Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 14778 del 18/06/2010

Cassazione civile sez. lav., 18/06/2010, (ud. 19/05/2010, dep. 18/06/2010), n.14778

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. SCIARELLI Guglielmo – Presidente –

Dott. MONACI Stefano – Consigliere –

Dott. PICONE Pasquale – Consigliere –

Dott. BANDINI Gianfranco – rel. Consigliere –

Dott. NAPOLETANO Giuseppe – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso 5756-2007 proposto da:

SPIMEC DEI FRATELLI PERNA S.N.C., in persona del legale

rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIALE

DELLE MILIZIE 1 presso lo STUDIO LEGALE GHERA-GAROFALO, rappresentata

e difesa dall’avvocato GAROFALO Domenico, giusta delega a margine del

ricorso;

– ricorrente –

contro

I.N.P.S. – ISTITUTO NAZIONALE DELLA PREVIDENZA SOCIALE, in persona

del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliato in

ROMA, VIA DELLA FREZZA N. 17, presso l’Avvocatura Centrale

dell’Istituto, rappresentato e difeso dagli avvocati CORRERA

FABRIZIO, CALIULO LUIGI, SGROI ANTONINO, giusta mandato in calce al

controricorso;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 1532/2006 della CORTE D’APPELLO dì BARI,

depositata il 28/07/2006 R.G.N. 5564/04;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

19/05/2010 dal Consigliere Dott. GIANFRANCO BANDINI;

udito l’Avvocato EDOARDO GHERA per delega GAROFALO DOMENICO;

udito l’Avvocato SGROI ANTONINO;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

MATERA Marcello che ha concluso per il rigetto del ricorso.

 

Fatto

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

La Corte d’Appello di Bari, con sentenza dell’11 – 28.7.2006, riformando la pronuncia di primo grado, ha ritenuto la fondatezza della classificazione nel settore commerciale della Spimec dei F.lli Perna snc, operata dall’Inps a seguito di verbale di accertamento dell’11.12.1992, e la fondatezza delle pretese azionate dall’Inps con decreto ingiuntivo per il recupero degli sgravi e delle fiscalizzazioni di cui la Società aveva beneficiato fin dalla sua costituzione quale esercente attività industriale. A fondamento del decisum la Corte territoriale ha ritenuto che:

la controversia doveva essere risolta sulla base del tipo di attività che l’azienda aveva effettivamente svolto nel periodo in contestazione, tenendo presente che, se un’attività presenta aspetti commerciali e industriali al tempo stesso, la classificazione va effettuata in base all’attività preponderante;

avuto riguardo alle attività effettivamente svolte, sulla base degli accertamenti espletati dal CTU, doveva privilegiarsi, delle due possibili conclusioni esposte dall’ausiliario, quella secondo cui se si deve ritenere che “… l’attività di sezionamento compiuta dalla società opponente sia solo propedeutica alla successiva rivendita della carni, l’inquadramento da assegnare corrisponde al codice statistico contributivo Inps 7.01.02 – commercio all’ingrosso di prodotti alimentari, bevande e tabacco – rientrante nei settore commercio”;

l’eccezione della Società secondo cui la riclassificazione non avrebbe potuto avere luogo se non a seguito di un apposito provvedimento e della notifica del medesimo al destinatario, introduceva una questione inammissibile, siccome svolta per la prima volta in grado d’appello, ed era comunque infondata, poichè, nella specie, non era necessaria una riclassificazione, trattandosi di azienda che, sotto il profilo formale, era abilitata a tutte le attività industriali previste dall’oggetto sociale, sì da potere anche riprendere lo svolgimento di attività industriale.

Avverso tale sentenza della Corte territoriale la Spimec dei F.lli Perna snc ha proposto ricorso per cassazione fondato su cinque motivi e illustrato con memoria.

L’intimato Inps ha resistito con controricorso.

Diritto

MOTIVI DELLA DECISIONE

1. Con il primo motivo la parte ricorrente denuncia violazione e falsa applicazione di legge (art. 2195 c.c.; artt. 115, 116, 118, 194, 195, 421 e 424 c.p.c.), osservando che, nell’indagine relativa alla sussistenza di un’attività industriale, ossia diretta alla produzione di beni e servizi, la Corte territoriale aveva trascurato di considerare (o insufficientemente considerato) quanto era emerso dalla espletata CTU in relazione al sezionamento delle carni (configurante appunto attività industriale), alla macellazione effettuata nell’anno 1992, al disosso delle carni, alfa produzione di insaccati freschi, nonchè quanto documentalmente provato in ordine al numero degli addetti alle lavorazioni di produzione, sezionamento e manipolazione delle carni.

Con il secondo motivo la parte ricorrente denuncia vizio di motivazione con specifico riferimento alla mancata considerazione dell’attività di sezionamento delle carni, non avendo specificato se dovesse considerarsi equivalente quella, esaminata, di disosso. I due predetti motivi vanno esaminati congiuntamente siccome fra loro strettamente connessi.

