico, ma non apodittico, le dichiarazioni rese dal ricorrente, ritenendo, tuttavia, che fossero assenti, nella specie, atti di persecuzione.

1.4 Orbene se è vero che sono da intendersi atti di persecuzione quelli specificamente diretti contro un genere sessuale o contro l’infanzia, è altrettanto vero che, ai fini del riconoscimento della tutela richiesta, sono necessari altri elementi.

Al riguardo, è lo stesso legislatore che depone per un’ulteriore e necessaria connotazione, quando afferma che gli atti di persecuzione devono essere sufficientemente gravi, per loro natura o frequenza, da rappresentare una violazione grave dei diritti umani fondamentali e tali da dare origine al fondato timore di persecuzione personale e diretta nel Paese d’origine del richiedente, a causa della razza, della religione, della nazionalità, dell’appartenenza ad un gruppo sociale ovvero per le opinioni politiche professate (artt. 1, lett. a e 15, paragrafo 2, della CEDU; D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 2, comma 2, lett. e)).

Rileva, pure, circostanza questa espressamente esclusa dallo stesso richiedente, come rilevato dal Tribunale, l’impossibilità e/o la non volontà di avvalersi della protezione dello stato di cittadinanza e/o di residenza.

Il motivo, sotto lo specifico profilo esaminato, è quindi infondato perchè la motivazione esiste ed è basata su risultanze di causa specificamente richiamate e valutate dal Tribunale e quindi sorretta da un contenuto non inferiore al “minimo costituzionale”, come affermato dalla giurisprudenza di questa Corte, così da sottrarsi al sindacato di legittimità della stessa e alla conseguente valutazione di “anomalia motivazionale” delineata, per quanto detto, come violazione di legge costituzionalmente rilevante (Cass., Sez. U. 7 aprile 2014, n. 8053).

2. Con il secondo motivo D.A. lamenta la violazione e falsa applicazione, ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, del D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 14, lett. b) e c) e del D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 8 per omesso obbligo di indagine istruttoria incombente D.Lgs. n. 25 del 2008, ex art. 8, comma 3.

Ad avviso del ricorrente, il Tribunale non ha fatto oggetto del proprio accertamento nè il narrato del richiedente (da valutarsi quantomeno sotto il profilo della credibilità), nè il contesto geopolitico attuale della regione di Casamance incidente sia sulla protezione sussidiaria, che su quella umanitaria anche sotto il profilo dell’applicazione del principio di non refoulement.

2.1. Il motivo è infondato.

2.2 Già si è detto che le dichiarazioni del ricorrente sono state valutate dal Tribunale e che, proprio, in ragione del loro contenuto, il Tribunale non ha ritenuto sussistenti i presupposti per il riconoscimento dello status di rifugiato.

Anche con specifico riguardo al riconoscimento della protezione sussidiaria D.Lgs. n. 251 del 2007, ex art. 14, lett. a, b e c, il ricorrente non ha nemmeno prospettato il rischio di subire la condanna a morte o l’esecuzione della pena di morte o ancora la possibilità di essere sottoposto a tortura o altra forma di pena o trattamento inumano o degradante nel suo paese di origine, nè risultano indicati elementi idonei ad evidenziare una minaccia individuale alla vita o alla persona, nè una situazione di violenza così generalizzata nel paese di provenienza tale da integrare, in caso di rientro, il pericolo di vita, ciò a fronte dei puntuali riferimenti contenuti del provvedimento impugnato, che ha richiamato specifiche fonti aggiornate alla data del 2017, alle pagine 3 e 4, che escludono l’esistenza di una situazione di violenza indiscriminata nel Paese di origine.

Anche le fonti riportate dal ricorrente, peraltro, confermano il percorso intrapreso dal Governo e diretto ad indebolire i ribelli e parlano di “micro-conflitti”, dando comunque atto di una tregua apprezzabile che favoriva il dialogo.

2.3 Ancora, in tema di cooperazione istruttoria, questa Corte ha ripetutamente affermato che, in materia di protezione internazionale, il richiedente è tenuto ad allegare i fatti costitutivi del diritto alla protezione richiesta, e, ove non impossibilitato, a fornirne la prova, trovando deroga il principio dispositivo, soltanto a fronte di un’esaustiva allegazione, e qualora egli, oltre ad essersi attivato tempestivamente alla proposizione della domanda e ad aver compiuto ogni ragionevole sforzo per circostanziarla, superi positivamente il vaglio di credibilità soggettiva condotto alla stregua dei criteri indicati nel D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 3, comma 5, (Cass., 12 giugno 2019, n. 15794).

Ciò nel rispetto dei principi affermati da questa stessa Corte sull’onere della prova in materia di protezione internazionale, materia che non si sottrae al principio dispositivo, pur nei limiti esposti in relazione al principio della cooperazione istruttoria del giudice, principio quest’ultimo che concerne il versante dell’allegazione e non quello della prova (Cass., 29 ottobre 2018, n. 27336).

Non si può, quindi, dire omessa alcuna attività da parte del giudice di merito in quanto non è stato indicato il contenuto delle allegazioni da verificare, quand’anche in via ufficiosa.

2.4 E’ infondata anche la censura che richiama il principio di non refoulement previsto dall’art. 33 della Convenzione di Ginevra e del D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 19 oltre che dalla direttiva 2008/115/CE.

