Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 14785 del 18/06/2010

Cassazione civile sez. lav., 18/06/2010, (ud. 27/05/2010, dep. 18/06/2010), n.14785

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. SCIARELLI Guglielmo – Presidente –

Dott. DI NUBILA Vincenzo – Consigliere –

Dott. AMOROSO Giovanni – rel. Consigliere –

Dott. NOBILE Vittorio – Consigliere –

Dott. ZAPPIA Pietro – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso 2978-2007 proposto da:

POSTE ITALIANE S.P.A., in persona del legale rappresentante pro

tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIALE MAZZINI 134, presso

lo studio dell’avvocato FIORILLO LUIGI, che la rappresenta e difende

unitamente all’avvocato TRIFIRO’ SALVATORE, giusta mandato a margine

del ricorso;

– ricorrente –

contro

F.L., elettivamente domiciliata in ROMA, VIA GIOVANNI

BETTOLO 4, presso lo studio dell’avvocato BROCHIERO MAGRONE FABRIZIO,

che la rappresenta e difende unitamente all’avvocato PAGLIARELLO

ANGELO, giusta mandato in calce al controricorso;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 53/2006 della CORTE D’APPELLO di MILANO,

depositata il 20/01/2006 r.g.n. 509/04 + 1;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

27/05/2010 dal Consigliere Dott. GIOVANNI AMOROSO;

udito l’Avvocato FIORILLO LUIGI;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

VELARDI Maurizio che ha concluso per il rigetto del ricorso.

 

Fatto

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

1. La Corte d’appello di Milano con sentenza del 22 novembre 2005 – 20 gennaio 2006, riformando la pronuncia di primo grado di rigetto della domanda, ha ritenuto la nullità dell’apposizione del termine al contratto di lavoro stipulato, con la società Poste Italiane, da F.L. e da S.R..

In particolare la Corte d’appello ha ritenuto non sussistere, o comunque non provata, una fattispecie specifica giustificatrice, essendosi la società limitata ad allegare generiche circostanze organizzative.

2. Avverso questa pronuncia ha proposto ricorso per cassazione la società nei soli confronti della F..

La lavoratrice intimata resiste con controricorso. La società ha presentato memoria.

Diritto

MOTIVI DELLA DECISIONE

1. Con il proposto ricorso, articolato in cinque motivi, la società Poste Italiane denuncia violazione e falsa applicazione della L. n. 56 del 1987, art. 23 e dell’art. 1362 e segg. cod. civ., nonchè vizi di motivazione.

Deduce in particolare l’erroneità della sentenza nella parte in cui non ha ritenuto sussistere la ragione giustificatrice specifica del termine ex art. 25 c.c.n.l. 2001, mentre ha fatto riferimento al D.Lgs. n. 368 del 2001, art. 1.

Parimenti è erronea la sentenza impugnata per non aver ritenuto il mutuo consenso alla risoluzione del rapporto.

Deduce che erano rilevanti – come ragioni giustificatrici dell’apposizione del termine – le esigenze aziendali con specifico riferimento a vari accordi aziendali.

Sostiene che la conversione del rapporto non è prevista dal D.Lgs. 368 del 2001.

Infine – quinto ed ultimo motivo – sostiene, quanto alle retribuzioni dovute alla lavoratrice, che queste non potevano decorrere dalla cessazione del rapporto, ma semmai dalla costituzione in mora.

2. I primi quattro motivi del ricorso, che possono essere esaminati congiuntamente, sono infondati.

3. La società ricorrente denuncia il mancato accoglimento della deduzione di inammissibilità della domanda per intervenuta estinzione tacita del rapporto di lavoro per mutuo consenso.

La censura è infondata.

Secondo infatti la giurisprudenza di questa Corte, cui il collegio aderisce, è suscettibile di essere sussulto nella fattispecie legale di cui all’art. 1372 c.c. comma 1, il comportamento delle parti che determini la cessazione della funzionalità di fatto del rapporto lavorativo a termine in base a modalità tali da evidenziare il loro disinteresse alla sua attuazione, trovando siffatta operazione ermeneutica supporto nella crescente valorizzazione, che attualmente si registra nel quadro della teoria e della disciplina dei contratti, del piano oggettivo del contratto, a discapito del ruolo e della rilevanza della volontà psicologica dei contraenti, con conseguente attribuzione del valore di dichiarazioni negoziali a comportamenti sociali valutati in modo tipico; e ciò con particolare riferimento alla materia lavoristica ove operano, nell’anzidetta prospettiva, principi di settore che non consentono di considerare esistente un rapporto di lavoro senza esecuzione (cfr., ad es., Cass. 6 luglio 2007 n. 15264, 7 maggio 2009 n. 10526).

