Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 14764 del 27/05/2021

Cassazione civile sez. trib., 27/05/2021, (ud. 12/03/2021, dep. 27/05/2021), n.14764

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. CIRILLO Ettore – Presidente –

Dott. CONDELLO Pasqualina A.P. – Consigliere –

Dott. FEDERICI Francesco – Consigliere –

Dott. ROSSI Raffaele – rel. Consigliere –

Dott. MAISANO Giulio – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso iscritto al n. 15020/2013 R.G. proposto da:

DB UK BANK LIMITED, in persona del legale rappresentante,

elettivamente domiciliato in Roma, piazza d’Aracoeli n. 1, presso lo

studio degli Avv.ti Guglielmo Maisto e Marco Cerrato, dai quali è

rappresentato e difeso, giusta procura speciale per atto di notaio;

– ricorrente –

contro

AGENZIA DELLE ENTRATE, in persona del direttore pro tempore,

rappresentata e difesa dall’Avvocatura Generale dello Stato, con

domicilio legale in Roma, via dei Portoghesi, n. 12, presso

l’Avvocatura Generale dello Stato;

– controricorrente –

Avverso la sentenza n. 518/2012 della Commissione tributaria

regionale dell’Abruzzo – sezione staccata di Pescara, depositata il

6 dicembre 2012.

Udita la relazione svolta nella camera di consiglio del 12 marzo 2021

dal Consigliere Raffaele Rossi.

 

Fatto

RILEVATO

che:

1. La DB UK Bank Limited, società sedente nel Regno Unito ed operante nel settore del trading su mercati finanziari, presentò all’Agenzia delle Entrate – Centro Operativo di (OMISSIS) istanze di rimborso (per un importo complessivo di Euro 100.954.464) volte al riconoscimento del credito d’imposta sui dividendi di fonte italiana percepiti dalla società nelle annualità 1998-2003.

Formulò le richieste ai sensi della Convenzione tra la Repubblica Italiana e il Regno Unito di Gran Bretagna e d’Irlanda del Nord (in appresso, per brevità: “la Convenzione”), art. 10, par. 4, per evitare le doppie imposizioni e prevenire le evasioni fiscali in materia di imposte sul reddito stipulata a Pallanza il 21 ottobre 1988 e ratificata con L. 5 novembre 1990, n. 329.

L’Amministrazione finanziaria emise provvedimento di diniego parziale (nei limiti del 83,11% dell’ammontare complessivo richiesto), sul rilievo che la società istante aveva posto in essere un’attività di arbitraggio fiscale “estero su estero” mediante tecniche di dividend washing realizzate con operazioni di stock loan o securities lending finalizzate all’indebita fruizione dei benefici stabiliti dalla Convenzione. In particolare, al fine di stabilire il credito d’imposta spettante l’Ufficio applicò un criterio statistico – induttivo, basato sulla giacenza media mensile in capo alla richiedente delle azioni italiane produttive di dividendi onde individuare gli strumenti finanziari effettivamente acquisiti dalla società.

2. Avverso tale provvedimento di diniego (e previa rinuncia a parte dei crediti originariamente chiesti in rimborso) la società spiegò impugnativa in sede giurisdizionale, chiedendo altresì la condanna dell’Amministrazione finanziaria al pagamento della somma di Euro 20.256.449, oltre accessori e spese.

Le domande sono state rigettate in ambedue i gradi di merito.

3. Avverso la sentenza resa in grado di appello, in epigrafe indicata, ricorre per cassazione la DB UK Bank Limited, affidandosi a sette motivi, cui resiste, con controricorso, l’Agenzia delle Entrate.

Parte ricorrente deposita memoria illustrativa nonchè istanza di discussione in pubblica udienza.

Diritto

CONSIDERATO

che:

4. Preliminarmente va disattesa l’istanza di trattazione della causa in pubblica udienza formulata dal ricorrente con la memoria depositata in data 2 marzo 2021.

Giova premettere che la Corte Costituzionale, interrogata sulla conformità alla Carta fondamentale del rito camerale di legittimità “non partecipato” previsto dall’art. 380-bis c.p.c., ebbe a chiarire che il principio di pubblicità dell’udienza, seppur previsto dall’art. 6 CEDU, ed avente rilievo costituzionale, non riveste carattere assoluto e può essere derogato in presenza di “particolari ragioni giustificative”, ove “obiettive e razionali” (Corte Cost. 11/03/2011, n. 80).

Confortato da tale autorevole insegnamento, il legislatore ha esteso la portata applicativa del procedimento oltre le ipotesi di inammissibilità e manifesta fondatezza o infondatezza del ricorso: è stato infatti introdotto (con il D.L. 31 agosto 2016, n. 168, art. 1-bis, comma 1, lett. f), convertito dalla L. 25 ottobre 2016, n. 197) l’art. 380-bis.1. c.p.c., regolante il “procedimento per la decisione in camera di consiglio dinanzi alla sezione semplice”.

