Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 1477 del 24/01/2014


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Civile Sent. Sez. L Num. 1477 Anno 2014
Presidente: LAMORGESE ANTONIO
Relatore: NOBILE VITTORIO

SENTENZA

sul ricorso 9283-2009 proposto da:
NUOVA SACELIT S.R.L. C.F. 01771700166, in persona del
legale rappresentante pro tempore, elettivamente
domiciliata in ROMA, VIA G.B. VICO l, presso lo studio
dell’avvocato PROSPERI MANGILI LORENZO, che la
rappresenta e difende unitamente all’avvocato LUCCHINI
2013

BRUNO, giusta delega in atti;
– ricorrente –

3244

.

contro

BENEDETTO

NICOLINO

C.F.

BNDNLN47L06E745T,

elettivamente domiciliato in ROMA, VIA FLAMINIA 195,

Data pubblicazione: 24/01/2014

presso lo studio dell’avvocato MASSIDDA MAURIZIO, che
lo rappresenta e difende unitamente all’avvocato
SIGNORELLI PIERO, giusta delega in atti;
controricorrente

avverso la sentenza n. 450/2008 della CORTE D’APPELLO

udita la relazione della causa svolta nella pubblica
udienza del 14/11/2013 dal Consigliere Dott. VITTORIO
NOBILE;
udito l’Avvocato PROSPERI MANGILI LORENZO;
udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore
Generale Dott. GIUSEPPE CORASANITI, che ha concluso
per: inammissibilità dei primi due motivi, rigetto del
terzo.

di BRESCIA, depositata il 17/01/2009 R.G.N.669/06;

R.G. 9283/2009
FATTO E DIRITTO
Con sentenza n. 689/2005 il Giudice del lavoro del Tribunale di Bergamo,

o/2

all’esito di una CTU e in parziale accoglimento della domanda di Benedetto

1979, al risarcimento del danno biologico e morale per la malattia contratta,
fibrosi polmonare progressiva interstiziale conseguente ad inalazione di fibre
di amianto, a cui attribuiva una percentuale di invalidità del 5%, affermando
l’eziopatologia professionale della malattia e il nesso causale con l’omissione
colposa di misure di sicurezza idonee a prevenire e diminuire le polveri di
amianto, presenti sul luogo di lavoro in ragione dell’attività produttiva svolta
dalla società convenuta e respingeva invece la domanda relativa al danno da
ipoacusia non essendo stato possibile enucleare all’interno del danno
complessivo la percentuale attribuibile alla convenuta.
La società proponeva appello avverso la detta sentenza ribadendo le difese
già svolte ed in particolare sottolineando la sensibilità individuale alle polveri
d’amianto, la non prevedibilità del danno e l’assenza quindi di una violazione
dell’art. 2087 c.c., essendo gli impianti a norma secondo le conoscenze
dell’epoca. L’appellante contestava comunque la quantificazione del danno
effettuata secondo le cosiddette tabelle di Milano, in luogo dell’applicazione
delle tabelle INAIL comprendenti ormai il danno biologico.
Il Benedetto si costituiva chiedendo la conferma della statuizione sul
danno polmonare e proponendo appello incidentale sul mancato
riconoscimento del danno da ipoacusia, in quanto, essendo stata riconosciuta
la genesi professionale della menomazione e la rumorosità dell’ambiente di
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Nicolino, condannava la Nuova Sacelit s.p.a., datrice di lavoro dal 1976 al

lavoro, era necessario procedere a nuova CTU per enucleare il danno
riconducibile all’esposizione presso la Nuova Sacelit.
La Corte d’Appello di Brescia, rinnovata la CTU audiologica, con
sentenza depositata il 17-1-2009, respingeva l’appello principale e, in

del danno biologico differenziale e morale da ipoacusia professionale nella
misura complessiva di euro 8.087,33, con gli accessori, oltre al pagamento
delle spese del doppio grado.
In sintesi la Corte territoriale:
riteneva provata una condotta colposa della società di omissione di
misure di sicurezza sotto il profilo della mancata riduzione della polverosità
dell’ambiente di lavoro, della mancata adozione di procedimenti di
lavorazione idonei a limitare le operazioni suscettibili di creare ulteriore
polverosità e della mancata istruzione adeguata dei dipendenti in ordine alla
pericolosità delle lavorazioni a cui erano addetti e alle cautele da osservare, il
tutto in relazione al periodo de quo;
rilevava che la società non aveva provato le dedotte circostanze legate
all’esistenza di una predisposizione individuale a contrarre la malattia e della
possibilità di contrarla anche per l’inalazione di dosi minime di polveri, al fine
di una interruzione del nesso causale fra condotta ed evento;
sul quantum, evidenziava che, attesa la differenza ontologica tra
l’indennizzo erogato dall’INAIL (che del resto non copre il danno biologico
per invalidità permanenti inferiori al 6%) e il risarcimento del danno in materia
di responsabilità civile, comunque andava riconosciuto al lavoratore il danno
biologico da invalidità permanente escluso dalla sfera dell’assicurazione
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accoglimento dell’appello incidentale, condannava la società al risarcimento