In proposito, l’onere di provare le circostanze dalle quali possa ricavarsi la volontà chiara e certa delle parti di voler porre fine al rapporto grava sul datore di lavoro che deduce la risoluzione dello stesso per mutuo consenso (cfr. ad es. Cass. 2 dicembre 2002 n. 17070 e 2 dicembre 2000 n. 15403).

E’ poi consolidato l’orientamento secondo cui il relativo giudizio, sulla configurabilità o meno, in concreto, di un tale accordo per facta concludentia, viene devoluto al giudice di merito, la cui valutazione, se congniamente motivata, si sottrae a censure in sede di controllo di legittimità della decisione (cfr., diffusamente, tra le altre, le sentenze citate).

Ciò posto in via di principio, si rileva che la Corte territoriale, dichiarando che la mera inerzia del lavoratore non poteva essere interpretata come fatto estintivo del rapporto (in quanto tale effetto consegue dal concorso di altre circostanze significative), ha fatto corretta applicazione di tali principi al caso in esame, facendo riferimento proprio a valutazioni di tipicità sociale con riguardo alla semplice inerzia del L. nella situazione descritta, durata per poco più di un anno (tenuto evidentemente conto delle circostanze notorie rappresentate dal tempo necessario a valutare l’eventuale illegittimità del termine e quindi rivolgersi al sindacato e/o all’avvocato, dalla necessità per quest’ultimo di impostare la causa e provvedere al tentativo di conciliazione di cui all’art. 410 c.p.c. nonchè della altrettanto notoria circostanza relativa all’affidamento che il lavoratore “precario” normalmente fa sulla prospettiva di futuri contratti a termine – soprattutto nei riguardi di una società, come le Poste, che di tale tipologia contrattuale faceva al tempo ampio uso – e al timore di pregiudicare tale esito con l’iniziativa giudiziaria).

Una tale valutazione, proprio perchè ragionevolmente ancorata a parametri di tipicità sociale, non appare censurabile in questa sede di legittimità.

4. Quanto alla causale per l’apposizione del termine, il contratto, stipulato il 10 luglio 2002 (per la durata fino al 30 settembre 2002) – quindi nel regime del D.Lgs. n. 368 del 2001 per essere scaduto il c.c.n.l. 2001 (v. art. 74 c.c.n.l. 11 gennaio 2001 per il personale non dirigente di Poste Italiane spa) e con esso il regime transitorio di cui al cit. D.Lgs. n. 368 del 2001, art. 11 – recava l’indicazione: “esigenze tecniche, organizzative e produttive, anche di carattere straordinario, conseguenti a processi di riorganizzazione, ivi comprendendo un più funzionale riposizionamento di risorse sul territorio, anche derivanti da innovazioni tecnologiche, ovvero conseguenti all’introduzione e/o sperimentazione di nuove tecnologie, prodotti o servizi, nonchè all’attuazione delle previsioni di cui agli accordi 17, 18 e 23 ottobre, 11 dicembre 2001 e 11 gennaio, 13 febbraio e 17 aprile 2002, congiuntamente alla necessità di espletamento del servizio in concomitanza di assenze per ferie contrattualmente dovute a tutto il personale nel periodo estivo”.

Questa causale si riconduceva, anche testualmente, al disposto del D.Lgs. n. 368 del 2001, art. 11 che prevede appunto che è consentita l’apposizione di un termine alla durata del contratto di lavoro subordinato a fronte di “ragioni di carattere tecnico, produttivo, organizzativo o sostitutivo”.

A questo proposito Cass., sez. lav., 1 febbraio 2010, n. 2279, ha affermato:

“Il D.Lgs. 6 settembre 2001, n. 368, art. 1, relativo alla “Attuazione della direttiva 1999/10/CE relativa all’accordo quadro sul lavoro a tempo determinato concluso dall’UNICE, dal CEEP e dal CES” stabilisce ai primi due commi:

“I – E’ consentita l’apposizione di un termine alla durata del rapporto di lavoro subordinato a fronte di ragioni di carattere tecnico, produttivo, organizzativo o sostitutivo.