Incentrato su un’adunanza non partecipata dalle parti e sulla trattazione esclusivamente mediante deposito di memorie scritte, il procedimento camerale in parola è congegnato in maniera da garantire il pieno rispetto del principio del contraddittorio (anche nei riguardi del rappresentante del procuratore generale) ed assicurare alle parti la compiuta esplicazione delle facoltà difensive, tenuto conto dell’adeguatezza del termine stabilito per la comunicazione del giorno fissato per l’adunanza e del previo (eventuale) deposito delle conclusioni del procuratore generale (Cass. 05/04/2017, n. 8869).

Resta salva la possibilità, in applicazione analogica dell’art. 380-bis, comma 3, c.p.c., della rimessione della causa alla pubblica udienza, riservata alla valutazione discrezionale del collegio giudicante e praticabile quando la lite involga questioni di diritto di particolare rilevanza da decidere con pronunce aventi valenza nomofilattica, idonee a rivestire efficacia di precedente ed orientare il successivo percorso della giurisprudenza (Cass., Sez. U, 23/04/2020, n. 8093; Cass., Sez. U, 05/06/2018, n. 14437).

Nella vicenda in esame, pur a fronte della novità di alcune delle questioni giuridiche prospettate e dell’indubbio interesse di esse, ritiene il Collegio giustificata la trattazione della controversia nella stabilita adunanza camerale in ragione: (a) dell’esigenza di una celere definizione del ricorso (pendente dal remoto anno 2013), i cui tempi sarebbero inevitabilmente dilatati ove si rinviasse la lite alla pubblica udienza, con (ulteriore) vulnus al principio costituzionale di ragionevole durata del processo; (b) dell’esplicita opzione di favore per la trattazione “cartolare” dei giudizi che, per motivi di tutela della salute pubblica, anima la legislazione emergenziale anti Covid-19, opzione recepita in provvedimenti organizzativi adottati dal Primo Presidente di questa Corte, recanti misure – tuttora in vigore – volte ad evitare assembramenti all’interno dell’Ufficio giudiziario e contatti ravvicinati tra le persone (per una fattispecie analoga, cfr. Cass. 20/11/2020, n. 26480).

5. Con il primo motivo, si denuncia violazione della Convenzione, art. 10, par. 5, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3.

Secondo il ricorrente, ha errato il giudice di prossimità nel ritenere che la mancata previsione, nella Convenzione, di un termine di decadenza dell’A.F. dal potere di accertamento della spettanza del credito d’imposta richiesto implichi anche l’assenza di un termine iniziale per l’avvio della fase istruttoria del procedimento di accertamento stesso.

Per converso – si sostiene – la formulazione testuale della norma pattizia impone all’A.F di dare immediatamente corso alla fase istruttoria del controllo già al momento di presentazione dell’istanza: si valorizza, sul punto, il dettato dell’art. 10, par. 5, nella parte in cui stabilisce che al soggetto residente nel Regno Unito non compete il rimborso dei crediti d’imposta sui dividendi percepiti ove l’autorità fiscale dello Stato italiano contesti “all’atto della ricezione di un’istanza” che la partecipazione fonte di dividendi è stata acquisita non per ragioni commerciali e in buona fede.

In forza dei principi sanciti dalla Convenzione sull’interpretazione dei trattati internazionali stipulata a Vienna il 23 maggio 1969 (ratificata con L. 12 febbraio 1974, n. 112) ed in particolar modo sulla base del senso comune attribuibile ai termini utilizzati, “l’individuazione di uno stringente momento di avvio della fase istruttoria del procedimento di controllo, già all’atto di presentazione dell’istanza di rimborso, è invero una soluzione necessitata che consente di prescindere dai termini di conservazione dei documenti che ciascuno Stato prevede per i propri contribuenti residenti”.

6. Con il secondo motivo, si lamenta violazione del Trattato sul funzionamento dell’Unione Europea, art. 63, e del Trattato sull’Unione, art. 6, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3.

L’inapplicabilità alle istanze di rimborso oggetto del contendere del termine di decadenza D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, ex art. 43, ritenuta dalla gravata sentenza determina, per l’impugnante, una disparità di trattamento tra soggetto residente e soggetto non residente in ordine alle modalità di tassazione dei dividendi, con derivante restrizione alla libera circolazione di capitali sancita dai menzionati Trattati dell’Unione Europea

Nella prospettazione del ricorrente, la denunciata discriminazione risiede nel fatto che i soggetti residenti nel Regno Unito, dovendo necessariamente presentare un’istanza di rimborso, sono assoggettati ad un termine di contestazione del proprio credito (quello decennale di prescrizione ordinaria ex art. 2946 c.c.) “sostanzialmente doppio” rispetto ai soggetti residenti i quali, esponendo il credito d’imposta nella dichiarazione dei redditi, “conseguono la certezza della propria posizione giuridica entro i termini ordinari di accertamento di cui al D.P.R. n. 600 del 1973, art. 43 “.

7. Le doglianze – intrinsecamente connesse siccome concernenti, sotto differenti aspetti, i modi di esercizio del potere di accertamento dell’A.F. – possono essere unitariamente scrutinate.

