Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 14812 del 18/06/2010

Cassazione civile sez. trib., 18/06/2010, (ud. 10/05/2010, dep. 18/06/2010), n.14812

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. MIANI CANEVARI Fabrizio – Presidente –

Dott. MAGNO Giuseppe Vito Antonio – Consigliere –

Dott. BERNARDI Sergio – Consigliere –

Dott. D’ALESSANDRO Paolo – Consigliere –

Dott. GRECO Antonio – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso n. 17323/06 R.G. proposto da:

Unionfotomarket S.p.A., in persona del legale rappresentante p.t. Dr.

L.G., domiciliato in Roma, via Corsica, n. 6, presso

l’Avvocato Maria Cristina Pansarella, rappresentato e difeso

dall’Avvocato Cocco Donato per procura speciale in calce al ricorso;

– ricorrente –

contro

Ministero dell’economia e delle finanze, in persona del Ministro

p.t., e Agenzia delle dogane, in persona de Direttore p.t.,

domiciliati in Roma, via dei Portoghesi, n. 12, presso l’Avvocatura

Generale dello Stato che li rappresenta e difende secondo la legge;

– controricorrenti –

e sul ricorso incidentale n. 21343/06 R.G. proposto da:

Ministero dell’economìa e delle Finanze e Agenzia delle dogane, come

sopra rappresentati, domiciliati e difesi;

– ricorrenti incidentali –

contro

Unionfotomarket S.p.A., come sopra rappresentata, domiciliata e

difesa;

– controricorrente al ricorso incidentale –

avverso la sentenza n. 1561/05 della Corte d’appello di Torino,

depositata il 17.10.2005;

Udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

giorno 10 maggio 2010 dal relatore Cons. Dr. Giuseppe Vito Antonio

Magno;

Uditi, per la ricorrente, l’Avvocato Donato Cocco e, per i

controricorrenti e ricorrenti incidentali, l’Avvocato dello Stato

Giuseppe Albenzio;

Udito il P.M., in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

VELARDI Maurizio che ha concluso per il rigetto di entrambi i

ricorsi.

 

Fatto

FATTO E DIRITTO

1.- Dati del processo.

1.1.- La ditta Unionfotomarket S.p.A. ricorre, con cinque motivi, per la cassazione della sentenza indicata in epigrafe, con cui la corte d’appello di Torino, accogliendo per quanto di ragione l’appello proposto dal ministero dell’economia e delle finanze e dall’agenzia delle entrate avverso la sentenza 28.1/7.2.2003 del tribunale di Torino, e la domanda riconvenzionale avanzata dallo stesso ministero, riforma parzialmente detta sentenza, confermandola nel resto, e, per l’effetto, condanna la ditta menzionata a pagare a favore degli appellanti in solido la somma di Euro 193.382,52, per diritti doganali e relativi interessi legali maturati e maturandi, oggetto dell’ingiunzione notificata il 9.6.1993 dalla ricevitoria doganale di (OMISSIS); diritti che l’amministrazione assume dovuti e non incassati.

1.2.- Il ministero e l’agenzia nominati resistono e presentano ricorso incidentale, con un solo motivo, illustrato da memoria, cui replica Unionfotomarket S.p.A. mediante controricorso.

2.- Questioni controverse e motivi dei ricorsi 2.1.- Unionfotomarket S.p.A. (di seguito, l’importatore) si oppose all’ingiunzione doganale affermando di non dovere la somma suindicata per avere già soddisfatto – come dimostrava esibendo le bollette vidimate e quietanzate e richiamando le risultanze dei registri dell’ufficio impositore – gli oneri tributari relativi all’importazione delle merci descritte nel titolo.

2.2.- L’amministrazione opposta chiese il rigetto della domanda e, in via riconvenzionale, il pagamento delle somme portate dall’ingiunzione, eccependo pregiudizialmente l’incompetenza del tribunale adito (Verbania) e, nel merito, il mancato introito dei diritti doganali in questione e la falsità delle quietanze esibite, frutto d’illeciti perpetrati ai suoi danni dal ricevitore della dogana di (OMISSIS) e dallo spedizioniere che aveva ricevuto l’incarico di sdoganare la merce da parte dell’importatore; il quale rimaneva comunque soggetto passivo d’imposta ed obbligato principale per il pagamento di essa, non eseguito da alcuno.

L’importatore, riassunta la causa davanti al tribunale competente (Torino), chiese preliminarmente declaratoria di nullità o inefficacia dell’ingiunzione opposta per vizi formali, quindi, nel merito, insistette sull’infondatezza dell’ingiunzione, per avere egli adempiuto ad ogni onere doganale; l’ufficio chiese il rigetto dell’opposizione e la condanna dell’importatore al pagamento delle somme ingiunte. 2.3.- La sentenza con cui il tribunale adito, revocata l’ingiunzione giudicata illegittima, aveva altresì respinto la domanda riconvenzionale dell’amministrazione, condannandola al pagamento delle spese di lite, fu da questa impugnata davanti alla corte d’appello di Torino che, con la sentenza citata in epigrafe, respinta l’eccezione di carenza di legittimazione attiva dell’agenzia delle dogane, accolse nei termini surriferiti (par. 1.1) la domanda riconvenzionale dell’ufficio, avendo ritenuto:

2.3..- che l’ufficio di dogana di (OMISSIS) non era legittimato ad emettere ingiunzione, in luogo della formazione del ruolo ai sensi del D.P.R. 28 gennaio 1988, n. 43, art. 130, comma 2, all’epoca applicabile; ferma restando la valenza di tale ingiunzione quale atto dell’accertamento, una volta perduta quella di titolo esecutivo e atto prodromico all’inizio dell’esecuzione forzata, paragonabile al precetto nel processo ordinario di esecuzione;

2.3.2.- che, tuttavia, tale precisazione non avrebbe “rilievo nel caso di specie, dove il problema non è quello della definitività dell’accertamento tributario contenuto nell’ingiunzione (siccome tempestivamente opposto), ma quello della legittimità della pretesa tributaria che il primo giudice, pur avendo (correttamente) dichiarato la nullità dell’ingiunzione, ha esaminato sotto l’aspetto sostanziale”;

2.3.3.- che il vero problema da risolvere, rispetto al dictum della sentenza di primo grado, consisterebbe dunque nel valutare l’applicazione, più o meno esatta, del principio di “autoresponsabilità” dell’amministrazione, avendo giudicato il tribunale che, ferma restando in capo all’importatore l’obbligazione principale per il pagamento dei diritti doganali, le conseguenze di un “fatto interno”, come il reato commesso dal dipendente, ricadrebbero a carico dell’amministrazione che, per questo motivo, e cioè in virtù del principio di autoresponsabilità, non potrebbe legittimamente accampare nei confronti dell’importatore alcuna pretesa per mancato introito del tributo, il cui ammontare era stato versato dall’importatore allo spedizioniere; dovendo essa amministrazione “sopportare le conseguenze della condotta negativa del suo Funzionario”;