1.1 Va anzitutto rilevata l’inammissibilità del profilo di doglianza relativo alla dedotta mancata considerazione dei documenti asseritamente comprovanti il numero degli addetti alle lavorazioni di produzione, sezionamento e manipolazione delle carni, non essendo stato trascritto in ricorso, in violazione del principio di autosufficienza, il contenuto della documentazione di cui si lamenta l’omessa disamina (cfr, ex plurimis, Cass., nn. 12362/2006;

2527/2003; 13953/2002).

1.2 Osserva poi il Collegio che la Corte territoriale, secondo quanto già sinteticamente esposto, ha assunto la propria decisione proprio sulla scorta dei rilievi emergenti dalla esperita CTU e, in particolare, ritenendo, secondo quanto alternativamente prospettato dall’ausiliario, il carattere propedeutico alla commercializzazione dell’attività di sezionamento; sicchè risulta assolutamente infondato l’assunto secondo cui tale tipo di attività non sarebbe stata oggetto di considerazione ai fini del decidere; parimenti, dalla lettura della sentenza impugnata, emerge che la Corte territoriale ha espressamente considerato anche l’attività di macellazione, rilevandone tuttavia l’avvenuto espletamento in luoghi diversi da quelli aziendali e ad opera di altra persona giuridica, sì da motivatamente escluderne la rilevanza ai fini della classificazione della stessa come industriale.

Peraltro, più in generale, deve riconoscersi che la Corte territoriale, contrariamente all’assunto della ricorrente, ha avuto assolutamente ben presenti gli accertamenti fattuali svolti dal CTU, ma ha ritenuto, con motivazione aderente ai dati acquisiti e scevra da vizi logici ed errori giuridici, la prevalenza dell’attività commerciale.

1.3 Trova quindi applicazione nella fattispecie il consolidato principio secondo cui la deduzione con il ricorso per cassazione di un vizio di motivazione non conferisce al giudice di legittimità il potere di riesaminare il merito della vicenda processuale sottoposta al suo vaglio, bensì la sola facoltà di controllo, sotto il profilo della correttezza giuridica e della coerenza logico formale, delle argomentazioni svolte dal giudice di merito, essendo de tutto estranea all’ambito del vizio in parola la possibilità, per la Corte di legittimità, di procedere ad una nuova valutazione di merito attraverso l’autonoma disamina delle emergenze probatorie. Con la conseguenza che il vizio di motivazione, sotto il profilo della omissione, insufficienza e contraddittorietà della medesima, può dirsi sussistente solo qualora, nel ragionamento del giudice di merito, siano rinvenibile tracce evidenti del mancato o insufficiente esame di punti decisivi della controversia, prospettati dalle parti o rilevabili d’ufficio, ovvero qualora esista un insanabile contrasto tra le argomentazioni complessivamente adottate, tale da non consentire l’identificazione del procedimento logico giuridico posto a base della decisione; per conseguenza le censure concernenti i vizi di motivazione devono indicare quali siano gli elementi di contraddittorietà o illogicità che rendano del tutto irrazionali le argomentazioni del giudice del merito e non possono risolversi nella richiesta di una lettura delle risultanze processuali diversa da quella operata nella sentenza impugnata (cfr, ex plurimis, Cass., nn. 8718/2005; 15693/2004; 2357/2004; 12467/2003; 16063/2003; 3163/2002).

Al contempo va considerato che, affinchè la motivazione adottata dal giudice di merito possa essere considerata adeguata ed esauriente, non è necessario che essa prenda in esame, al fine di confutarle o condividerle, tutte le argomentazioni svolte dalle parti, ma è sufficiente che il giudice indichi le ragioni del proprio convincimento, dovendosi in questo caso ritenere implicitamente rigettate tutte le argomentazioni logicamente incompatibili con esse (cfr, ex plurimis, Cass.,n. 12121/2004).

Dal che discende l’infondatezza dei motivi all’esame.

2. Con il terzo motivo la ricorrente denuncia violazione dell’art. 2697 c.c., deducendo che, gravando sull’Inps la prova del preteso inquadramento, doveva ritenersi l’insufficienza, ai fini probatori, del dimesso verbale di accertamento.

2.1 Anche in disparte dal pur evidente profilo di inammissibilità, conseguente alla mancata trascrizione nel ricorso (in violazione del principio di autosufficienza) del contenuto del verbale di accertamento di cui la ricorrente assume l’inadeguatezza sotto il profilo probatorio, osserva il Collegio che il prospettato principio generale in tema di riparto dell’onere della prova deve essere coordinato con il principio di acquisizione, in base al quale le risultanze istruttorie, comunque acquisite al processo e quale che sia la parte ad iniziativa (o ad istanza) della quale si siano formate, concorrono tutte alla formazione del convincimento del giudice (cfr, ex plurimis, Cass., SU, n. 28498/2005; Cass., nn. 13383/2008; 2285/2006).