Esse sono infondate.

7.1. La Convenzione non offre una disciplina compiuta ed esaustiva del procedimento di riconoscimento o rimborso dei crediti d’imposta dalla stessa nascenti: essa si limita a prevedere (art. 29, par. 2) che “la domanda di rimborso deve essere presentata entro i termini stabiliti dalla legislazione dello Stato contraente nel quale l’imposta è stata prelevata”, senza null’altro statuire, in specie quanto a modi e tempi dell’istruttoria da espletare sulla richiesta.

Muovendo dall’esposta premessa, questa Corte, con pronunce più volte reiterate, ha chiarito che in punto di istanze di rimborso del credito d’imposta relativo a dividendi percepiti da società con sede nel Regno Unito (o da società da esse controllate) occorre aver riguardo alle regole generali che governano il fenomeno dell’incidenza del decorso del tempo sui diritti, cioè alle norme in tema di prescrizione.

Si spiega: “Nell’ordinamento interno ed in quello convenzionale non vi è alcuna norma che preveda un termine di prescrizione o di decadenza per accertare l’infondatezza di una domanda di rimborso, nè può farsi applicazione analogica del D.P.R. 29 settembre 1972, n. 603, art. 43, che su tale punto rinvia al termine previsto dal D.P.R. n. 600 del 1973, art. 43, commi 1 e 2. E’, infatti, principio generale che nel diritto tributario tutti i termini devono essere espressamente previsti e, in mancanza, deve farsi applicazione della norma generale contenuta nell’art. 2946 c.c., che prevede il termine di prescrizione decennale” (così, testualmente, Cass. 14/06/2019, n. 16001; cfr. Cass. 28/05/2019, n. 14527).

D’altro canto – specularmente – l’ordinario termine di prescrizione decennale è riconosciuto al soggetto residente in altro Stato membro che rivendichi un credito d’imposta per dividendi regolato da una Convenzione contro le doppie imposizioni, non soggiacendo la relativa istanza al termine decadenziale D.P.R. n. 602 del 1973, ex art. 38 (in ordine alla Convenzione, Cass. 05/02/2020, n. 2617; Cass. 09/10/2015, n. 20269; Cass. 26/10/2012, n. 18442; con riferimento alla Convenzione contro le doppie imposizioni stipulata tra l’Italia e la Francia il 5 ottobre 1989, ratificata dalla L. 7 gennaio 1992, n. 20, vedi Cass. 16/01/2015, n. 691; Cass. 19/12/2014, n. 27079).

7.2. Alla decadenza D.P.R. n. 600 del 1973, ex art. 43, quale regula iuris del caso in esame non può farsi richiamo nemmeno in via di applicazione analogica o per effetto di interpretazione estensiva.

La citata disposizione ha ad oggetto la rettifica della dichiarazione dei redditi presentata dal contribuente e sancisce un termine di decadenza decorrente, testualmente, dalla data di presentazione della dichiarazione: si tratta, più precisamente, di un atto di recupero di credito d’imposta nei confronti di soggetto italiano che presenta la dichiarazione dei redditi in Italia e che ha un rapporto periodico con il fisco, tanto che il credito può essere utilizzato in compensazione negli anni successivi (Cass. 31/01/2020, n. 2313).

Una fattispecie in tutta evidenza disomogenea e non assimilabile alla istanza di rimborso presentata occasionalmente (o comunque senza ontologici connotati di periodicità) da soggetto non residente e privo di stabile organizzazione nel territorio statale.

Gli enunciati principi di diritto (ai quali si è conformata la gravata pronuncia) vanno qui ribaditi, resistendo alle argomentazioni di tenore contrario illustrate dal ricorrente.

8. Non è corretto, innanzitutto, ritenere che la Convenzione, art. 10, par. 5, oneri l’Amministrazione finanziaria di dare avvio alla fase istruttoria del procedimento di controllo, mediante richiesta all’istante della prova delle ragioni commerciali e della buona fede nell’acquisizione della partecipazione, già all’atto della presentazione della domanda di rimborso.

E ciò al lume dei canoni di ermeneutica dei trattati internazionali stabiliti dalla citata Convenzione di Vienna (“sul diritto dei trattati”).

La lettura della Convenzione, art. 10, par. 5, prospettata dal ricorrente, la quale inferisce dalla locuzione “all’atto della ricezione” la contestualità o immediatezza tra istanza di rimborso ed iniziativa istruttoria dell’Ufficio finanziario, è infatti contraria al senso comune da attribuire al suddetto termine nel contesto del trattato (e cioè a dire, al fondamentale principio dell’obiettività sancito dalla Convenzione di Vienna, art. 31).

La previsione di un incombente a carico dell’A.F. così serrato (che, peraltro, costituirebbe un unicum nell’ordinamento tributario) e dagli effetti così rilevanti (se ne fa discendere, in caso di inosservanza, la illegittimità dell’azione di accertamento) appare invero gravemente distonica rispetto all’ordito generale della Convenzione, caratterizzata (come già evidenziato) dalla totale assenza di regolamentazione delle scansioni procedimentali del riconoscimento o rimborso del credito d’imposta, integralmente rimesse alla legislazione nazionale.