2 – L’apposizione del termine è priva di effetto se non risulta, direttamente o indirettamente, da atto scritto nel quale sono specificate le ragioni di cui al comma 1”.

Va anzitutto rilevato che la prima parte di tale secondo motivo di ricorso – con la quale la ricorrente denuncia la violazione del giudicato da parte della Corte, laddove questa aveva qualificalo come generiche, alla luce del D.Lgs. 6 settembre 2001, n. 368, art. 1, commi 1 e 2, le ragioni addotte nel contratto di lavoro a giustificazione del termine, nonostante che il giudice di primo grado avesse implicitamente ritenuto il contrario e la sua pronuncia non fosse stata specificatamente impugnata dal lavoratore – è manifestamente infondata.

Contrariamente a quanto dedotto dalla ricorrente, infatti, la sentenza di primo grado, che la Corte è autorizzata ad esaminare in ragione del tipo di censura svolta, ha esplicitamente rilevato che la difesa di Poste Italiane si era “limitata ad allegare ed a chiedere di provare circostanze del tutto generiche e vaghe riferite alla complessa organizzazione di ristrutturazione che da tempo caratterizza la vita dell’ente”, non apportando “alcun elemento di concreta rilevanza” e per tale ragione mancando di fornire “adeguata giustificazione alla scelta di stipulare contratti a termine con ciascuno degli odierni ricorrenti”.

Del resto, anche la considerazione della Corte d’appello, secondo cui “dinanzi a tali del tutto generici motivi, correttamente il giudice di primo grado ha rilevato che era stata dedotta una prova altrettanto generica” allude all’esistenza di un duplice giudizio nella sentenza di primo grado, di genericità sia delle allegazioni che (“altrettanto”) delle deduzioni probatorie.

Anche le considerazioni della ricorrente sul significato da attribuire al termine “specificate” usato dal D.Lgs. n. 368 del 2001, art. 1 non appaiono condivisibili.

Con l’espressione sopra riprodotta, di chiaro significato già alla stregua delle parole usate, il legislatore ha infatti inteso stabilire un vero e proprio onere di specificazione delle ragioni aggettive del termine finale, perseguendo la finalità di assicurare la trasparenza e la veridicità dì tali ragioni nonchè l’immodificabilità delle stesse nel corso del rapporto (così Corte Costituzionale sent. 14 luglio 2009 n. 214).

Il D.Lgs. n. 368 del 2001, abbandonando il precedente sistema di rigida tipicizzazione delle causali che consentono l’apposizione di un termine finale al rapporto di lavoro (in parte già oggetto di ripensamento da parte del legislatore precedente), in favore di un sistema ancorato alla indicazione di clausole generali (ragioni di carattere tecnico, produttivo, organizzativo o sostitutivo), cui ricondurre le singole situazioni legittimanti come individuate nel contratto, si è infatti posto il problema, nel quadro disciplinare tuttora caratterizzato dal principio di origine comunitaria del contratto dì lavoro a tempo determinato (cfr., in proposito, Cass. 21 maggio 2008 n. 12985) del possibile abuso insito nell’adozione dì una tale tecnica.

Per evitare siffatto rischio dì un uso indiscriminato dell’istituto, il legislatore ha imposto la trasparenza, la riconoscibilità e la verificabilità della causale assunta a giustificazione del termine, già a partire dal momento della stipulazione del contratto dì lavoro, attraverso la previsione dell’onere di specificazione, vale a dire di una indicazione sufficientemente dettagliata della causale nelle sue componenti identificative essenziali, sia quanto al contento che con riguardo alla sua portata spazio-temporale e più in generale circostanziale.

In altri termini, per le finalità indicate, tali ragioni giustificatrici, contrariamente a quanto sostenuto in prima battuta dalla ricorrente, devono essere sufficientemente particolareggiate, in maniera da rendere possibile la conoscenza dell’effettiva portata delle stesse e quindi il controllo di effettività delle stesse. Che questo debba ritenersi il significato del termine “specificate” usato dall’art. 1, comma 2, D.Lgs. cit., risulta del resto confermato dalla interpretazione della relativa disciplina anche alla luce della direttiva comunitaria a cui il decreto medesimo da attuazione. In proposito, è stato di recente chiarito dalla Corte di giustizia CE (cfr., in particolare sent. 23 aprile 2009 neiprocc. riuniti da C – 378/07 a C – 380/07, Kiziaki e altri nonchè seni. 22 novembre 2005, C – 144/04, Mangold) che l’accordo quadro trasfuso nella direttiva 1999/70/CE contiene nel preambolo e del testo sia norme riguardanti ogni tipo di contratto a termine sia norme riferibili esclusivamente al fenomeno della reiterazione dì tale tipo di contratto e quindi ai lavoratori dei contratti a termine ed. successivi.