INAIL, applicando a tal fine correttamente i criteri equitativi milanesi in uso
anche nel distretto di Brescia;
sull’appello incidentale rilevava che la CTU espletata in sede di gravame
aveva confermato sia la otolesività della lavorazione sia il certo nesso causale

complessivamente al 9% ed affermava che, dovendo applicarsi i principi di cui
agli artt. 40 e 41 c.p., nella fattispecie, sussistendo senz’altro la concausa della
invalidità in termini di rilevante probabilità, non aveva rilievo la maggiore o
minore incidenza nel raffronto con le altre concause di origine professionale ed
extraprofessionale.
Per la cassazione di tale sentenza la società ha proposto ricorso con tre
motivi.
Benedetto Nicolino ha resistito con controricorso.
Entrambe le parti hanno depositato memoria ex art. 378 c.p.c..
MOTIVI DELLA DECISIONE
Con il primo motivo, denunciando violazione dell’art. 2697 c.c., la società
ricorrente deduce che nella fattispecie è mancata la prova del nesso causale tra
la esposizione all’amianto e l’evento lesivo, non essendo emersi “elementi in
base ai quali poter stabilire se il Benedetto ha contratto le placche pleuriche a
causa della sua elevata suscettibilità individuale, certamente non addebitabile
ad essa società, all’epoca delle prime esposizioni, ovvero successivamente, per
effetto delle dosi progressivamente accumulate”. In specie la ricorrente rileva
che “le conoscenze derivanti dalla epidemiologia riguardano la causalità
generale, ma nulla dicono sulla causalità individuale”, di guisa che “non è
consentito dedurre automaticamente dal coefficiente di probabilità espresso
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tra la stessa e una quota del danno da ipoacusia professionale pari

dalla legge statistica la conferma o meno” dell’esistenza del nesso causale,
dovendo il giudice “verificarne la validità nel caso concreto”.
Con il secondo motivo la società lamenta vizio di motivazione in ordine al
fatto decisivo e controverso della esistenza della possibilità di prevenire le

all’amianto del Benedetto.
In particolare la ricorrente evidenzia che fino alla seconda metà degli anni
’80 sia le maschere antipolvere individuali che i filtri per gli impianti di
aspirazione fissi e mobili erano completamente inefficaci perché sicuramente
permeabili alle fibre di diametro submicronico, mentre soltanto con il decreto
6-9-94 sono state prescritte ufficialmente in Italia maschere di gomma
semifacciali con filtri assoluti, finalmente adeguate alla protezione verso le
fibre ultrafini.
Con il terzo motivo la società lamenta che la Corte di merito avrebbe
violato l’art. 2087 c.c. anche in relazione all’art. 21 del d.P.R. 303/1956, in
quanto “ha accreditato la conclusione che gli obblighi di comportamento, in
punto di predisposizione di meccanismi di aspirazione o riduzione delle
polveri, ex art. 21 cit., potessero radicare comportamenti doverosi della Nuova
Sacelit s.r.l. anche con riferimento a tipologie di polveri (quelle ultrafini,
appunto, dotate di efficacia patogenetica decisiva ai fini dell’insorgenza delle
placche pleuriche), per le quali invece le acquisizioni tecniche di causa
escludevano l’esistenza di rimedi preventivi adeguati all’epoca dei fatti”.
Osserva il Collegio che il terzo motivo è inammissibile in quanto del tutto
privo del quesito di diritto ex art. 366 bis c.p.c., che va applicato nella specie
ratione temporis, trattandosi di ricorso avverso una sentenza pubblicata
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placche pleuriche all’epoca (1976/1979) in cui risaliva l’esposizione

successivamente all’entrata in vigore del d.lgs. n. 40 del 2006 ed anteriormente
all’entrata in vigore della legge n. 69 del 2009 (v. fra le altre Cass. 16-12-2009
n. 26364, Cass. 18-7-2011 n. 15718).
I primi due motivi risultano infondati e vanno respinti.