Riguardata nella sua pratica operatività, la tesi in esame, poi, conduce ad un risultato illogico e chiaramente non ragionevole: essa ignora lo iato temporale che necessariamente intercorre tra la formulazione dell’istanza di rimborso e l’attivazione del controllo ad opera dell’A.F. (tramite i chiarimenti rivolti all’istante), iato dovuto all’ineludibile esigenza di esame dell’istanza (e dei documenti allegati) e di verifica di completezza della stessa da parte dell’Ufficio.

Non da ultimo, va rimarcato come proprio l’espressione su cui riposa l’argomentare dell’impugnante evidenzi una divergenza di significato tra i due testi autentici della Convenzione: nella versione in lingua inglese “all’atto della ricezione” corrisponde a “on receipt of a claim”, locuzione cui, nella prassi dei commerci internazionali, si attribuisce usualmente il significato di “su presentazione di richiesta”, “dietro richiesta”, “previo ricevimento di richiesta”.

Occorre dunque prediligere un’esegesi che, conciliando i due testi, consenta alla norma pattizia in esame di produrre un determinato effetto utile e non irragionevole, secondo un principio euristico (c.d. di conservazione) sotteso ed immanente alla Convenzione di Vienna.

In quest’impostazione, la frase “all’atto della ricezione” va intesa non come contemporaneità o immediata successione temporale bensì come consequenzialità logica ovvero ordine nell’iter procedimentale aperto dalla richiesta e privo di barriere temporali definite: l’istanza del soggetto percettore dei dividendi non postula in prima battuta l’esposizione delle ragioni o finalità di acquisto della partecipazione; a seguito di essa, l’A.F. avvia l’istruttoria instaurando il contraddittorio con il richiedente, con oggetto la prova dell’intento non fraudolento (in buona fede, ragioni commerciali, ordinaria attività di gestione di investimenti) dell’acquisizione dei titoli produttivi di dividendi.

9. Non si ravvisa neppure l’inosservanza delle norme unionali oggetto di contestazione con il secondo motivo di ricorso.

Sono doverose brevi premesse di natura sistematica, ricognitive degli insegnamenti sul tema offerti dalla giurisprudenza comunitaria.

Ancorchè la materia delle imposte dirette sia integralmente devoluta alla legislazione nazionale, gli Stati membri sono tenuti ad esercitare la relativa potestà nel rispetto del diritto dell’Unione, evitando che da tale esercizio derivino ostacoli alla piena realizzazione delle libertà fondamentali enunciate dal Trattato (sull’argomento, Corte di giustizia, 4 marzo 2004, causa C-334/02, Commissione c/Francia, punto 21; Corte di giustizia 20 gennaio 2011, causa C155/09, Commissione c/Grecia, punto 39).

Quanto alla libera circolazione dei capitali sancita dall’art. 63 TFUE (Trattato CE, ex art. 56), sono vietate, in quanto importanti restrizioni dei movimenti di capitali, le misure idonee a dissuadere non residenti dal fare investimenti in uno Stato membro o a dissuadere residenti in detto Stato dal farne in altri Stati (Corte di giustizia 25 gennaio 2007, causa C-370/05, Festersen, punto 24; Corte di giustizia 18 dicembre 2007, causa C-101/05, Skatteverket, punto 40; Corte di giustizia 10 febbraio 2011, cause C-436/08 e C437/08, Haribo Lakritzen Hans Riegel e Ústerreichische Salinen, punto 50; Corte di giustizia 10 maggio 2012, cause da C-338/11 a C-347/11, Santander Asset, punto 15).

Tracciando il perimetro applicativo dell’art. 63 TFUE, si è altresì precisato che “il dividendo di per sè non è un movimento di capitale, ma il fatto che per conseguirlo sia necessario investire capitali in partecipazioni in società o in acquisto di titoli rende la distribuzione del dividendo fenomeno indissolubilmente legato al movimento di capitali, in quanto tale presidiato dalla tutela apprestata dall’indicata norma del Trattato” (Corte di giustizia 16 marzo 1999, causa C-222/97, Trummer e Mayer, punti 21 e 24).

La libera circolazione dei capitali non è tuttavia illimitata: possibili deroghe (e, quindi, legittime restrizioni ai movimenti di capitali) sono previste nell’ambito dello stesso TFUE.