2.3.4.- che tale problema però, secondo la corte torinese, dovrebbe trovare una diversa soluzione rispetto a quella accolta dal tribunale, nel senso che il rapporto organico tra dipendente ed amministrazione “si spezza”, con esclusione della responsabilità di quest’ultima, “quando il funzionario agisca come un semplice privato, per finalità puramente egoistiche e personali, nel qual caso l’attività da lui posta in essere si configura come assolutamente estranea all’ambito delle pubbliche funzioni” (principio tratto dalla motivazione di Cass. n. 12553/1999);

2.3.5.- che nella specie, come era emerso dal processo penale svoltosi a carico del ricevitore della dogana di (OMISSIS), questi aveva formato false scritture allo scopo di far apparire versate dallo spedizioniere le somme di cui aveva invece dilazionato il pagamento, e che non furono mai incassate dall’amministrazione;

sicchè, “pur operando formalmente nell’ambito delle attribuzioni dell’Ufficio Dogana di (OMISSIS), al quale era addetto nella veste … di ricevitore capo (donde la sussistenza del nesso di causalità fra comportamento ed evento), si comportò in concreto come un semplice privato animato da scopi che (altruistici o anche egoistici che fossero) erano totalmente contrari agli interessi e alle esigenze dell’Amministrazione (con conseguente esclusione della riferibilità alla medesima di quei comportamenti: v. Cass. 7/10/1993 n. 9935)”;

2.3.6.- che pertanto, non avendo l’importatore assolto l’obbligo posto a suo carico dal D.P.R. 23 gennaio 1973, n. 43, art. 38, (T.U. delle leggi in materia di dogana), non poteva esimersi dal pagare la somma ingiunta, essendo del tutto indifferente che avesse versato allo spedizioniere le somme dovute – dato che questi, per un accordo criminoso col funzionario, non aveva pagato la dogana – e che formalmente risultasse l’avvenuto incasso dai registri dell’ufficio e dalle quietanze; a carico dell’amministrazione, peraltro, non era ipotizzabile un concorso di colpa, giacchè la procura regionale della corte dei conti, una volta deceduto il funzionario responsabile, non aveva ravvisato condotte gravemente colpevoli a carico di altri dipendenti dell’ufficio;

2.3.7.- che, in conclusione, la domanda riconvenzionale dell’amministrazione doveva ritenersi fondata sia nell’an sia nel quantum (non contestato).

2.4.- La ricorrente principale chiede la cassazione di tale sentenza, con eventuale decisione della causa nel merito e con ogni altra pronuncia conseguente, censurandola:

2.4.1.- col primo motivo, per violazione e falsa applicazione dell’art. 28 Cost. e dei principi posti a fondamento della responsabilità della pubblica amministrazione, in quanto, diversamente dall’opinione della corte di merito, funzionari e dipendenti pubblici sarebbero “direttamente responsabili secondo le leggi civili, penali e amministrative per gli atti compiuti in violazione dei diritti, e che tale responsabilità si estende all’ente cui essi appartengono”; ciò che indurrebbe, nel caso concreto, “autoresponsabilità della P.A.”, in base al “rapporto di immedesimazione organica che lega l’amministrazione ai dipendenti”, in guisa che ‘l’operato illecito di questi ultimi divenga imputabile all’ente da cui dipendono”, salvo che “il comportamento di chi agisce sia diretto al conseguimento non dei fini istituzionali dell’ente o del servizio a quale è addetto, ma sia determinato da fini privati”:

ipotesi non verificabile nel caso concreto, sia perchè il funzionario infedele aveva agito profittando della sua posizione all’interno dell’ente (cd. “occasionalita necessaria”) sia perchè l’amministrazione stessa era colpevole di omissione, per non aver adeguatamente vigilato sull’operato del suo dipendente, rendendosi corresponsabile del fatto illecito di questo;

2.4.2.- col secondo motivo, per insufficiente e contraddittoria motivazione, in ordine ai criteri adottati dalla corte di merito per escludere la responsabilità della pubblica amministrazione, laddove si afferma che il tributo, di fatto, non era stato percepito dall’erario, pur sostenendo, ma senza adeguata e coerente motivazione, che il funzionario aveva agito formalmente nell’ambito delle attribuzioni ufficiali che gli competevano (il che – secondo la ricorrente, che critica la sentenza per non averlo rilevato – significherebbe che egli rappresentava ineludibilmente l’amministrazione, almeno come creditore apparente); per poi concludere, con salto logico, che l’accertamento contenuto nell’ingiunzione era fondato anche nel quantum;

2.4.3.- col terzo motivo, per violazione e falsa applicazione dell’art. 36 c.p.c. e dei principi in tema di ammissibilità della domanda riconvenzionale, per avere accolto “la domanda riconvenzionale avanzata dal Ministero”, da ritenere invece inammissibile siccome proposta dalla parte che era attrice sostanziale nel giudizio di opposizione all’ingiunzione e appellante in secondo grado, e che quindi non poteva proporre, a pena d’inammissibilità rilevabile d’ufficio anche in cassazione, domande diverse ed ulteriori rispetto alla pretesa contenuta nell’ingiunzione, peraltro emessa in carenza di potere;

2.4.4.- col quarto motivo (espressamente dichiarato “assorbente rispetto ad ogni altra questione di merito”), per violazione e falsa applicazione del D.P.R. n. 43 del 1988, art. 130, per avere, nonostante l’avvenuta abrogazione, ad opera della norma citata, delle disposizioni regolanti la riscossione coattiva dei diritti doganali, attribuito all’ingiunzione, emessa quindi in carenza di potere, gli effetti dell’avviso di accertamento;

2.4.5.- col quinto motivo, per violazione e falsa applicazione del D.P.R. 23 gennaio 1973, n. 43, art. 82, per avere ignorato l’esistenza di un vizio radicale dell’ingiunzione, i cui effetti si sarebbero riverberati sui conseguenti atti processuali, rappresentato dal fatto che in essa era indicata un’autorità giudiziaria incompetente (tribunale di Verbania), davanti alla quale proporre opposizione.

2.5.- Con l’unico motivo del ricorso incidentale, l’amministrazione delle dogane, dopo aver chiesto il rigetto di tutte le pretese avversarie, censura la sentenza impugnata per violazione ed errata applicazione del D.P.R. n. 43 del 1988, art. 130, comma 2, e per insufficiente motivazione, qualora si debba intendere che la corte torinese reputi totalmente espunta dall’ordinamento l’ingiunzione doganale che, invece, sarebbe “sopravvissuta”, conservando la natura di atto di accertamento della pretesa erariale e perdendo solo quella di precetto, prodromico all’esecuzione.

2.6.- Nel controricorso al ricorso incidentale, la società contribuente eccepisce l’inammissibilità di quest’ultimo, poichè violerebbe il principio di autosufficienza in quanto asseritamente non chiarirebbe i fatti di causa, non riprodurrebbe le conclusioni formulate in primo grado e in appello ed i motivi dell’appello stesso; il motivo di ricorso incidentale riguarderebbe inoltre questione nuova, rispetto a quelle esaminate in secondo grado.