regola contenuta nell’art. 41 cod. pen., per cui il rapporto causale tra evento e
danno è governato dal principio dell’equivalenza delle condizioni, principio
secondo il quale va riconosciuta l’efficienza causale ad ogni antecedente che
abbia contribuito, anche in maniera indiretta e remota, alla produzione
dell’evento, salvo il temperamento previsto nello stesso art. 41 cod. pen., in
forza del quale il nesso eziologico è interrotto dalla sopravvenienza di un
fattore sufficiente da solo a produrre l’evento, tale da far degradare le cause
antecedenti a semplici occasioni” (v. Cass. 9-9-2005 n. 17959, Cass. 3-5-2003
n. 6722).
Del resto, come è stato costantemente affermato in generale, in ambito
civilistico la prova del nesso causale consiste anche nella relazione
probabilistica concreta tra comportamento ed evento dannoso, secondo il
criterio, ispirato alla regola della normalità causale ossia del “più probabile che
non” (v. fra le altre Cass. 16-1-2009 n. 975, cfr. Cass. 16-10-2007 n. 21619,
Cass. 11-5-2009 n. 10741, Cass. 8-7-2010 n. 16123, Cass. 21-7-2011 n.
15991).
In particolare, poi, è stato anche precisato che “nel caso di malattia ad
eziologia multifattoriale, il nesso di causalità relativo all’origine professionale
della malattia non può essere oggetto di semplici presunzioni tratte da ipotesi
tecniche teoricamente possibili, ma necessita di una concreta e specifica
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Sul primo motivo va premesso che nella specie trova applicazione “la

dimostrazione, e, se questa può essere data anche in termini di probabilità sulla
base delle particolarità della fattispecie (essendo impossibile, nella maggior
parte dei casi, ottenere la certezza dell’eziologia), è necessario pur sempre che
si tratti di “probabilità qualificata”, da verificarsi attraverso ulteriori elementi

probabilistica in certezza giudiziale (v. Cass. 12-5-2004 n. 9057).
Nella fattispecie la Corte territoriale sulla base delle valutazioni e delle
conclusioni della CTU, applicando i principi sopra richiamati, legittimamente
ha ritenuto provato nella specie il nesso causale tra l’esposizione professionale
all’amianto e la genesi della patologia polmonare contratta, non essendo,
d’altra parte, emerse rilevanti cause interruttive del detto nesso causale.
In particolare la Corte non soltanto ha fatto proprie le valutazioni
epidemiologiche dell’ausiliare, bensì ha anche accertato, in base alla prova
testimoniale, che il Benedetto, pur avendo lavorato soltanto per tre anni presso
la Nuova Sacelit. “è stato esposto al rischio di inalazione di fibre di amianto in
modo massiccio quale addetto ai vari lavori tra i quali principalmente la
miscelazione”, in un ambiente privo delle necessarie misure di sicurezza
all’epoca già conosciute, quali la segregazione degli ambienti polverosi,
l’installazione di impianti di aspirazione adeguati e l’abbattimento delle polveri
con l’umidificazione.
Parimenti infondato è, poi, il secondo motivo, riguardante l’asserita non
prevenibilità, all’epoca, dell’evento dannoso.
Come è stato ripetutamente affermato da questa Corte, la responsabilità
del datore di lavoro di cui al citato art. 2087 è di natura contrattuale, per cui “ai
fini del relativo accertamento, incombe sul lavoratore che lamenti di aver
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(come ad esempio i dati epidemiologici), idonei a tradurre la conclusione

subito, a causa dell’attività lavorativa svolta, un danno alla salute, l’onere di
provare l’esistenza di tale danno, come pure la nocività dell’ambiente di
lavoro, nonché il nesso tra l’uno e l’altro elemento, mentre grava sul datore di
lavoro — una volta che il lavoratore abbia provato le predette circostanze —

aver adottato tutte le cautele necessarie per impedire il verificarsi del danno
medesimo” (v. Cass. 17-2-2009 n. 3788, Cass. 17-2-2009 n. 3786, Cass. 7-32006 n. 4840, Cass. 24-7-2006 n. 16881, Cass. 6-7-2002 n. 9856, Cass. 18-22000 n. 1886).
In sostanza “la responsabilità dell’imprenditore per la mancata adozione
delle misure idonee a tutelare l’integrità fisica del lavoratore discende o da
norme specifiche o, quando queste non siano rinvenibili, dalla norma di ordine
generale di cui all’art. 2087 c.c., la quale impone all’imprenditore l’obbligo di
adottare nell’esercizio dell’impresa tutte quelle misure che, secondo la
particolarità del lavoro in concreto svolto dai dipendenti, si rendano necessarie
a tutelare l’integrità fisica dei lavoratori” (v. fra le altre Cass. 19-4-2003 n.
6377, Cass. 1-10-2003 n. 16645).
In particolare, con riguardo all’inalazione di polveri di amianto questa
Corte ha precisato che “la responsabilità dell’imprenditore ex art. 2087 cod.
civ. non configura un’ipotesi di responsabilità oggettiva, ma non è circoscritta
alla violazione di regole d’esperienza o di regole tecniche preesistenti e
collaudate, sanzionando anche, alla luce delle garanzie costituzionali del
lavoratore, l’omessa predisposizione di tutte le misure e cautele atte a
preservare l’integrità psicofisica del lavoratore nel luogo di lavoro, tenuto conto
della concreta realtà aziendale e della maggiore o minore possibilità di
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l’onere di provare di aver fatto tutto il possibile per evitare il danno, ovvero di