In specie, l’art. 64 TFUE, par. 1 (Trattato CE, ex art. 57) statuisce che “Le disposizioni di cui all’art. 63 lasciano impregiudicata l’applicazione ai paesi terzi di qualunque restrizione in vigore alla data del 31 dicembre 1993 in virtù delle legislazioni nazionali o della legislazione dell’Unione per quanto concerne i movimenti di capitali provenienti da paesi terzi o ad essi diretti, che implichino investimenti diretti, inclusi gli investimenti in proprietà immobiliari, lo stabilimento, la prestazione di servizi finanziari o l’ammissione di valori mobiliari nei mercati finanziari”, mentre il successivo art. 65 TFUE, par. 1 (trattato CE, ex art. 58), recita così: “Le disposizioni dell’art. 63, non pregiudicano il diritto degli Stati membri: a) di applicare le pertinenti disposizioni della loro legislazione tributaria in cui si opera una distinzione tra i contribuenti che non si trovano nella medesima situazione per quanto riguarda il loro luogo di residenza o il luogo di collocamento del loro capitale”.

9.1. Definite le coordinate, normative e giurisprudenziali, di riferimento, la questione sulla conformità ai dettami del TFUE della previsione nella legislazione nazionale di un termine di accertamento più lungo è stata già risolta dai giudici Europei.

Con la sentenza del 15 febbraio 2017, resa nella causa C-317/15, la Corte di Giustizia ha stabilito che “L’art. 64 TFUE, par. 1, deve essere interpretato nel senso che si applica a una normativa nazionale che impone una restrizione ai movimenti di capitali considerati in tale disposizione, come il termine di rettifica fiscale prolungato di cui trattasi nel procedimento principale, anche allorchè detta restrizione può essere parimenti applicata in situazioni che non implicano investimenti diretti, lo stabilimento, la prestazione di servizi finanziari o l’ammissione di valori mobiliari nei mercati finanziari”.

Segnatamente, la Corte ha ravvisato nell’art. 64, par. 1, una deroga (legata all’effetto, non all’oggetto della normativa nazionale) all’art. 63, par. 1, a favore dell’applicazione delle restrizioni esistenti nel diritto interno per quanto concerne i movimenti di capitali che implicano investimenti diretti, lo stabilimento, la prestazione di servizi finanziari o l’ammissione di valori mobiliari nei mercati finanziari, affermando, testualmente, che “una restrizione rientra nell’ambito dell’art. 64 TFUE, par. 1, in quanto restrizione dei movimenti di capitali implicanti investimenti diretti qualora riguardi gli investimenti di qualsiasi tipo effettuati dalle persone fisiche o giuridiche ed aventi lo scopo di stabilire o mantenere legami durevoli e diretti tra il finanziatore e l’impresa cui tali fondi sono destinati per l’esercizio di un’attività economica” (cfr. punto 22 della decisione).

9.2. Se l’illustrato dictum della Corte Europea esclude in radice la configurabilità di illegittime restrizioni al principio di libera circolazione dei capitali in caso di termini prolungati di rettifica fiscale previsti da norme degli Stati membri, va poi osservato (ad ulteriore suffragio dell’infondatezza della censura in discorso) come la diversità dei tempi di conseguimento di certezza della propria posizione giuridica tra soggetti residenti e non residenti, nei sensi postulati dal ricorrente, non sussista nel nostro diritto interno.

Secondo il consolidato orientamento di questa Corte (al quale si intende qui dare convinta continuità), anche in relazione ai crediti d’imposta esposti dai contribuenti (residenti) nella dichiarazione dei redditi non trovano applicazione i termini decadenziali per l’esercizio del potere di accertamento dell’A.F., “atteso che tali termini operano limitatamente al riscontro dei suoi (dell’A.F.) crediti e non dei suoi debiti, in applicazione del principio “quae temporalia ad agendum, perpetua ad excipiendum”” (Cass., Sez. U., 15/03/2016, n. 5069 e successive conformi: Cass. 31/01/2018, n. 2392; Cass. 06/02/2019, n. 3404; Cass. 05/02/2020, n. 2617).

Non vi è, dunque, disomogeneità di trattamento, neanche in ordine al circoscritto aspetto dei termini di verifica dell’esistenza di un credito d’imposta, tra soggetti residenti e non residenti.

In conclusione, escluso ogni ragionevole dubbio circa il significato delle disposizioni unionali invocate, in ossequio al principio del c.d. acte clair va disattesa la richiesta di rimessione alla Corte di Giustizia per le questioni prospettate dal ricorrente, non esistendo alcun diritto della parte all’automatico rinvio pregiudiziale ogniqualvolta il giudice investito della controversia non condivida le tesi difensive dell’istante semprechè le ragioni del diniego siano espresse (Cass., Sez. U., 08/07/2016, n. 14042, in motivazione).

10. Con il terzo motivo si eccepisce la nullità della sentenza per violazione dell’art. 132 c.p.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4.

A parere del ricorrente, la sentenza gravata è inficiata da motivazione apparente, per aver ritenuto l’attività di trading su titoli svolta dall’istante in prossimità dello stacco dei dividenti elemento sufficiente a giustificare l’applicazione del criterio della media (e cioè del metodo statistico induttivo) adoperato dall’A.F. per ricostruire l’ammontare dei crediti d’imposta spettanti, senza esplicitare gli elementi idonei a “ripercorrere l’iter logico giuridico” seguito.

Il motivo è manifestamente infondato.