3.- Decisione.

3.1.- 1 ricorso principale e quello incidentale debbono essere riuniti, ai sensi dell’art. 335 c.p.c., essendo diretti contro la stessa sentenza.

3.2.- Il primo ed il secondo motivo del ricorso principale debbono essere accolti, nei limiti di ragione di seguito espressi, con rigetto degli altri tre motivi e del ricorso incidentale. La sentenza d’appello deve quindi essere cassata, in relazione ai motivi del ricorso principale accolti, e la causa deve essere rinviata ad altra sezione della corte d’appello di Torino, che rinnoverà il giudizio uniformandosi al principio di diritto esposto al par. 4.4.7, e vorrà anche provvedere sulle spese del presente giudizio di cassazione.

4.- Motivi della decisione.

4.1.- Il quarto motivo del ricorso principale (par. 2.4.4) e l’unico motivo del ricorso incidentale (par. 2.5) portanti, da prospettive opposte, sull’identica questione della valenza giuridica eventualmente residuata all’ingiunzione doganale, da esaminare con priorità per il loro carattere assorbente, sono da rigettare.

4.1.1.- La ricorrente principale sostiene, in particolare, che detta ingiunzione sarebbe stata totalmente espunta dall’ordinamento, ad opera del D.P.R. n. 43 del 1988, art. 130, ragion per cui la corte di merito avrebbe dovuto considerarla del tutto illegittima, siccome emessa in carenza di potere, e non avrebbe dovuto attribuirle la residua funzione e l’efficacia di avviso di accertamento.

L’amministrazione, ricorrente incidentale, critica da parte sua la sentenza qualora questa, insufficientemente motivata, debba leggersi nel senso che l’ingiunzione in parola sia ormai priva anche di tale residua valenza.

4.1.2.- Riguardo al ricorso incidentale, e specificamente al motivo di censura in esso contenuto, si debbono preliminarmente rigettare le eccezioni d’inammissibilità riportate sopra, al par. 2.6.

Infatti, dalla parte narrativa di tale ricorso e dall’intero contesto di esso (Cass. n. 16315/2007) è possibile comprendere adeguatamente il fatto sostanziale, l’andamento del processo e la portata delle critiche rivolte alla sentenza impugnata; il che è sufficiente (Cass. n. 7825/2006), ai sensi dell’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 3, ad evitare la sanzione d’inammissibilità, comminata – anche per il ricorso incidentale, stante l’espresso richiamo contenuto nel successivo art. 371, comma 3 solo nel caso di completa mancanza dell’esposizione dei fatti di causa e del contenuto del provvedimento impugnato (Cass. n. 2097/2007). La pretesa “novità” in cassazione della censura esposta è esclusa, avendo l’amministrazione diritto di difendersi, senza ampliare l’ambito delle questioni dedotte in giudizio, da affermazioni, che essa ritiene equivoche, contenute nella sentenza d’appello (cfr. Cass. nn. 35/2001, 14848/2000, 5845/2000).

4.1.3.- Tale censura tuttavia è infondata, sotto il profilo del vizio di motivazione, ed inammissibile riguardo alla dedotta violazione di legge.

Infatti la sentenza impugnata – dopo avere ampiamente riportato giurisprudenza di questa suprema corte (specialmente Cass. n. 10496/2002), secondo la quale l’ingiunzione doganale, pur avendo perso la valenza di titolo esecutivo, per effetto dell’instaurato sistema di riscossione delle entrate tributarie a mezzo di ruoli esattoriali, sarebbe “sopravvissuta” all’abrogazione delle previgenti disposizioni sancita dal D.P.R. n. 43 del 1988, art. 130 conservando la natura di atto d’accertamento non lascia adito a dubbi (ragion per cui è infondata l’accusa d’insufficienza della motivazione) sul fatto che il giudice a qua considera irrilevante tale questione nella presente causa, in cui non sarebbe controverso l’accertamento contenuto nell’ingiunzione, bensì la legittimità sostanziale (i.e., la fondatezza) della pretesa tributaria.

Si deve quindi osservare, in primo luogo, che simile argomento non è stato criticato specificamente dai ricorrenti incidentali; in secondo luogo, che la censura di violazione di legge si appunta su questione – effettiva valenza residua dell’ingiunzione doganale – ritenuta irrilevante dalla corte di merito. Per entrambe queste ragioni, essa è inammissibile.

4.1.4.- Dal punto di vista della ricorrente principale, la corte d’appello avrebbe dovuto dichiarare nulla l’ingiunzione, e con ciò rigettare la pretesa impositiva. Questa critica è infondata, per la ragione esposta nella sentenza d’appello ed affermata da giurisprudenza consolidata, condivisa dal collegio, secondo la quale l’ingiunzione fiscale – e segnatamente l’ingiunzione doganale, anche dopo l’entrata in vigore (1.1.1990) del D.P.R. n. 43 del 1988 e l’abrogazione, ad opera dell’art. 130, stesso D.P.R., delle disposizioni regolanti, mediante rinvio al R.D. n. 639 del 1910, la riscossione coattiva dei tributi, ha conservato una precipua funzione accertativa, integrando un atto complesso rivolto a portare la pretesa fiscale a conoscenza del debitore ed a formare il titolo, autonomamente impugnabile, per la successiva ed eventuale esecuzione forzata (oltre alle sentenze citate, Cass. nn. 20361/2006, 19194/2006).

4.2.- Il quinto motivo del ricorso principale (par. 2.4.5), da esaminare a questo punto perchè attinente ad altro preteso vizio formale dell’ingiunzione (indicazione erronea dell’autorità giudiziaria competente per l’opposizione), è pure infondato, trattandosi di mera irregolarità consistente in un errore di cui non è stata dimostrata la decisività (Cass. n. 11405/2006, 21001/2004, 6976/2000) in termini di-violazione o indebita compressione del diritto di difesa; diritto peraltro pienamente esercitato sia davanti al primo giudice, dichiaratosi incompetente, sia attraverso la riassunzione della causa davanti a quello competente.

4.3.- Viene quindi logicamente in considerazione la censura formulata col terzo motivo del ricorso principale (par. 2.4.3), attinente alla pretesa inammissibilità, non rilevata dalla corte d’appello, della “domanda riconvenzionale” dell’amministrazione, attrice sostanziale nel processo di opposizione all’ingiunzione fiscale.

4.3.1.- La censura è infondata, innanzitutto, per inconsistenza dell’assunto principale sottostante, che cioè l’amministrazione opposta sia riuscita in tal modo ad ottenere un indebito responso giudiziario su “un’autonoma domanda che amplia l’oggetto del giudizio” (ricorso, pag. 26).