“Risulta infatti chiaramente sia dall’obiettivo perseguito dalla direttiva 1999/70, sia dall’accordo quadro e dalla formulazione delle pertinenti disposizioni di esso, che … l’ambito disciplinato da tale accordo non è limitalo ai soli lavoratori con contratti di lavoro a tempo determinato successivi, ma che, al contrario, si estende a tutti i lavoratori che forniscono prestazioni retribuite nell’ambito di un determinato rapporto di lavoro che li vincola ai rispettivi datori di lavoro, indipendentemente dal numero di contratti a tempo determinato stipulati da tali lavoratori (punto 116 della sentenza Kiziaki).

In particolare, nella prima categoria rientra a pieno titolo la clausola 8, n. 3 dell’accordo, alla stregua della quale “la applicazione” (della direttiva) “non costituisce un motivo valido per ridurre il livello generale di tutela offerto ai lavoratori nell’ambito coperto dall’accordo”.

Tale clausola, ed. di non regresso, è stata esplicitamente ritenuta dalla Corte di giustizia come riferita ad ogni aspetto della disciplina nazionale del contratto a termine e quindi anche a quella del primo o unico contratto a tempo determinato.

Ed infatti: “La verifica dell’esistenza di una reformatio in pejus ai sensi della clausola 8 n. 3 dell’accordo quadro deve ritenersi in rapporto all’insieme delle disposizioni di diritto interno di uno Stato membro relative alla tutela dei lavoratori in materia di contratti di lavoro a tempo determinato” (punto 120 della medesima sentenza).

Come è stato recentemente rilevato in dottrina, in tal modo la clausola di non regresso persegue lo scopo, in generale, di impedire arretramenti ingiustificati della tutela nella materia considerata, nella ricerca di un difficile equilibrio tra esigenze di modernizzazione dei sistemi sociali nazionali, flessibilità del rapporto per i datori e sicurezza per i lavoratori.

A ciò consegue che una interpretazione del termine “specificate” che non consentisse, nella piena trasparenza, quel controllo dì effettività, assicurato, seppur in maniera diversa, dalla disciplina previgente, risulterebbe in contrasto con la clausola di non regresso di cui alla clausola 8 n. 3 dell’accordo quadro recepito dalla direttiva, in quanto rappresenterebbe un ingiustificato arretramento in rapporto al precedente livello generale dì tutela applicabile nello Stato Italiano e finirebbe altresì per configurare un eccesso di delega da parie del governo rispetto a quanto stabilito dalla L. 29 dicembre 2000, n. 422, che a questo attribuiva unicamente il potere di attuare la direttiva 1999/70/CE, con la possibilità di apportare nei settori interessati dalla normativa da attuare unicamente modifiche o integrazioni necessarie ad evitare disarmonie tra le norme introdotte e quelle già vigenti”.

Nei caso in esame la Corte d’appello, con valutazione in fatto assistita da motivazione sufficiente e non contraddittoria, ha ritenuto che le ragioni giustificatrici dell’apposizione del termine non fossero “specifiche”.

Tale mancanza di specificità non è colmata dal riferimento, nel contratto stipulato tra le parti, a vari accordi sindacali stante la genericità dello stesso in quanto non risulta nè dalla sentenza impugnata nè dagli atti di parte il contenuto degli accordi stessi.

5. Quanto alla contestata conversione del rapporto è sufficiente richiamare la giurisprudenza di questa Corte (Cass., sez. lav., 21 maggio 2008, n. 12985), che ha affermato che il D.Lgs. n. 368 del 2001, art. 1 anche anteriormente alla modifica introdotta dalla L. n. 247 del 2007, art. 39 ha confermato il principio generale secondo cui il rapporto di lavoro subordinato è normalmente a tempo indeterminato, costituendo l’apposizione del termine un’ipotesi derogatoria pur nel sistema, del tutto nuovo, della previsione di una clausola generale legittimante l’apposizione del termine “per ragioni di carattere tecnico, produttivo, organizzativo o sostitutivo”.