Pertanto la soccombenza dell’attore, per effetto della inottemperanza dell’onere probatorio a suo carico, consegue soltanto nella ipotesi in cui le risultanze istruttorie, comunque acquisite al processo, non siano sufficienti per provare i fatti costitutivi del fondamento del diritto azionato.

Dal che discende l’infondatezza della censura l’esame, avendo la Corte territoriale, come già esposto, fondato la propria decisione sulla base di elementi di giudizio ritualmente acquisiti.

3. Con il quarto motivo la ricorrente denuncia violazione di legge (L. n. 335 del 1995, art. 3; artt. 115, 116, 414, 416, 442 e 437 c.p.c.), osservando che:

– erroneamente la Corte territoriale aveva ritenuto che l’eccezione inerente alla mancanza di un valido provvedimento di riclassificazione fosse inammissibile siccome nuova, risultando per contro ex actis che la stessa era stata prospettata già con il ricorso introduttivo di primo grado;

– ancora erroneamente la Corte territoriale aveva trascurato di considerare che i provvedimenti di variazione della classificazione producono effetti dal periodo di paga in corso alla data di notifica del provvedimento di variazione, non essendo riscontrabile nel caso di specie l’ipotesi della riclassificazione dovuta ad inesatte dichiarazioni della Società, “la quale svolge esattamente l’attività denunciata originariamente”.

Con il quinto motivo la ricorrente denuncia vizio di motivazione, rilevando che la considerazione con la quale la Corte territoriale aveva disatteso, nel merito, l’eccezione in parola, era contraddittoria con la ritenuta rilevanza dell’attività concretamente esercitata e trascurava di esaminare la circostanza della mancanza di un provvedimento di riclassificazione legittimante il recupero delle somme pretesamente dovute.

3.1 I due motivi, fra loro strettamente connessi, vanno esaminati congiuntamente.

Gli stessi presentano evidenti profili di inammissibilità, non essendo stato riportato nel ricorso per cassazione (in violazione del principio di autosufficienza) il contenuto delle dichiarazioni della Società, del provvedimento di sua classificazione come azienda commerciale e del verbale di accertamento in forza del quale è stato ritenuto il diverso inquadramento.

3.2 I motivi risultano peraltro infondati anche in diritto.

Infatti, secondo il condiviso orientamento di questa Corte, in materia di classificazione dei datori di lavoro ai fini previdenziali e ai fini dell’applicabilità della L. n. 335 del 1995, art. 3, comma 8, che fissa la regola che gli effetti della variazione della classificazione si producono dal periodo di paga in corso alla data di notifica del provvedimento, con la sola eccezione, con conseguente retroattività degli effetti della variazione, dell’ipotesi in cui l’inquadramento iniziale sia stato determinato da inesatte dichiarazioni del datore di lavoro, l’omessa comunicazione dei mutamenti intervenuti nell’attività svolta dall’azienda, la quale, per effetto delle scelte operate dall’imprenditore, assume caratteristiche tali da comportare una diversa classificazione ai fini previdenziali, è da equiparare all’ipotesi delle dichiarazioni inesatte, giacchè, alla stregua della comune ratio di assicurare la corrispondenza della classificazione, a fini previdenziali, all’effettiva attività dei datori di lavoro, anche in caso di omessa comunicazione, rispetto al quale la sanzione amministrativa comminata dal D.L. n. 362 del 1978, art. 2 (convertito, con modificazioni, nella L. n. 467 del 1978) ribadisce, per un verso, l’obbligo della comunicazione e, per altro verso, non esaurisce gli effetti dell’omissione stessa, si realizza, sia pure in un momento successivo, una discrasia tra l’effettività della situazione e le dichiarazioni sulle quali la classificazione iniziale era fondata (cfr, Cass., n. 13383/2008; nonchè, Cass., n. 1338/1999, in motivazione; contra Cass., n. 4521/2006, le cui argomentazioni trovano tuttavia convincente critica nella successiva pronuncia Cass., n. 13383/2008, cit.).

Ne discende che, avendo la Società, nel periodo di riferimento, giusta l’accertamento fattuale svolto dal Giudice del merito, esercitato preponderante attività riconducibile al settore commerciale, la stessa sarebbe stata comunque onerata di effettuare le dovute comunicazioni in tal senso, quand’anche tale preponderante attività commerciale non fosse sussistita al momento delle dichiarazioni rese.

3.3 Ne consegue la reiezione dei motivi all’esame (restando assorbita ogni ulteriore ragione di doglianza), previa modifica nei termini anzidetti della motivazione della sentenza impugnata, risultando comunque conforme a diritto la decisione sul punto.

4. In base alle considerazioni che precedono il ricorso va dunque rigettato.

Le spese, liquidate come in dispositivo, seguono la soccombenza.

PQM

La Corte rigetta il ricorso e condanna la parte ricorrente alla rifusione delle spese di lite, che liquida in Euro 10,00, oltre ad Euro 3.000,00 (tremila) per onorari e accessori di legge.

Così deciso in Roma, il 19 maggio 2010.

Depositato in Cancelleria il 18 giugno 2010

 

 

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