In realtà – come è stato costantemente ritenuto, con giurisprudenza che il collegio condivide -, nel giudizio di opposizione all’ingiunzione, l’amministrazione, che sul piano dell’onere probatorio assume la posizione di attore in senso sostanziale, avanza una domanda di rigetto dell’opposizione che non può intendersi limitata agli aspetti formali, ma contiene quella di riconoscimento totale o parziale della pretesa fiscale. In corrispondenza a tale domanda, la cognizione del giudice di merito non può limitarsi alla verifica dei presupposti formali di validità dell’atto impositivo, ma deve estendersi al contenuto della pretesa erariale in esso espressa, sulla cui fondatezza è comunque tenuto a statuire, finanche a prescindere da una specifica richiesta in tal senso, sulla base degli elementi di prova acquisiti al giudizio, atteso che è lo stesso atto di accertamento notificato alla controparte, nei limiti in cui è da questa impugnato, ad integrare gli estremi della domanda sulla quale il giudice è chiamato a pronunciarsi, quando non sussistano ragioni preclusive (Cass. nn. 19194/2006, 18819/2006).

Qualificare come “riconvenzionale” la domanda di merito dell’amministrazione (nella sentenza impugnata e, per es., in S.U. n. 10189/1994) compresa nei limiti dell’accertamento notificato, costituisce una modalità sintetica di espressione del concetto suesposto o, al limite, un’imperfezione nell’uso del linguaggio tecnico (v., in proposito, Cass. n. 7407/2001 e, in senso contrario, Cass. n. 14861/2000), che non porta alcuna conseguenza negativa sul piano del diritto di difesa e dei limiti del contraddittorio, fissati dall’accertamento e dalle ragioni dell’opposizione; limiti non superati in questo giudizio.

4.4.- Il primo ed il secondo motivo del ricorso principale (par.

2.4.1, 2.4.2), da esaminare congiuntamente in quanto affrontano, sotto distinte angolature, la stessa questione della responsabilità (o ‘autoresponsabilità’) della pubblica amministrazione per il fatto del dipendente nell’esercizio delle sue funzioni, sono fondati, nei termini e nei limiti di ragione di seguito espressi.

4.4.1.- La ricorrente, concludendo l’esposizione della censura, lamenta che la corte d’appello avrebbe disapplicato il seguente principio di diritto: “la responsabilità della Pubblica Amministrazione per fatto dei propri dipendenti non viene meno qualora la loro condotta provochi danni a terzi, come la duplicazione dell’obbligazione tributaria, a causa di inadempienze, negligenze o violazioni di legge”. Tale conclusione corrisponde ad una domanda riconvenzionale (in senso tecnico) per danni, già formulata dalla contribuente con l’appello incidentale (v. “Conclusioni delle parti”, in sentenza, pag. 2); domanda (di riconvenzione in senso tecnico) inammissibile nel processo di opposizione all’accertamento tributario, perchè incompatibile con la struttura impugnatoria di tale processo (Cass. nn. 20516/2006, 15317/2002, 4334/2002).

4.4.2.- Sussistono, peraltro, i lamentati vizi di motivazione (secondo motivo) e di violazione delle norme e dei principi, evocati col primo motivo, in materia di lealtà e di affidamento, nei rapporti fra amministrazione e contribuente, in base alle seguenti considerazioni.

4.4.3.- L’obbligazione del proprietario della merce per il pagamento dell’imposta doganale, in solido con tutti coloro per conto dei quali la merce è stata importata o esportata (D.P.R. n. 43 del 1973, art. 38, comma 1), non viene meno qualora lo spedizioniere da lui incaricato di eseguire le operazioni in dogana, condebitore solidale (S.U. n. 499/1993; Cass. nn. 845/2002, 1399/1999, 5053/1998, 1413/1997, 11218/1995, 8289/1994, 8852/1993 e numerose altre), ometta in definitiva, avvalendosi della facoltà concessagli di differire il pagamento del tributo e comportandosi illecitamente, di versare alla dogana le somme ricevute dall’importatore; tale circostanza, infatti, non interferisce sul debito d’imposta, ma soltanto sul rapporto interno fra spedizioniere ed importatore.

4.4.4.- Questo consolidato principio non si attaglia però perfettamente al caso di specie, caratterizzato dalla circostanza che lo spedizioniere non si limitò ad omettere il versamento in dogana delle somme ricevute a tal fine dall’importatore, ma, profittando di un accordo criminoso col funzionario, ottenne anche lo sdoganamento della merce – in violazione del diritto di ritenzione spettante allo Stato, ai sensi del citato art. 38, comma 2 – e potette esibire al suo mandante le bollette vidimate e quietanzate, attestanti l’avvenuto pagamento del tributo (circostanza non contestata);

cosicchè l’apparente adempimento dell’obbligazione tributaria poteva essere idoneo a convincere il condebitore solidale di essere a sua volta liberato, ai sensi dell’art. 1292 c.c., dall’obbligazione nei confronti della dogana.

In questo caso, non giova all’amministrazione, che agisce nei confronti del proprietario della merce, debitore principale, la semplice affermazione di non avere incassato il tributo: dovrebbe anche sostenere e dimostrare o che la contraffazione della quietanza era così evidente da non poter trarre in inganno una persona di media diligenza o che anche l’importatore era partecipe della frode;

in caso contrario, il mancato incasso del tributo, dipendente anche dal fatto del dipendente infedele, non sarebbe sufficiente di per se, per le ragioni che saranno dette in seguito, a giustificare l’escussione del condebitore, obbligato principale.

4.4.5.- D’altra parte, il ragionamento svolto dalla corte d’appello per dimostrare, sulla scorta delle risultanze del procedimento penale svoltosi a carico del funzionario doganale, che il rapporto organico fra questo e l’amministrazione di appartenenza si era “spezzato”, a causa del suo comportamento lesivo degli interessi dell’ufficio, non è esaustivo del problema, dal momento che la pretesa erariale si fonda sul mancato incasso del tributo (circostanza pacifica nel suo aspetto materiale), oltre che sull’esistenza di obbligazione solidale dell’importatore.

Il quale, dal canto suo, coi motivi di censura in esame sostanzialmente rileva una contraddizione fra “l’affidamento che il privato nutre verso un funzionario pubblico” (ricorso, pag. 24), giustificato in questo caso dal rilascio di bollette quietanzate e dall’avvenuto sdoganamento della merce, ed il comportamento dell’amministrazione, manchevole sotto diversi aspetti; fra i quali è suscettibile di considerazione, in questo processo, non quello attinente alla responsabilità diretta dell’ufficio per il fatto del suo funzionario infedele per cui, secondo la tesi principale della ricorrente, l’incasso si dovrebbe considerare avvenuto mentre, secondo il giudice a quo, simile conclusione sarebbe esclusa per effetto della rottura del rapporto organico -, bensì quello, pure segnalato dalla ricorrente principale, dell’omissione di attività doverose, di carattere ispettivo, nel corso di un lungo periodo di tempo.