Senza prescindere dalla genericità della deduzione che manca di ogni puntuale riferimento al caso in esame e manca di confronto con la decisione impugnata, va precisato che l’istituto del divieto di espulsione o di respingimento previsto dal D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 19, comma 1, in cui si declina il più generale principio di non refoulement, resta in ogni caso inserito nel diverso contesto dell’opposizione alla misura espulsiva, che impone al richiedente di prospettare il concreto pericolo di essere sottoposto a persecuzione o a trattamenti inumani e/o degradanti in caso di rimpatrio nel paese di origine, mentre la disciplina della protezione internazionale introduce una misura umanitaria, che conferisce al beneficiario il diritto a non vedersi nuovamente immesso in un contesto di elevato rischio personale, qualora tale condizione venga positivamente accertata dal giudice (Cass., 8 aprile 2019, n. 9762; Cass., 17 febbraio 2011 n. 3898).

3. Con il terzo motivo D.A. lamenta la violazione dell’art. 8 CEDU, art. 2 Cost., in merito al rigetto della protezione umanitaria, essendo titolare di un contratto di lavoro triennale e avendo conseguito molteplici attestati scolastici e professionali e privo di radici familiari in Senegal.

3.1 Sul punto, deve rammentarsi che, come ribadito anche di recente da questa Corte, la protezione umanitaria – secondo i parametri normativi stabiliti dal T.U. n. 286 del 1998, art. 5, comma 6; art. 19, comma 2 e D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 32 – è una misura atipica e residuale, nel senso che essa copre situazioni, da individuare caso per caso, in cui, pur non sussistendo i presupposti per il riconoscimento della tutela tipica (status di rifugiato o protezione sussidiaria), tuttavia non può disporsi l’espulsione e deve provvedersi all’accoglienza del richiedente che si trovi in situazione di vulnerabilità (Cass., 5 aprile 2019, n. 9651).

E tuttavia, la natura residuale ed atipica della protezione umanitaria se da un lato implica che il suo riconoscimento debba essere frutto di valutazione autonoma, caso per caso, e che il suo rigetto non possa conseguire automaticamente al rigetto delle altre forme tipiche di protezione, dall’altro comporta che chi invochi tale forma di tutela debba allegare in giudizio fatti ulteriori e diversi da quelli posti a fondamento delle altre due domande di protezione c.d. “maggiore” (Cass., 7 agosto 2019, n. 21123).

A tal fine, la condizione di “vulnerabilità” del richiedente deve essere verificata caso per caso, all’esito di una valutazione individuale della sua vita privata in Italia, comparata con la situazione personale vissuta prima della partenza ed alla quale si troverebbe esposto in caso di rimpatrio e non è sufficiente l’allegazione di un’esistenza migliore nel Paese di accoglienza, sotto il profilo dell’integrazione sociale, personale o lavorativa, dovendo il riconoscimento di tale diritto allo straniero fondarsi su una valutazione comparativa effettiva tra i due piani, al fine di verificare se il rimpatrio possa determinare la privazione della titolarità e dell’esercizio dei diritti umani, al di sotto del nucleo ineliminabile costitutivo dello statuto della dignità personale, in comparazione con la situazione d’integrazione raggiunta nel Paese di accoglienza (Cass. 15 maggio 2019, n. 13079).

Con specifico riferimento, poi, al parametro dell’inserimento sociale e lavorativo dello straniero in Italia, questo, tuttavia, può assumere rilevanza non quale fattore esclusivo, bensì quale circostanza che può concorrere a determinare una situazione di vulnerabilità personale da tutelare mediante il riconoscimento di un titolo di soggiorno (Cass. 23 febbraio 2018, n. 4455; Cass., 28 giugno 2018, n. 17072; Cass., Sez. U., 13 novembre 2019, n. 29459).

Così facendo, infatti, si prenderebbe altrimenti in considerazione, piuttosto che la situazione particolare del singolo soggetto, quella del suo paese di ordine, in termini del tutto generali e astratti, di per sè inidonea al riconoscimento della protezione umanitaria (Cass., 3 aprile 2019, n. 9304; Cass., Sez. U., 13 novembre 2019, n. 29459, citata).

3.2 Nel caso concreto, invero, il ricorrente non ha mai assolto, nell’intero ricorso, l’onere di allegare e descrivere quali sarebbero le circostanze di fatto, personali e peculiari, che costituiscono riscontro della sussistenza della condizione di grave violazione dei diritti umani e, per ciò solo, giustificative della richiesta di protezione umanitaria.

Il Tribunale ha evidenziato, infatti, che non risultava un’effettiva lesione di diritti fondamentali del richiedente e non era comprovata una situazione di vulnerabilità e che, nonostante l’allegazione di documenti attestanti l’attività lavorativa svolta, il livello di integrazione raggiunto non poteva essere considerato elemento sufficiente al rilascio del permesso di soggiorno per motivi umanitari. Il Tribunale ha, inoltre, precisato che lo stesso ricorrente aveva riferito di essere espatriato non per ragioni di grave indigenza, ma perchè lo zio paterno gli aveva imposto di pascolare le mucche, piuttosto che frequentare gli studi, attività alla quale lui aspirava.

4. Il ricorso va, conclusivamente, rigettato.

Nulla sulle spese poichè l’Amministrazione intimata non ha svolto attività difensiva.

PQM

Dichiara inammissibile il ricorso.

Ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater, nel testo introdotto dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17, si dà atto della la sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis ove dovuto.

Così deciso in Roma, nella camera di consiglio, il 1 luglio 2020.

Depositato in Cancelleria il 10 luglio 2020

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