Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 14838 del 14/06/2017


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Cassazione civile, sez. VI, 14/06/2017, (ud. 10/11/2016, dep.14/06/2017),  n. 14838

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SESTA CIVILE

SOTTOSEZIONE 2

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. PETITTI Stefano – Presidente –

Dott. D’ASCOLA Pasquale – Consigliere –

Dott. CORRENTI Vincenzo – Consigliere –

Dott. FALASCHI Milena – rel. Consigliere –

Dott. CRISCUOLO Mauro – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 17556/2015 proposto da:

P.G., T.S., M.S.G.,

C.G., L.I., elettivamente domiciliati in ROMA, VIA GIUSEPPE

FERRARI 4, presso lo studio dell’avvocato SALVATORE CORONAS, che li

rappresenta e difende unitamente all’avvocato UMBERTO CORONAS in

virtù di procure speciali in calce al ricorso;

– ricorrenti –

contro

MINISTERO DELL’ECONOMIA E DELLE FINANZE, in persona del Ministro pro

tempore, elettivamente domiciliato in ROMA, VIA DEI PORTOGHESI 12,

presso l’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO, che lo rappresenta e

difende ope legis;

– controricorrente –

avverso il decreto n. 215/2015 della CORTE D’APPELLO di PERUGIA,

emessa il 03/11/2014 e depositata i103/02/2015;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

10/11/2016 dal Consigliere Relatore Dott. MILENA FALASCHI;

udito l’Avvocato Andrea Sgueglia (delega Avvocato Salvatore Coronas),

per i ricorrenti, che si riporta agli scritti.

Fatto

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

Con ricorso depositato in data 6 giugno 2014 presso la Corte d’appello di Perugia C.G., L.I., P.G., T.S. e M.S.G., nonchè D.S. e M., in qualità di eredi di D.G.M., hanno proposto opposizione L. n. 89 del 2001, ex art. 5 ter, avverso il decreto presidenziale, del 19 maggio 2014, che aveva respinto la domanda di equa riparazione presentata in relazione al giudizio introdotto dinanzi al TAR Lazio, con ricorso depositato nel settembre 2003, per l’affermazione del diritto dei ricorrenti a percepire, sull’indennità di imbarco, di aeronavigazione o di volo, le maggiorazioni previste dal D.P.R. n. 394 del 1995, art. 5, comma 2,.

Nella resistenza del Ministero dell’economia e delle finanze, la Corte di Appello di Perugia ha rigettato l’opposizione, condividendo l’esclusione nella specie del pregiudizio non patrimoniale normalmente conseguente al protrarsi del giudizio oltre la durata ragionevole, in considerazione della circostanza che la questione interpretativa della L. n. 395 del 1995, art. 5, era stata risolta dalla legge n. 350 del 2003; inoltre la giurisprudenza del Consiglio di Stato sin dal 2004 si era pronunciata nel senso della inesistenza del diritto preteso.

Per la cassazione di tale decreto hanno proposto ricorso i medesimo originari ricorrenti, riportati in epigrafe, sulla base di tre motivi, cui ha replicato l’Amministrazione intimata con controricorso.

Diritto

MOTIVI DELLA DECISIONE

La presente sentenza è redatta con motivazione semplificata così come disposto dal Collegio in esito alla deliberazione in Camera di consiglio.

I ricorrenti censurano con i primi due motivi, sotto il profilo della violazione di norme di diritto (L. n. 89 del 2001, art. 2 e art. 3, commi 4 e 5, dell’art. 6 della CEDU), oltre a vizio di motivazione, che la corte di merito abbia escluso la sussistenza del danno non patrimoniale presumendo la insussistenza di interesse a proseguire nel contenzioso in ragione della legge interpretativa promulgata poco tempo dopo, senza nessun apprezzamento dei precedenti giurisprudenziali favorevoli, anche fino al 2007.

Entrambi i motivi – da trattare congiuntamente per la contiguità argomentativa – sono in parte infondati e in parte inammissibili.

Per ciò che attiene al primo motivo, questa Corte ha più volte affermato che l’ansia e la sofferenza, che normalmente insorgono nella persona quali conseguenze psicologiche del perdurare dell’incertezza sull’assetto delle posizioni coinvolte dal dibattito processuale e nelle quali si sostanzia il danno non patrimoniale per l’eccessivo prolungarsi del giudizio, restano in radice escluse in presenza di una originaria consapevolezza della inconsistenza delle proprie istanze, dato che, in questo caso, difettando una condizione soggettiva di incertezza, viene meno il presupposto del determinarsi di uno stato di disagio (cfr. Cass. n. 255095 del 2008; Cass. n. 21088 del 2005).