Giova rammentare che, per effetto della riduzione al “minimo costituzionale” del sindacato di legittimità sulla motivazione operata dal D.L. 22 giugno 2012, n. 83, art. 54, convertito dalla L. 7 agosto 2012, n. 134, è denunciabile in cassazione soltanto l’anomalia motivazionale che si tramuti in violazione di legge costituzionalmente rilevante, in quanto attinente all’esistenza della motivazione in sè, e che si esaurisca nella “mancanza assoluta di motivi sotto l’aspetto materiale e grafico”, nella “motivazione apparente”, nel “contrasto irriducibile tra affermazioni inconciliabili” e nella “motivazione perplessa ed obiettivamente incomprensibile”, esclusa la rilevanza del semplice difetto di “sufficienza” della motivazione (sul punto, basti il richiamo a Cass., Sez. U., 22/09/2014, n. 19881 e a Cass., Sez. U., 07/04/2014, n. 8053).

In particolare, la “motivazione apparente” ricorre quando il giudice ometta di esporre i motivi, in fatto ed in diritto, della decisione, di rendere intellegibile l’iter logico seguito per pervenire al dictum reso, così impedendo la praticabilità di un controllo sull’esattezza e sulla logicità del ragionamento (sulla nozione di “motivazione apparente” cfr., tra le tantissime, Cass., Sez. U., 07/04/2014, n. 8053; Cass., Sez. U., 22/09/2014, n. 19881; Cass., Sez. U., 21/06/2016, n. 16599; Cass., Sez. U., 03/11/2016, n. 22232; Cass. 25/09/2018, n. 22598; Cass. 23/05/2019, n. 13977).

Ciò posto, il percorso argomentativo seguito nella decisione qui impugnata consente, in tutta tranquillità, di intendere le ragioni fondanti il convincimento della C.T.R., la quale ha ritenuto valida la metodologia accertativa seguita dell’Ufficio sulla scorta di una pluralità di elementi sintomatici di una condotta anomala della società istante (la sistematica acquisizione di titoli di società italiane in periodi prossimi allo stacco dei dividendi, la coincidenza tra volumi di azioni in entrata ed in uscita), corroborando con tali rilievi (ed anzi espungendo, in risposta ai rilievi dell’appellante, l’improprio richiamo ai rapporti con la società Morgan Greenfell) la relatio in condivisione della pronuncia del giudice di prime cure.

Una motivazione sufficiente, logica, non contraddittoria, per implicito reiettiva della incompatibile impostazione logico-giuridica della parte appellante.

11. Con il quarto motivo, si lamenta violazione della Convenzione, art. 10, par. 4, dell’art. 2697 c.c., del D.P.R. n. 600 del 1973, artt. 40 e 42, e del D.P.R. n. 602 del 1973, art. 38, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3.

La contestazione della spettanza del credito d’imposta contenuta nel diniego opposto è stata operata dall’Ufficio (ed avvalorata dal giudice di prossimità) mediante l’impiego di metodi statistico induttivi ed in ragione di pratiche di dividend washing (la fittizia allocazione della titolarità formale delle azioni in relazione alle quali sono stati pagati i controversi dividendi), cioè a dire di condotte di natura elusiva: in tal guisa, secondo il ricorrente, è stato tuttavia omesso l’esame analitico di ogni singola istanza di rimborso, necessario invece per verificare “se, per quel singolo dividendo, ricorressero o meno accordi per la retrocessione dei titoli azionati e dei dividendi”.

L’applicazione del criterio della giacenza media – sostiene ancora l’impugnante – si sostanzia in un’inversione dell’onere della prova, dacchè solleva l’A.F. dal dover dimostrare, in relazione a ciascuna fattispecie genetica del diritto al rimborso, la sussistenza di un contegno elusivo, fatto giuridico estintivo del diritto al rimborso.

11.1. La censura è infondata, per plurime ragioni.

In primis, dalla lettura delle parti salienti del diniego trascritte in ricorso e dall’andamento della prodromica fase procedimentale non pare dubbio che il provvedimento da cui scaturisce la lite sia stato adottato sulla considerazione della totalità dei titoli azionari fonte dei dividendi in discorso e della giacenza media dei (e delle operazioni di investimento e disinvestimento compiute sui) titoli stessi per come riferite dalla società istante (in ottemperanza alla richiesta dell’A.F.): una rilevazione di dati, quindi, integrale ed obiettiva.

E il criterio della giacenza media mensile di tutte le azioni possedute, riferito ad un congruo arco temporale (l’anno) e depurato della mensilità di stacco del dividendo (nella quale si concentravano le operazioni di acquisto e rivendita di azioni ad opera della società istante, con un contegno difforme dalle modalità di andamento degli scambi azionari rilevato nell’intero settore borsistico), appare, ad avviso di questa Corte, metodologia idonea a disvelare la finalità di elusione fiscale ostativa – ai sensi della Convenzione, art. 10, par. 5, al riconoscimento del credito d’imposta sulle cedole riscosse.

