Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 14761 del 30/06/2014


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Civile Sent. Sez. L Num. 14761 Anno 2014
Presidente: ROSELLI FEDERICO
Relatore: TRICOMI IRENE

SENTENZA

sul ricorso 28029-2012 proposto da:
LAVEZZO MARIO C.F. LVZMRA65M02H501B, ROSSANO ALBINO
C.F RSSLBN50A18C858L, elettivamente domiciliati in
ROMA, VIA GIOVANNI NICOTERA 29, presso lo studio
degli avvocati PIRANI GIORGIO, PARASCANDOLO SILVIA,
che li rappresentano e difendono, giusta delega in
2014

atti;
– ricorrenti –

1681

contro

TELECOM ITALIA S.P.A. C.F. 00488410010, in persona
del legale rappresentante pro tempore, elettivamente

Data pubblicazione: 30/06/2014

domiciliata in ROMA, VIA L.G. FARAVELLI 22, presso lo
studio degli avvocati MORRICO ENZO, ROMEI ROBERTO,
FRANCO RAIMONDO BOCCIA, MARESCA ARTURO che la
rappresentano e difendono, giusta delega in atti;

controri corrente

D’APPELLO di ROMA, depositata il 22/06/2012 R.G.N.
6523/2009;
udita la relazione della causa svolta nella pubblica
udienza del 12/05/2014 dal Consigliere Dott. IRENE
TRICOMI;
uditi gli avvocati PIRANI GIORGIO e PARASCANDOLO
SILVIA;
udito l’Avvocato BOCCIA FRANCO RAIMONDO;
udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore
Generale Dott. ALBERTO CELESTE / che ha concluso per il

avverso la sentenza n. 5215/2012 della CORTE

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
1. La Corte d’Appello di Roma, con la sentenza n. 5215 del 2012, decidendo
sull’impugnazione proposta da Telecom Italia spa nei confronti di lezzi Eleonora,
Lavezzo Mario, Colibazzi Fabio, Simonelli Gigliola, Rossano Albino, avente ad oggetto
l’impugnazione della sentenza del Tribunale di Roma n. 13791 del 2008, accoglieva
l’appello ed in riforma della sentenza impugnata, accoglieva l’opposizione proposta da
Telecom Italia spa con il ricorso di primo grado e revocava i decreti ingiuntivi nn.
2923, 2924, 2925, 2926, 2927 del 2007, opposti. Compensava tra le parti le spese di
entrambi i gradi di giudizio.
2. Con i suddetti decreti ingiuntivi, il Tribunale di Roma aveva intimato alla
società di pagare in favore di lezzi Eleonora, Lavezzo Mario, Colibazzi Fabio,
Simonelli Gigliola, Rossano Albino, le somme come indicate a titolo di retribuzione
maturata nel mese di febbraio 2007, in ragione della sentenza resa tra le parti dal
medesimo Tribunale in data 4 maggio 2006, con la quale era stata dichiarata la
illegittimità del trasferimento del contratto di lavoro dei ricorrenti da IT Telecom alla
HD DCS srl e per l’effetto condannata la società Telecom, nelle more subentrata a IT
Telecom, al ripristino del rapporto.
3. La Corte d’Appello, premesso che la società Telecom non aveva dato
spontanea esecuzione all’ordine di ripristino, sicché i lavoratori avevano continuato a
prestare attività lavorativa in favore della società cessionaria, dalla quale avevano
ricevuto nel periodo in contestazione la retribuzione, riteneva, quindi, richiamando,
altresì, la sentenza n. 19740 del 2008, che nella fattispecie in esame, sebbene la
condotta di Telecom spa, che non aveva provveduto tempestivamente a ripristinare la
funzionalità del rapporto con l’appellata, nonostante a ciò sollecitata, dovesse
considerarsi illegittima, le conseguenze di tale condotta non poteva che rilevare sul
piano risarcitorio e non, invece, in difetto della prestazione lavorativa, su quello
o rilevabilità del cosiddetto “aliunde
retributivo, con conseguente eccepibilità
perceptum”, il quale nel caso di specie elideva completamente il danno subito per
effetto della perdita della retribuzione.
4. Per la cassazione della suddetta sentenza resa in grado di appello ricorrono
Mario Lavezzo e Albino Rossano prospettando due motivi di ricorso.
5. Resiste Telecom spa con controricorso.
6. Entrambe le parti hanno depositato memoria in prossimità dell’udienza.
MOTIVI DELLA DECISIONE
1. Con il primo motivo di ricorso è prospettata violazione — in relazione all’art.
360, n. 3, cpc — degli artt. 1206, 1207, 1217 e 1453 cc, nella parte in cui la sentenza ha
ritenuto che la messa in mora del creditore e l’impossibilità della prestazione per fatto
imputabile esclusivamente al creditore stesso non determinino il diritto ad esigere la
controprestazione cioè la retribuzione, da parte del lavoratore, ma esclusivamente il
diritto al risarcimento del danno, con applicabilità dei principi della compensatio lucri
cum damno e, in particolare, dell’ aliunde peceptum.
I ricorrenti censurano la statuizione della Corte d’Appello che nega la
sussistenza dell’obbligazione retributiva così violando le norme sopra richiamate.
L’ingiustificato rifiuto della prestazione lavorativa, offerta dai ricorrenti,
configura una situazione di mora credendi, che non libera il datore di lavoro dalla
propria obbligazione.
Sussiste infatti, nella specie in capo al datore di lavoro la mora del creditore ed è
dunque a suo carico l’impossibilità della prestazione sopravvenuta per causa non
imputabile al debitore. Assumono, altresì, i ricorrenti che il risarcimento del danno in
3