Ciò è quanto accaduto nel caso di specie, in cui i ricorrenti hanno azionato una pretesa verso la P.A., derivante da rapporti di pubblico impiego, chiedendo la perequazione del trattamento stipendiale quanto all’assegno di funzione (affinchè venisse accordata la maggiorazione sull’indennità di imbarco, di aeronavigazione o di volo di cui al D.P.R. n. 394 del 1995, art. 5); questione questa risolta dalla legge interpretativa n. 350 del 2003, e comunque da sempre esclusa dal giudice amministrativo (sul presupposto che la voce pretesa non abbia natura stipendiale, ma di assegno accessorio, sia pure pensionabile), risultando la pronuncia del 2007 invocata dagli istanti un orientamento rimasto isolato. Deve quindi concordarsi con la corte di merito che nel periodo in cui l’azione fu proposta (novembre 2003) era, in effetti, già palese l’esito negativo del giudizio introdotto avanti al Giudice adito in presenza di norme che avevano escluso la natura stipendiale dell’assegno de quo, in quanto ne costituiva solo un accessorio.

L’esito sfavorevole agli odierni ricorrenti del giudizio davanti al Tar, determinato nel senso dell’esclusione di ogni tutela di diritto sostanziale alle loro pretese, conseguente dal piano tenore della normativa invocata in ordine alla disciplina del regime stipendiale del pubblico impiego quanto all’indennità in questione, costituisce ragione per escludere per le parti rimaste soccombenti di per sè la tutela predisposta della L. n. 89 del 2001, art. 2, in ipotesi di irragionevole durata del processo, dovendosi fondatamente ritenere che i predetti, introducendo il giudizio avanti al giudice amministrativo nei confronti della pubblica amministrazione abbiano insistito in giudizio nelle loro ragioni, come accertato dal giudice a quo, nella consapevolezza della infondatezza della loro pretesa, che costituiva un chiaro tentativo di forzare il dettato normativo. Ne consegue che deve ritenersi che la Corte di appello di Perugia ha correttamente motivato il rigetto della domanda di equa riparazione sul rilievo della temerarietà della lite azionata dai ricorrenti.

Per completezza argomentativa va osservato che la circostanza che la causa di merito sia configurabile come lite temeraria o che la parte abbia resistito al solo fine di conseguire l’equa riparazione non costituisce oggetto di un’eccezione in senso stretto, non configurandosi come fatto impeditivo la cui deduzione sia espressamente posta dalla legge a carico dell’Amministrazione, e potendo quindi essere desunta dagli elementi, anche presuntivi, ritualmente acquisiti agli atti o attinenti al notorio, i quali entrano a far parte del materiale probatorio che il giudice può liberamente valutare (cfr. Cass. 8 aprile 2010 n. 8513).

Quanto al dedotto vizio di motivazione, di cui alla seconda censura, le Sezioni Unite di questa Corte hanno affermato che la riformulazione dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, disposta dal D.L. 22 giugno 2012, n. 83, art. 5, conv. in L. 7 agosto 2012, n. 134, applicabile alla specie ratione temporis (per essere stato depositato il decreto impugnato in data 22.3.2013), deve essere interpretata, alla luce dei canoni ermeneutici dettati dall’art. 12 preleggi, come riduzione al “minimo costituzionale” del sindacato di legittimità sulla motivazione. Pertanto, è denunciabile in cassazione solo l’anomalia motivazionale che si tramuta in violazione di legge costituzionalmente rilevante, in quanto attinente all’esistenza della motivazione in sè, purchè il vizio risulti dal testo della sentenza impugnata, a prescindere dal confronto con le risultanze processuali. Tale anomalia si esaurisce nella “mancanza assoluta di motivi sotto l’aspetto materiale e grafico”, nella “motivazione apparente”, nel “contrasto irriducibile tra affermazioni inconciliabili” e nella “motivazione perplessa ed obiettivamente incomprensibile”, esclusa qualunque rilevanza del semplice difetto di “sufficienza” della motivazione, precisando altresì che il medesimo art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, come riformulato, introduce nell’ordinamento un vizio specifico denunciabile per cassazione, relativo all’omesso esame di un fatto storico, principale o secondario, la cui esistenza risulti dal testo della sentenza o dagli atti processuali, che abbia costituito oggetto di discussione tra le parti e abbia carattere decisivo (vale a dire che, se esaminato, avrebbe determinato un esito diverso della controversia). Ne consegue che, nel rigoroso rispetto delle previsioni dell’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 6 e art. 369 c.p.c., comma 2, n. 4, il ricorrente deve indicare il “fatto storico”, il cui esame sia stato omesso, il “dato”, testuale o extratestuale, da cui esso risulti esistente, il “come” e il “quando” tale fatto sia stato oggetto di discussione processuale tra le parti e la sua “decisività”, fermo restando che l’omesso esame di elementi istruttori non integra, di per sè, il vizio di omesso esame di un fatto decisivo qualora il fatto storico, rilevante in causa, sia stato comunque preso in considerazione dal giudice, ancorchè la sentenza non abbia dato conto di tutte le risultanze probatorie (Cass. SS.UU. n. 8053 del 2014).