L’acquisizione di partecipazioni azionarie allo scopo specifico di beneficiare del credito d’imposta è, infatti, attività che può essere correttamente apprezzata soltanto alla luce di un’analisi “sistemica” ed attenta alla “sostanza economica” della condotta, continuata nel tempo, dell’investitore (vieppiù se avente una struttura organizzativa di imponenti dimensioni), in conformità ai principi enunciati dalla Commissione Europea nella raccomandazione del 6 dicembre 2012 n. 2012/772/UE sulla pianificazione fiscale aggressiva nel settore dell’imposizione diretta.

La necessità di una visione complessiva e non atomistica del genere è confermata anche dalla giurisprudenza Europea. In un recente e basilare arresto (sentenza della Grande Sezione 26 febbraio 2019, cause C-116/16 e C-117/16, Skatteministeriet c/T Denmark e Y Denmark Aps, punti 71, 97-98), la Corte di Giustizia, occupandosi di doppia imposizione su dividendi, ha puntualizzato che “è l’esame di un complesso di fatti che consente di verificare la sussistenza degli elementi costitutivi di una pratica abusiva” (da intendersi come operazione effettuata allo scopo di beneficiare fraudolentemente dei vantaggi previsti dalla normativa unionale), pratica abusiva la cui prova richiede, oltre all’esistenza dell’elemento soggettivo, “un insieme di circostanze oggettive”, “una serie di fatti comprovanti” o di “indizi oggettivi e concordanti” (similmente, Corte di giustizia 20 giugno 2013, causa C-653/11, Newey, punti 47-49; Corte di giustizia 14 aprile 2016, causa C.131/14, Cervati e Malvi, punto 47).

11.2. Da ultimo (ma con valenza decisiva, assorbente i profili sin qui illustrati in ordine al criterio utilizzato dell’A.F.), è in diritto errata la censura del ricorrente in punto di onere della prova.

Come più volte statuito da questa Corte in relazione a vicende analoghe a quella in parola, nel giudizio contenzioso sorto a seguito di diniego di rimborso, la società inglese che intende beneficiare del credito di imposta sulle cedole riscosse da una società residente in Italia è attore in senso sostanziale, come tale tenuto a dare prova degli elementi costitutivi dell’invocato diritto a non subire una seconda tassazione della ricchezza: segnatamente, a dimostrare, in forza della espressa previsione della Convenzione, art. 10, par. 5, di aver acquistato la partecipazione azionaria nell’ambito della sua normale attività e che tale acquisizione non era specificamente finalizzata al conseguimento del credito d’imposta (cfr. Cass. 03/05/2019, n. 11648; Cass. 12/07/2018, n. 18397; Cass. 23/09/2016, n. 18628; Cass. 20/02/2013, n. 4164).

12. Con il quinto motivo, si deduce violazione dell’art. 2729 c.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3.

A dire del ricorrente, la gravata sentenza, validando il criterio della giacenza media, è incorsa in una doppia presunzione – peraltro fondata su elementi privi dei requisiti di precisione e gravità costituita dall’aver: (a) ricavato presuntivamente la natura elusiva dei contratti sottoscritti dalla società dall’anomala attività di trading svolta al momento dello stacco dei dividendi e (b) dalla natura elusiva così desunta ulteriormente dedotto l’ammontare dei crediti spettanti mediante un’altra presunzione rappresentata dalle relazioni matematiche di matrice statistica sottese al criterio della media.

Il motivo è in parte inammissibile ed in parte infondato.

12.1. E’ inammissibile laddove richiede alla Corte una nuova valutazione sui caratteri di precisione e gravità della circostanza (l’acquisizione di titoli in prossimità dello stacco dei dividendi) da cui la C.T.R. ha presuntivamente desunto la natura anomala o elusiva dell’attività della società istante in rimborso.

Detta inammissibilità riposa su una duplice, concorrente ragione: per un verso, il giudice di prossimità ha considerato, ai fini della descritta inferenza presuntiva, anche un ulteriore dato indiziario (la coincidenza tra i volumi di azioni in entrata ed in uscita), ignorato dalla censura del ricorrente; per altro verso – e funditus l’apprezzamento sulla gravità di un elemento indiziario è tipicamente riservato al giudice di merito, incensurabile in sede di legittimità ove (come nel caso) sorretto da adeguata motivazione.

12.2. E’ infondato laddove denuncia il contrasto della decisione gravata con il principio del c.d. “divieto di doppie presunzioni” o “divieto di presunzioni di secondo grado o a catena”, tralaticiamente menzionato in varie sentenze, ma in realtà non riconducibile nè all’art. 2729 c.c., nè a qualsiasi altra norma dell’ordinamento.

A ben vedere, infatti, il divieto di praesumptum de praesumpto (secondo cui l’impiego delle presunzioni semplici sarebbe limitato ai casi nei quali il fatto noto è dimostrato con prove diverse dalle presunzioni o è percepito direttamente dal giudice) appare l’esito di un approccio interpretativo più teso a limitare, in via generale, l’inferenza presuntiva che non a cogliere la logica che in ogni caso deve caratterizzare il ragionamento presuntivo.