indagare sull’esistenza di fattori di rischio in un determinato momento storico.
Pertanto, qualora sia accertato che il danno è stato causato dalla nocività
dell’attività lavorativa per esposizione all’amianto, è onere del datore di lavoro
provare di avere adottato, pur in difetto di una specifica disposizione

dal rischio espositivo secondo le conoscenze del tempo di insorgenza della
malattia.” (v. da ultimo Cass. 3.8.2012 n. 13956, cfr. Cass. 1-2-2008 n. 2491,
Cass. 14-1-2005 n. 644).
Del resto, come è stato chiarito da Cass. 30-6-2005 n. 14010, seppure
all’epoca non fossero state ancora emanate specifiche norme per il trattamento
dei materiali contenenti amianto (introdotte col DPR 10 febbraio 1982 n. 15),
senz’altro si imponeva l’adozione di misure idonee a ridurre il rischio
connaturale all’impiego di tali materiali, in relazione alla norma di chiusura di
cui all’art. 2087 cc ed all’art. 21 del DPR 19 marzo 1956 n. 303, ove si
stabilisce che nei lavori che danno normalmente luogo alla formazione di
polveri di qualunque specie, il datore di lavoro è tenuto ad adottare
provvedimenti atti ad impedire o ridurre, per quanto è possibile, lo sviluppo e
la diffusione nell’ambiente di lavoro” soggiungendo che “le misure da adottare
a tal fine devono tenere conto della natura delle polveri e della loro
concentrazione”, cioè devono avere caratteristiche adeguate alla pericolosità
delle polveri”.
Orbene la sentenza impugnata, sul punto, nel respingere la tesi della
società, dopo aver premesso che “la normativa del 1956 già contemplava
alcune misure specifiche” (quali la segregazione degli ambienti polverosi,
l’installazione di impianti di aspirazione adeguati e l’abbattimento delle polveri
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preventiva, le misure generiche di prudenza necessarie alla tutela della salute

con l’umidificazione), ha accertato, in base alle risultanze della prova
testimoniale, che tali misure, senz’altro già disponibili all’epoca ed idonee ad
abbattere significativamente la polverosità e quindi anche ad evitare
l’insorgenza della malattia, non sono state affatto adottate in Nuova Salicet,

(ma non segregato), non vi sono stati per molti anni aspiratori, successivamente
vennero adottati aspiratori inadeguati e svariate erano le mansioni che
implicavano l’esposizione diretta alla polvere non inumidita, comprese quelle
di pulizia di macchine dal materiale secco, dello spostamento dei sacchi di tela
contenenti la polvere di amianto, del caricamento dei miscelatori (fatto a mano
se le pale erano rotte) e della manipolazione degli impasti, di cui i lavoratori
rimanevano impiastricciati”.
Pertanto la Corte di merito ha ritenuto nella specie provata la condotta
colposa omissiva della società, “sotto il profilo della mancata riduzione della
polverosità dell’ambiente di lavoro, della mancata adozione di procedimenti di
lavorazione idonei a limitare le operazioni suscettibili di creare ulteriore
polverosità e della mancata istruzione adeguata dei dipendenti in ordine alla
pericolosità delle lavorazioni a cui erano addetti e alle cautele da osservare
(relative alle tute, stivali ecc. e al trattamento di detti indumenti)”,
considerando tali omissioni rilevanti “a prescindere dalle questioni relative alla
dotazione di mascherine e alle loro caratteristiche tecniche” all’epoca.
Tale decisione, conforme ai principi sopra richiamati e all’indirizzo
consolidato in materia, risulta altresì congruamente motivata e resiste alla
censura della ricorrente.

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essendo anzi emerso che: “il reparto di miscelazione era separato dagli altri

Il ricorso va pertanto respinto e la ricorrente, in ragione della
soccombenza, va condannata al pagamento delle spese in favore del Benedetto.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso e condanna la ricorrente a pagare al Benedetto le

accessori di legge.
Roma 14 novembre 2013
IL CONSIGLIERE ESTENSORE
2t2=ELANTE

Il Funzionario Giudii
Dott.ssa Donatel

spese, liquidate in euro 100,00 per esborsi e euro 3.000,00 per compensi, oltre

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