4.4.6.- Una volta inquadrata la fattispecie entro questi termini, non risultano applicabili i principi, e la correlata interpretazione giurisprudenziale formatasi in ordine alla responsabilità dell’amministrazione per il fatto del suo dipendente commesso in danno di terzi (ad es. dal conducente di un veicolo in servizio d’ufficio), ma rileva il fatto che il funzionario, nel quietanzare bollette, contraffare registri e consegnare indebitamente la merce, poteva creare nei terzi di buona fede un affidamento, della cui validità occorre discutere al fine di stabilire chi debba sopportare il danno del mancato incasso del tributo, essendo entrambe le parti di questo giudizio, importatore ed amministrazione, vittime della concorrente condotta fraudolenta dello spedizioniere e del funzionario della dogana; laddove sarebbe invece semplicistico risolvere interamente il problema sul piano della coobbligazione solidale fra importatore e spedizioniere, criterio certamente valido nella diversa ipotesi in cui il primo alleghi soltanto di aver consegnato al suo mandatario le somme necessarie per sdoganare la merce, ma non abbia alcuna ragione di credere (nè modo di provare) che il tributo sia stato pagato da costui e che perciò egli stesso sia stato, o possa credere in buona fede di essere stato, liberato dal debito d’imposta.

4.4.7.- I principi di “autoresponsabilità” della pubblica amministrazione e di lealtà – quest’ultimo ricavabile, in materia tributaria, dalla L. 27 luglio 2000, n. 212, art. 10, – debbono essere coordinati, anche in materia doganale, con quelli di buona fede e di affidamento del contribuente. E’ stato infatti ritenuto, con giurisprudenza da cui il collegio non ha ragione di discostarsi (Cass. 13065/2006), che qualora la mancata riscossione dei diritti doganali sia dovuta ad un’erronea determinazione delle autorità competenti, non percettibile da parte dell’operatore – ed a maggior ragione, deve intendersi, quando il mancato incasso dipenda, come nel caso, da responsabilità dei funzionari -, deve trovare applicazione, in conformità ad un orientamento consolidato nella giurisprudenza comunitaria, il principio di affidamento desumibile dall’art. 5, n. 2, del Regolamento CEE n. 1697/79 del Consiglio, del 24 luglio 1979, e dall’art. 220, par. 2, lett. b), del Regolamento CEE n. 2913/92 del Consiglio, del 12 ottobre 1992; norme che precludono all’amministrazione il recupero dei diritti doganali non riscossi, qualora il debitore abbia agito in buona fede, avendo osservato tutte le disposizioni vigenti materia tributaria per la dichiarazione in dogana; sempre che il comportamento dell’autorità non sia stato meramente passivo, ma abbia assunto un profilo attivo. Se si ritengano sussistenti simili condizioni nel caso di specie – buona fede e affidamento del contribuente, obbligato principale;

comportamento attivo dell’amministrazione idoneo a trarre in inganno, come rilascio di bollette quietanzate e sdoganamento della merce -, l’amministrazione che finalmente constati l’ammanco di cassa non ha più a disposizione l’azione per il recupero del credito fiscale nei confronti del coobbligato solidale di buona fede, ma soltanto quella che le consente di perseguire i diretti responsabili della sottrazione di denaro pubblico.

4.5.- Si conclude nel senso indicato ai par. 3.1, 3.2.

5.- Dispositivo.

PQM

per questo motivo

cioè in virtù del principio di autoresponsabilità, non potrebbe legittimamente accampare nei confronti dell’importatore alcuna pretesa per mancato introito del tributo, il cui ammontare era stato versato dall’importatore allo spedizioniere; dovendo essa amministrazione “sopportare le conseguenze della condotta negativa del suo Funzionario”;

2.3.4.- che tale problema però, secondo la corte torinese, dovrebbe trovare una diversa soluzione rispetto a quella accolta dal tribunale, nel senso che il rapporto organico tra dipendente ed amministrazione “si spezza”, con esclusione della responsabilità di quest’ultima, “quando il funzionario agisca come un semplice privato, per finalità puramente egoistiche e personali, nel qual caso l’attività da lui posta in essere si configura come assolutamente estranea all’ambito delle pubbliche funzioni” (principio tratto dalla motivazione di Cass. n. 12553/1999);

2.3.5.- che nella specie, come era emerso dal processo penale svoltosi a carico del ricevitore della dogana di (OMISSIS), questi aveva formato false scritture allo scopo di far apparire versate dallo spedizioniere le somme di cui aveva invece dilazionato il pagamento, e che non furono mai incassate dall’amministrazione;

sicchè, “pur operando formalmente nell’ambito delle attribuzioni dell’Ufficio Dogana di (OMISSIS), al quale era addetto nella veste … di ricevitore capo (donde la sussistenza del nesso di causalità fra comportamento ed evento), si comportò in concreto come un semplice privato animato da scopi che (altruistici o anche egoistici che fossero) erano totalmente contrari agli interessi e alle esigenze dell’Amministrazione (con conseguente esclusione della riferibilità alla medesima di quei comportamenti: v. Cass. 7/10/1993 n. 9935)”;

2.3.6.- che pertanto, non avendo l’importatore assolto l’obbligo posto a suo carico dal D.P.R. 23 gennaio 1973, n. 43, art. 38, (T.U. delle leggi in materia di dogana), non poteva esimersi dal pagare la somma ingiunta, essendo del tutto indifferente che avesse versato allo spedizioniere le somme dovute – dato che questi, per un accordo criminoso col funzionario, non aveva pagato la dogana – e che formalmente risultasse l’avvenuto incasso dai registri dell’ufficio e dalle quietanze; a carico dell’amministrazione, peraltro, non era ipotizzabile un concorso di colpa, giacchè la procura regionale della corte dei conti, una volta deceduto il funzionario responsabile, non aveva ravvisato condotte gravemente colpevoli a carico di altri dipendenti dell’ufficio;

2.3.7.- che, in conclusione, la domanda riconvenzionale dell’amministrazione doveva ritenersi fondata sia nell’an sia nel quantum (non contestato).

2.4.- La ricorrente principale chiede la cassazione di tale sentenza, con eventuale decisione della causa nel merito e con ogni altra pronuncia conseguente, censurandola:

2.4.1.- col primo motivo, per violazione e falsa applicazione dell’art. 28 Cost. e dei principi posti a fondamento della responsabilità della pubblica amministrazione, in quanto, diversamente dall’opinione della corte di merito, funzionari e dipendenti pubblici sarebbero “direttamente responsabili secondo le leggi civili, penali e amministrative per gli atti compiuti in violazione dei diritti, e che tale responsabilità si estende all’ente cui essi appartengono”; ciò che indurrebbe, nel caso concreto, “autoresponsabilità della P.A.”, in base al “rapporto di immedesimazione organica che lega l’amministrazione ai dipendenti”, in guisa che ‘l’operato illecito di questi ultimi divenga imputabile all’ente da cui dipendono”, salvo che “il comportamento di chi agisce sia diretto al conseguimento non dei fini istituzionali dell’ente o del servizio a quale è addetto, ma sia determinato da fini privati”:

ipotesi non verificabile nel caso concreto, sia perchè il funzionario infedele aveva agito profittando della sua posizione all’interno dell’ente (cd. “occasionalita necessaria”) sia perchè l’amministrazione stessa era colpevole di omissione, per non aver adeguatamente vigilato sull’operato del suo dipendente, rendendosi corresponsabile del fatto illecito di questo;