Si spiega: ove, come di solito accade nell’induzione tributaria, la prova presuntiva è caratterizzata da una serie “lineare” di inferenze, qualora cioè per ogni singola inferenza il giudice apprezzi, secondo i criteri di gravità, precisione e concordanza, che il fatto “noto” sia in grado di attribuire un adeguato grado di attendibilità al fatto “ignorato”, quest’ultimo – secondo logica – cessa di essere fatto “ignorato” divenendo un fatto “noto”, venendo così meno l’equivoco logico che si cela dietro il divieto di doppie presunzioni.

Sono queste le conclusioni, condivise dalla dottrina più attenta ai profili logici della prova indiziaria, oramai proprie di un diffuso indirizzo ermeneutico del giudice della nomofilachia, al quale va assicurata continuità (ex plurimis, da ultimo, Cass. 07/12/2020, n. 27982; Cass. 03/03/2020, n. 5798; Cass. 16/12/19, n. 33042; Cass. 19/12/2019, n. 33961; Cass. 01/08/2019, n. 20748; Cass. 14/12/2018, n. 32458 e n. 32454; Cass. 16/06/2017, n. 15003).

13. Con il sesto motivo, si lamenta, ai sensi dell’art. 360c.p.c., comma 1, n. 5, l’omesso esame di un fatto decisivo oggetto di discussione tra le parti.

I fatti decisivi ed incidenti sulla corretta determinazione del credito d’imposta da rimborsare di cui il ricorrente lamenta la mancata disamina sono: (a) le “rotazioni” (acquisto, vendita e successivo acquisto) degli stessi titoli in un arco temporale inferiore all’anno, secondo gli schemi tipici dell’operato di una società (quale l’istante) di intermediazione mobiliare; (b) la struttura organizzativa del gruppo Deutsche Bank (di cui la società istante fa parte), ed in particolare i rapporti con la stabile organizzazione nel Regno Unito della società Deutsche Bank AG.

13.1. Il motivo è inammissibile.

Lungi dal rappresentare un “fatto” nell’accezione prevista e rilevante come ragione di impugnazione ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, (e cioè a dire un preciso accadimento di vita o una precisa circostanza intesa in senso storico-naturalistico), il ricorrente si duole dell’omesso esame di elementi indiziari (l’orizzonte temporale inferiore all’anno degli investimenti operati da una società di intermediazione mobiliare; la proporzionale riferibilità alla società istante delle azioni detenute da altra società, la DB London) asseritamente incidenti sulla determinazione del credito d’imposta.

In tal guisa, però, la censura si concreta nella contrapposizione tra le argomentazioni e le deduzioni difensive svolte dalla parte nei gradi di merito e la ricostruzione della vicenda operata dal giudice di prossimità sulla base degli elementi indiziari o probatori dallo stesso ritenuti essenziali ai fini del proprio convincimento.

Tendendo, per implicito, ad una differente lettura del compendio istruttorio, il motivo si risolve, dunque, nel richiedere a questa Corte un (non consentito) apprezzamento sulla attendibilità e concludenza degli elementi indiziari valorizzati dalla sentenza impugnata e, in ultima analisi, un (inaccettabile) riesame delle emergenze istruttorie: attività tutte esclusivamente riservate al giudice di merito ed estranee alla natura ed alla finalità del giudizio di legittimità.

14. Con il settimo motivo, l’impugnante sussume il rilievo critico si cui al precedente motivo (ed in forza dei medesimi argomenti, integralmente richiamati) sub specie di omessa motivazione circa un fatto controverso e decisivo, ai sensi dell’art. 360, comma 1, num. 5, c.p.c., nella formulazione anteriore alla novella dell’art. 54, comma 3-bis, del D.L. 22 giugno 2012, n. 83 (comma aggiunto dalla legge di conversione del 7 agosto 2012, n. 134).

14.1. Il motivo è inammissibile.

Esso muove dall’errato presupposto dell’inapplicabilità al processo tributario dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, nella versione come sopra novellata, ratione temporis vigente all’epoca di pubblicazione della sentenza in esame (6 dicembre 2012): per contro, le disposizioni sul ricorso per cassazione circa il vizio denunciabile ai sensi della modificata disposizione si applicano anche alle impugnazioni avverso le sentenze della Commissione tributaria regionale, non assumendo connotazioni di specialità il giudizio di legittimità in materia tributaria (Cass., Sez. U, 07/04/2014, n. 8053).

15. Il regolamento delle spese di lite segue la soccombenza.

PQM

Rigetta il ricorso. Condanna parte ricorrente al pagamento in favore della controricorrente delle spese del giudizio di legittimità, che liquida in Euro 30.000 per compensi, oltre spese prenotate a debito.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento da parte del ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello, ove dovuto, previsto per il ricorso principale, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis.

Così deciso in Roma, nella Camera di Consiglio della Quinta Sezione Civile, il 12 marzo 2021.

Depositato in Cancelleria il 27 maggio 2021

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