Pertanto, in caso di insussistenza delle ragioni giustificative del termine, e pur in assenza di una norma che sanzioni espressamente la mancanza delle dette ragioni, in base ai principi generali in materia di nullità parziale del contratto e di eterointegrazione della disciplina contrattuale, nonchè alla stregua dell’interpretazione dello stesso art. 1 citato nel quadro delineato dalla direttiva comunitaria 1999/70/CE (recepita con il richiamato decreto), e nel sistema generale dei profili sanzionatori nel rapporto di lavoro subordinato, tracciato dalla Corte cost. n. 210 del 1992 e n. 283 del 2005, all’illegittimità del termine ed alla nullità della clausola di apposizione dello stesso consegue l’invalidità parziale relativa alla sola clausola e l’instaurarsi di un rapporto di lavoro a tempo indeterminato. 6. Fondato è invece il quinto motivo.

Questa Corte (Cass., sez. lav., 7 agosto 2004, n. 15331) ha affermato: “… alla luce del principio recentemente ribadito dalle Sezioni Unite di questa Corte, per cui ove, nell’ambito di una controversia sulla sussistenza o meno di un rapporto di lavoro a tempo determinato, si accerti la natura a tempo indeterminato del rapporto stesso, da tale accertamento non deriva automaticamente il diritto del ricorrente alle retribuzioni relative al periodo successivo alla scadenza del termine illegittimamente apposto, atteso che tale diritto è sinallagmaticamente correlato alla prestazione lavorativa.

Ne consegue che al dipendente che cessi l’esecuzione della prestazione lavorativa per attuazione di fatto del termine nullo non spetta la retribuzione finche non provveda ad offrire la prestazione stessa, determinando una situazione di “mora aocipiendi” del datore di lavoro, situazione questa che non è integrata dalla domanda di annullamento del licenziamento illegittimo con la reintegrazione nel posto di lavoro.

In base allo stesso principio si deve escludere anche il diritto del lavoratore ad un risarcimento del danno commisurato alle retribuzioni perdute per il periodo successivo alla scadenza, così come, dalla regola generale di effettività e corrispettività delle prestazioni nel rapporto di lavoro, deriva che, al di fuori di espresse deroghe legali o contrattuali, la retribuzione spetta soltanto se la prestazione dì lavoro viene eseguita, salvo che il datore di lavoro versi in una situazione di “mora accipiendi” nei confronti del dipendente. (Cass, 21 ottobre 1994 n. 8672, febbraio 1998 n. 1734, 26 maggio 2001 n. 7186, 17 ottobre 2001 n. 12697, 26 maggio 2003 n. 8352, la quale ricorda che l’azione proposta dal lavoratore per far valere la continuità del rapporto non deve essere esperita entro il termine di decadenza, avendo natura di azione di mero accertamento.

V. in ordine ai criteri di risarcimento del danno subito a causa dell’impossibilità della prestazione derivante dall’ingiustificato rifiuto del datore di lavoro: Cass. S.U. n. 2334 del 1991, 8 ottobre 2002 n. 14381; in senso contrario cfr. Cass. nn. 866 del 19 99 e 9420 del 2000).” Quindi le retribuzioni spettano solo dalla costituzione in mora. Sul punto la sentenza impugnata è ambigua e comunque contrastante con il principio suddetto perchè, senza accertare nè fissare alcun dies a quo dell’obbligo retributivo coincidente con un atto di costituzione in mora, ha condannato – nel dispositivo – la società al pagamento delle retribuzioni senza specificazione alcuna, sicchè deve intendersi che l’obbligo retributivo sia stato affermato a partire dalla cessazione del rapporto a termine.

6. In definitiva, il ricorso va accolto limitatamente al quinto motivo di ricorso con conseguente cassazione della sentenza impugnata e rinvio, anche per le spese, alla Corte d’appello di Milano in diversa composizione.

PQM

La Corte accoglie il quinto motivo di ricorso, rigettati gli altri;

cassa la sentenza impugnata nei limiti del motivo accolto e rinvia, anche per le spese, alla Corte d’appello di Milano in diversa composizione.

Così deciso in Roma, il 27 maggio 2010.

Depositato in Cancelleria il 18 giugno 2010

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