Nella specie, il decreto impugnato, quanto alle ragioni del diniego di tutela nel giudizio presupposto, presenta una motivazione che non è riconducibile al paradigma della assenza di motivazione nei sensi di cui alla citata pronuncia.

Con il terzo motivo i ricorrenti denunciano la violazione/falsa applicazione della L. n. 89 del 2001, art. 5-quater (come modificata dal D.L. n. 83 del 2012, art. 55, conv. dalla L. n. 134 del 2012) dolendosi della applicazione della sanzione del pagamento di una somma in favore della Cassa della Ammende, in quanto la domanda di equa riparazione non poteva in alcun modo ritenersi manifestamente infondata.

Il motivo è infondato.

Va qui osservato che l’art. 5 quater dispone che “con il decreto di cui all’art. 3, comma 4, ovvero con il provvedimento che definisce il giudizio di opposizione, il giudice, quando la domanda per equa riparazione è dichiarata inammissibile ovvero manifestamente infondata, può condannare il ricorrente al pagamento in favore della cassa delle ammende di una somma di denaro non inferiore ad euro 1.000 e non superiore ad Euro 10.000”. La formulazione della disposizione è di per sè sufficientemente chiara e dal tenore letterale della norma emerge che ciò a cui il legislatore ha attribuito rilievo decisivo è la repressione dell’uso abusivo e distorto del processo, prevedendo l’assoggettabilità a sanzione sia di coloro che azionano processi pur non avendo ab origine diritto all’equo indennizzo, sia di coloro che propongono ricorsi viziati da irregolarità non sanabili e ascrivibili a colpa della parte.

Del resto, nel ricostruire la ratio legis di altro meccanismo sanzionatorio e deflattivo predisposto dal legislatore, la Corte costituzionale ha rilevato che “si deve dichiarare l’illegittimità costituzionale dell’art. 616 c.p.p., nella parte in cui non prevede che la Corte di Cassazione, in caso di inammissibilità del ricorso, possa non pronunciare la condanna in favore della Cassa delle Ammende, a carico della parte privata che abbia proposto il ricorso senza versare in colpa nella determinazione della causa di inammissibilità” (sent. n. 186 del 2000).

L’interpretazione dell’art. 5-quater, dianzi prospettata appare coerente con tale pronuncia, atteso che il criterio di discrimine nella applicazione del meccanismo sanzionatorio va individuato nella colpa del ricorrente, desunta dall’apprezzamento della causa di inammissibilità o di rigetto della domanda riparatoria. Del resto si tratta di norma del tutto coerente con la finalità di disincentivare, senza alcun automatismo, pretese avanzate dalle parti benchè temerarie o inosservanti, sul piano processuale, del dettato normativo: l’introduzione di detto meccanismo potrebbe ridurre il carico delle Corti territoriali consentendo una più sollecita e celere definizione delle controversie nelle quali venga fondatamente fatto valere il diritto al riconoscimento della violazione del termine di ragionevole durata del processo (Cass. n. 22777 del 2014).

Ne consegue che correttamente il giudice del merito può applicare la detta sanzione processuale allorchè la domanda di indennizzo sia stata proposta da soggetto che non aveva ragione di proporla alla luce della consolidata giurisprudenza.

Conclusivamente, alla luce delle considerazioni sopra svolte, il ricorso va respinto, con conseguente condanna in solido dei ricorrenti alla rifusione dei costi processuali sopportati dal Ministero intimato nella presente fase di legittimità e liquidati come da dispositivo.

Risultando dagli atti del giudizio che il procedimento in esame è considerato esente dal pagamento del contributo unificato, non si deve far luogo alla dichiarazione di cui al Testo Unico approvato con il D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1-quater, introdotto dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17.

PQM

 

La Corte, rigetta il ricorso;

condanna i ricorrenti in solido alla rifusione in favore del Ministero dell’economia e delle finanze delle spese processuali del giudizio di Cassazione che liquida in complessi Euro 800,00, oltre ad eventuali spese prenotate o prenotande a debito.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezione Sesta Civile – 2, il 10 novembre 2016.

Depositato in Cancelleria il 14 giugno 2017

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