2.4.2.- col secondo motivo, per insufficiente e contraddittoria motivazione, in ordine ai criteri adottati dalla corte di merito per escludere la responsabilità della pubblica amministrazione, laddove si afferma che il tributo, di fatto, non era stato percepito dall’erario, pur sostenendo, ma senza adeguata e coerente motivazione, che il funzionario aveva agito formalmente nell’ambito delle attribuzioni ufficiali che gli competevano (il che – secondo la ricorrente, che critica la sentenza per non averlo rilevato – significherebbe che egli rappresentava ineludibilmente l’amministrazione, almeno come creditore apparente); per poi concludere, con salto logico, che l’accertamento contenuto nell’ingiunzione era fondato anche nel quantum;

2.4.3.- col terzo motivo, per violazione e falsa applicazione dell’art. 36 c.p.c. e dei principi in tema di ammissibilità della domanda riconvenzionale, per avere accolto “la domanda riconvenzionale avanzata dal Ministero”, da ritenere invece inammissibile siccome proposta dalla parte che era attrice sostanziale nel giudizio di opposizione all’ingiunzione e appellante in secondo grado, e che quindi non poteva proporre, a pena d’inammissibilità rilevabile d’ufficio anche in cassazione, domande diverse ed ulteriori rispetto alla pretesa contenuta nell’ingiunzione, peraltro emessa in carenza di potere;

2.4.4.- col quarto motivo (espressamente dichiarato “assorbente rispetto ad ogni altra questione di merito”), per violazione e falsa applicazione del D.P.R. n. 43 del 1988, art. 130, per avere, nonostante l’avvenuta abrogazione, ad opera della norma citata, delle disposizioni regolanti la riscossione coattiva dei diritti doganali, attribuito all’ingiunzione, emessa quindi in carenza di potere, gli effetti dell’avviso di accertamento;

2.4.5.- col quinto motivo, per violazione e falsa applicazione del D.P.R. 23 gennaio 1973, n. 43, art. 82, per avere ignorato l’esistenza di un vizio radicale dell’ingiunzione, i cui effetti si sarebbero riverberati sui conseguenti atti processuali, rappresentato dal fatto che in essa era indicata un’autorità giudiziaria incompetente (tribunale di Verbania), davanti alla quale proporre opposizione.

2.5.- Con l’unico motivo del ricorso incidentale, l’amministrazione delle dogane, dopo aver chiesto il rigetto di tutte le pretese avversarie, censura la sentenza impugnata per violazione ed errata applicazione del D.P.R. n. 43 del 1988, art. 130, comma 2, e per insufficiente motivazione, qualora si debba intendere che la corte torinese reputi totalmente espunta dall’ordinamento l’ingiunzione doganale che, invece, sarebbe “sopravvissuta”, conservando la natura di atto di accertamento della pretesa erariale e perdendo solo quella di precetto, prodromico all’esecuzione.

2.6.- Nel controricorso al ricorso incidentale, la società contribuente eccepisce l’inammissibilità di quest’ultimo, poichè violerebbe il principio di autosufficienza in quanto asseritamente non chiarirebbe i fatti di causa, non riprodurrebbe le conclusioni formulate in primo grado e in appello ed i motivi dell’appello stesso; il motivo di ricorso incidentale riguarderebbe inoltre questione nuova, rispetto a quelle esaminate in secondo grado.

3.- Decisione.

3.1.- 1 ricorso principale e quello incidentale debbono essere riuniti, ai sensi dell’art. 335 c.p.c., essendo diretti contro la stessa sentenza.

3.2.- Il primo ed il secondo motivo del ricorso principale debbono essere accolti, nei limiti di ragione di seguito espressi, con rigetto degli altri tre motivi e del ricorso incidentale. La sentenza d’appello deve quindi essere cassata, in relazione ai motivi del ricorso principale accolti, e la causa deve essere rinviata ad altra sezione della corte d’appello di Torino, che rinnoverà il giudizio uniformandosi al principio di diritto esposto al par. 4.4.7, e vorrà anche provvedere sulle spese del presente giudizio di cassazione.

4.- Motivi della decisione.

4.1.- Il quarto motivo del ricorso principale (par. 2.4.4) e l’unico motivo del ricorso incidentale (par. 2.5) portanti, da prospettive opposte, sull’identica questione della valenza giuridica eventualmente residuata all’ingiunzione doganale, da esaminare con priorità per il loro carattere assorbente, sono da rigettare.

4.1.1.- La ricorrente principale sostiene, in particolare, che detta ingiunzione sarebbe stata totalmente espunta dall’ordinamento, ad opera del D.P.R. n. 43 del 1988, art. 130, ragion per cui la corte di merito avrebbe dovuto considerarla del tutto illegittima, siccome emessa in carenza di potere, e non avrebbe dovuto attribuirle la residua funzione e l’efficacia di avviso di accertamento.

L’amministrazione, ricorrente incidentale, critica da parte sua la sentenza qualora questa, insufficientemente motivata, debba leggersi nel senso che l’ingiunzione in parola sia ormai priva anche di tale residua valenza.

4.1.2.- Riguardo al ricorso incidentale, e specificamente al motivo di censura in esso contenuto, si debbono preliminarmente rigettare le eccezioni d’inammissibilità riportate sopra, al par. 2.6.

Infatti, dalla parte narrativa di tale ricorso e dall’intero contesto di esso (Cass. n. 16315/2007) è possibile comprendere adeguatamente il fatto sostanziale, l’andamento del processo e la portata delle critiche rivolte alla sentenza impugnata; il che è sufficiente (Cass. n. 7825/2006), ai sensi dell’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 3, ad evitare la sanzione d’inammissibilità, comminata – anche per il ricorso incidentale, stante l’espresso richiamo contenuto nel successivo art. 371, comma 3 solo nel caso di completa mancanza dell’esposizione dei fatti di causa e del contenuto del provvedimento impugnato (Cass. n. 2097/2007). La pretesa “novità” in cassazione della censura esposta è esclusa, avendo l’amministrazione diritto di difendersi, senza ampliare l’ambito delle questioni dedotte in giudizio, da affermazioni, che essa ritiene equivoche, contenute nella sentenza d’appello (cfr. Cass. nn. 35/2001, 14848/2000, 5845/2000).

4.1.3.- Tale censura tuttavia è infondata, sotto il profilo del vizio di motivazione, ed inammissibile riguardo alla dedotta violazione di legge.

Infatti la sentenza impugnata – dopo avere ampiamente riportato giurisprudenza di questa suprema corte (specialmente Cass. n. 10496/2002), secondo la quale l’ingiunzione doganale, pur avendo perso la valenza di titolo esecutivo, per effetto dell’instaurato sistema di riscossione delle entrate tributarie a mezzo di ruoli esattoriali, sarebbe “sopravvissuta” all’abrogazione delle previgenti disposizioni sancita dal D.P.R. n. 43 del 1988, art. 130 conservando la natura di atto d’accertamento non lascia adito a dubbi (ragion per cui è infondata l’accusa d’insufficienza della motivazione) sul fatto che il giudice a qua considera irrilevante tale questione nella presente causa, in cui non sarebbe controverso l’accertamento contenuto nell’ingiunzione, bensì la legittimità sostanziale (i.e., la fondatezza) della pretesa tributaria.

Si deve quindi osservare, in primo luogo, che simile argomento non è stato criticato specificamente dai ricorrenti incidentali; in secondo luogo, che la censura di violazione di legge si appunta su questione – effettiva valenza residua dell’ingiunzione doganale – ritenuta irrilevante dalla corte di merito. Per entrambe queste ragioni, essa è inammissibile.

4.1.4.- Dal punto di vista della ricorrente principale, la corte d’appello avrebbe dovuto dichiarare nulla l’ingiunzione, e con ciò rigettare la pretesa impositiva. Questa critica è infondata, per la ragione esposta nella sentenza d’appello ed affermata da giurisprudenza consolidata, condivisa dal collegio, secondo la quale l’ingiunzione fiscale – e segnatamente l’ingiunzione doganale, anche dopo l’entrata in vigore (1.1.1990) del D.P.R. n. 43 del 1988 e l’abrogazione, ad opera dell’art. 130, stesso D.P.R., delle disposizioni regolanti, mediante rinvio al R.D. n. 639 del 1910, la riscossione coattiva dei tributi, ha conservato una precipua funzione accertativa, integrando un atto complesso rivolto a portare la pretesa fiscale a conoscenza del debitore ed a formare il titolo, autonomamente impugnabile, per la successiva ed eventuale esecuzione forzata (oltre alle sentenze citate, Cass. nn. 20361/2006, 19194/2006).

4.2.- Il quinto motivo del ricorso principale (par. 2.4.5), da esaminare a questo punto perchè attinente ad altro preteso vizio formale dell’ingiunzione (indicazione erronea dell’autorità giudiziaria competente per l’opposizione), è pure infondato, trattandosi di mera irregolarità consistente in un errore di cui non è stata dimostrata la decisività (Cass. n. 11405/2006, 21001/2004, 6976/2000) in termini di-violazione o indebita compressione del diritto di difesa; diritto peraltro pienamente esercitato sia davanti al primo giudice, dichiaratosi incompetente, sia attraverso la riassunzione della causa davanti a quello competente.

4.3.- Viene quindi logicamente in considerazione la censura formulata col terzo motivo del ricorso principale (par. 2.4.3), attinente alla pretesa inammissibilità, non rilevata dalla corte d’appello, della “domanda riconvenzionale” dell’amministrazione, attrice sostanziale nel processo di opposizione all’ingiunzione fiscale.

4.3.1.- La censura è infondata, innanzitutto, per inconsistenza dell’assunto principale sottostante, che cioè l’amministrazione opposta sia riuscita in tal modo ad ottenere un indebito responso giudiziario su “un’autonoma domanda che amplia l’oggetto del giudizio” (ricorso, pag. 26).

In realtà – come è stato costantemente ritenuto, con giurisprudenza che il collegio condivide -, nel giudizio di opposizione all’ingiunzione, l’amministrazione, che sul piano dell’onere probatorio assume la posizione di attore in senso sostanziale, avanza una domanda di rigetto dell’opposizione che non può intendersi limitata agli aspetti formali, ma contiene quella di riconoscimento totale o parziale della pretesa fiscale. In corrispondenza a tale domanda, la cognizione del giudice di merito non può limitarsi alla verifica dei presupposti formali di validità dell’atto impositivo, ma deve estendersi al contenuto della pretesa erariale in esso espressa, sulla cui fondatezza è comunque tenuto a statuire, finanche a prescindere da una specifica richiesta in tal senso, sulla base degli elementi di prova acquisiti al giudizio, atteso che è lo stesso atto di accertamento notificato alla controparte, nei limiti in cui è da questa impugnato, ad integrare gli estremi della domanda sulla quale il giudice è chiamato a pronunciarsi, quando non sussistano ragioni preclusive (Cass. nn. 19194/2006, 18819/2006).

Qualificare come “riconvenzionale” la domanda di merito dell’amministrazione (nella sentenza impugnata e, per es., in S.U. n. 10189/1994) compresa nei limiti dell’accertamento notificato, costituisce una modalità sintetica di espressione del concetto suesposto o, al limite, un’imperfezione nell’uso del linguaggio tecnico (v., in proposito, Cass. n. 7407/2001 e, in senso contrario, Cass. n. 14861/2000), che non porta alcuna conseguenza negativa sul piano del diritto di difesa e dei limiti del contraddittorio, fissati dall’accertamento e dalle ragioni dell’opposizione; limiti non superati in questo giudizio.

4.4.- Il primo ed il secondo motivo del ricorso principale (par.

2.4.1, 2.4.2), da esaminare congiuntamente in quanto affrontano, sotto distinte angolature, la stessa questione della responsabilità (o ‘autoresponsabilità’) della pubblica amministrazione per il fatto del dipendente nell’esercizio delle sue funzioni, sono fondati, nei termini e nei limiti di ragione di seguito espressi.

4.4.1.- La ricorrente, concludendo l’esposizione della censura, lamenta che la corte d’appello avrebbe disapplicato il seguente principio di diritto: “la responsabilità della Pubblica Amministrazione per fatto dei propri dipendenti non viene meno qualora la loro condotta provochi danni a terzi, come la duplicazione dell’obbligazione tributaria, a causa di inadempienze, negligenze o violazioni di legge”. Tale conclusione corrisponde ad una domanda riconvenzionale (in senso tecnico) per danni, già formulata dalla contribuente con l’appello incidentale (v. “Conclusioni delle parti”, in sentenza, pag. 2); domanda (di riconvenzione in senso tecnico) inammissibile nel processo di opposizione all’accertamento tributario, perchè incompatibile con la struttura impugnatoria di tale processo (Cass. nn. 20516/2006, 15317/2002, 4334/2002).

4.4.2.- Sussistono, peraltro, i lamentati vizi di motivazione (secondo motivo) e di violazione delle norme e dei principi, evocati col primo motivo, in materia di lealtà e di affidamento, nei rapporti fra amministrazione e contribuente, in base alle seguenti considerazioni.

4.4.3.- L’obbligazione del proprietario della merce per il pagamento dell’imposta doganale, in solido con tutti coloro per conto dei quali la merce è stata importata o esportata (D.P.R. n. 43 del 1973, art. 38, comma 1), non viene meno qualora lo spedizioniere da lui incaricato di eseguire le operazioni in dogana, condebitore solidale (S.U. n. 499/1993; Cass. nn. 845/2002, 1399/1999, 5053/1998, 1413/1997, 11218/1995, 8289/1994, 8852/1993 e numerose altre), ometta in definitiva, avvalendosi della facoltà concessagli di differire il pagamento del tributo e comportandosi illecitamente, di versare alla dogana le somme ricevute dall’importatore; tale circostanza, infatti, non interferisce sul debito d’imposta, ma soltanto sul rapporto interno fra spedizioniere ed importatore.

4.4.4.- Questo consolidato principio non si attaglia però perfettamente al caso di specie, caratterizzato dalla circostanza che lo spedizioniere non si limitò ad omettere il versamento in dogana delle somme ricevute a tal fine dall’importatore, ma, profittando di un accordo criminoso col funzionario, ottenne anche lo sdoganamento della merce – in violazione del diritto di ritenzione spettante allo Stato, ai sensi del citato art. 38, comma 2 – e potette esibire al suo mandante le bollette vidimate e quietanzate, attestanti l’avvenuto pagamento del tributo (circostanza non contestata);

cosicchè l’apparente adempimento dell’obbligazione tributaria poteva essere idoneo a convincere il condebitore solidale di essere a sua volta liberato, ai sensi dell’art. 1292 c.c., dall’obbligazione nei confronti della dogana.

In questo caso, non giova all’amministrazione, che agisce nei confronti del proprietario della merce, debitore principale, la semplice affermazione di non avere incassato il tributo: dovrebbe anche sostenere e dimostrare o che la contraffazione della quietanza era così evidente da non poter trarre in inganno una persona di media diligenza o che anche l’importatore era partecipe della frode;

in caso contrario, il mancato incasso del tributo, dipendente anche dal fatto del dipendente infedele, non sarebbe sufficiente di per se, per le ragioni che saranno dette in seguito, a giustificare l’escussione del condebitore, obbligato principale.

4.4.5.- D’altra parte, il ragionamento svolto dalla corte d’appello per dimostrare, sulla scorta delle risultanze del procedimento penale svoltosi a carico del funzionario doganale, che il rapporto organico fra questo e l’amministrazione di appartenenza si era “spezzato”, a causa del suo comportamento lesivo degli interessi dell’ufficio, non è esaustivo del problema, dal momento che la pretesa erariale si fonda sul mancato incasso del tributo (circostanza pacifica nel suo aspetto materiale), oltre che sull’esistenza di obbligazione solidale dell’importatore.

Il quale, dal canto suo, coi motivi di censura in esame sostanzialmente rileva una contraddizione fra “l’affidamento che il privato nutre verso un funzionario pubblico” (ricorso, pag. 24), giustificato in questo caso dal rilascio di bollette quietanzate e dall’avvenuto sdoganamento della merce, ed il comportamento dell’amministrazione, manchevole sotto diversi aspetti; fra i quali è suscettibile di considerazione, in questo processo, non quello attinente alla responsabilità diretta dell’ufficio per il fatto del suo funzionario infedele per cui, secondo la tesi principale della ricorrente, l’incasso si dovrebbe considerare avvenuto mentre, secondo il giudice a quo, simile conclusione sarebbe esclusa per effetto della rottura del rapporto organico -, bensì quello, pure segnalato dalla ricorrente principale, dell’omissione di attività doverose, di carattere ispettivo, nel corso di un lungo periodo di tempo.

4.4.6.- Una volta inquadrata la fattispecie entro questi termini, non risultano applicabili i principi, e la correlata interpretazione giurisprudenziale formatasi in ordine alla responsabilità dell’amministrazione per il fatto del suo dipendente commesso in danno di terzi (ad es. dal conducente di un veicolo in servizio d’ufficio), ma rileva il fatto che il funzionario, nel quietanzare bollette, contraffare registri e consegnare indebitamente la merce, poteva creare nei terzi di buona fede un affidamento, della cui validità occorre discutere al fine di stabilire chi debba sopportare il danno del mancato incasso del tributo, essendo entrambe le parti di questo giudizio, importatore ed amministrazione, vittime della concorrente condotta fraudolenta dello spedizioniere e del funzionario della dogana; laddove sarebbe invece semplicistico risolvere interamente il problema sul piano della coobbligazione solidale fra importatore e spedizioniere, criterio certamente valido nella diversa ipotesi in cui il primo alleghi soltanto di aver consegnato al suo mandatario le somme necessarie per sdoganare la merce, ma non abbia alcuna ragione di credere (nè modo di provare) che il tributo sia stato pagato da costui e che perciò egli stesso sia stato, o possa credere in buona fede di essere stato, liberato dal debito d’imposta.

4.4.7.- I principi di “autoresponsabilità” della pubblica amministrazione e di lealtà – quest’ultimo ricavabile, in materia tributaria, dalla L. 27 luglio 2000, n. 212, art. 10, – debbono essere coordinati, anche in materia doganale, con quelli di buona fede e di affidamento del contribuente. E’ stato infatti ritenuto, con giurisprudenza da cui il collegio non ha ragione di discostarsi (Cass. 13065/2006), che qualora la mancata riscossione dei diritti doganali sia dovuta ad un’erronea determinazione delle autorità competenti, non percettibile da parte dell’operatore – ed a maggior ragione, deve intendersi, quando il mancato incasso dipenda, come nel caso, da responsabilità dei funzionari -, deve trovare applicazione, in conformità ad un orientamento consolidato nella giurisprudenza comunitaria, il principio di affidamento desumibile dall’art. 5, n. 2, del Regolamento CEE n. 1697/79 del Consiglio, del 24 luglio 1979, e dall’art. 220, par. 2, lett. b), del Regolamento CEE n. 2913/92 del Consiglio, del 12 ottobre 1992; norme che precludono all’amministrazione il recupero dei diritti doganali non riscossi, qualora il debitore abbia agito in buona fede, avendo osservato tutte le disposizioni vigenti materia tributaria per la dichiarazione in dogana; sempre che il comportamento dell’autorità non sia stato meramente passivo, ma abbia assunto un profilo attivo. Se si ritengano sussistenti simili condizioni nel caso di specie – buona fede e affidamento del contribuente, obbligato principale;

comportamento attivo dell’amministrazione idoneo a trarre in inganno, come rilascio di bollette quietanzate e sdoganamento della merce -, l’amministrazione che finalmente constati l’ammanco di cassa non ha più a disposizione l’azione per il recupero del credito fiscale nei confronti del coobbligato solidale di buona fede, ma soltanto quella che le consente di perseguire i diretti responsabili della sottrazione di denaro pubblico.

4.5.- Si conclude nel senso indicato ai par. 3.1, 3.2.

5.- Dispositivo.

P.Q.M. LA CORTE DI CASSAZIONE Riunisce i ricorsi. Accoglie il primo ed il secondo motivo del ricorso principale; rigetta gli altri tre motivi ed il ricorso incidentale; cassa la sentenza impugnata in relazione ai motivi accolti e rinvia la causa, anche per le spese di questo giudizio di cassazione, ad altra sezione della corte d’appello di Torino.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della 5^ sezione civile – tributaria, il 10 maggio 2010.

Depositato in Cancelleria il 18 giugno 2010

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