ragione del complesso normativo di cui alle disposizioni richiamate, si aggiunge
all’adempimento e non lo sostituisce. Erroneamente la Corte d’Appello avrebbe
sostenuto ciò attraverso un impropria estensione della disciplina recata dall’art. 18 della
legge n. 300 del 1970, che stabilisce che con l’ordine di reintegra il giudice condanna il
datore di lavoro al risarcimento del danno, commisurato alle retribuzioni.
I ricorrenti richiamano, inoltre, la sentenza n. 303 del 2011 della Corte
costituzionale e la sentenza n. 5241 del 2012 di questa Corte a sostegno delle proprie
argomentazioni.
2. Con il secondo motivo di ricorso è dedotta violazione — in relazione all’art.
360, n. 3, cpc — dell’art. 2094 cc, nella parte in cui la sentenza ha ritenuto che, stante la
natura sinallagmatica del rapporto di lavoro, la erogazione del trattamento economico
anche in caso di mancata prestazione costituisca un’eccezione, prevista elusivamente
dalla legge o dal contratto.
Nella specie il sinallagma genetico tra le obbligazione del datore di lavoro e del
lavoratore è stato ricostituito con sentenza, in ragione dell’accertamento
dell’illegittimità della cessione del ramo di azienda, e nel caso in esame la mancata
prestazione lavorativa è imputabile al solo datore di lavoro che diventa unico
responsabile della mancata esecuzione del contratto.
3. I suddetti motivi di ricorso devono essere trattati congiuntamente in ragione
della loro connessione. Gli stessi non sono fondati.
Occorre premettere che non si verte in ipotesi di conversione del rapporto di
lavoro a termine in rapporto di lavoro a tempo indeterminato in ragione della
illegittimità del termine di durata apposto (sentenza della Corte costituzionale n. 303
del 2011, richiamata dai ricorrenti).
Questa Corte, con la sentenza n. 18740 del 2008, alla quale si intende dare
continuità, pronunciando in ordine ad una analoga fattispecie avente quale presupposto
la dichiarazione della illegittimità della cessione di ramo d’azienda, ha affermato: «la
soc. Ansaldo Energia con l’ultimo motivo di appello aveva contestato la pronunzia del
giudice di primo grado che l’aveva condannata al pagamento delle differenze retributive
e al risarcimento del danno ex art. 18 dello statuto dei lavoratori nella misura di cinque
mensilità, evidenziando che la dipendente non aveva perso il posto di lavoro, ma aveva
solo cambiato datore in applicazione dell’art. 2112 cc, non traendone alcun pregiudizio
economico. Il giudice di appello, pur affermando correttamente che la nullità della
cessione del rapporto di lavoro comporta la prosecuzione dello stesso in capo alla soc.
Ansaldo nella posizione lavorativa precedentemente occupata dall’attrice, rigettando in
toto l’impugnazione non ha modificato la pronunzia del primo giudice che aveva
condannata la soc. cedente al risarcimento del danno nella misura di cinque mensilità ed
al pagamento delle retribuzioni omesse fino alla reintegra. Nella specie, invece, il
rapporto della lavoratrice è proseguito (seppure solo di fatto) con la società acquirente
del ramo di azienda, con conservazione per la stessa di tutti i diritti derivanti. Ne
consegue che, essendo pacifica la continuazione dell’attività lavorativa ed il godimento
della retribuzione, ai lavoratori ceduti non è derivato alcun danno da licenziamento
illegittimo, non essendoci stato allontanamento dal posto di lavoro. Conseguentemente i
lavoratori avrebbero potuto richiedere il risarcimento del danno per l’illegittima
cessione del rapporto di lavoro secondo le norme codicistiche sull’illecito contrattuale
(art. 1218 e ss. cc ) e non già secondo la disciplina speciale posta dall’art. 18 dello
Statuto dei lavoratori (v. Cass. n. 2521 del 1998). Non essendo stata fornita prova di
danno, neppure sotto il profilo della perdita delle retribuzioni (o di parte di esse), il
motivo deve ritenersi fondato e deve essere accolto».
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Il Presidente

I principi così enunciati si condividono.
Ed infatti, nella cessione di contratto si ha la sostituzione di un soggetto
(cessionario) ad altro (cedente) nel rapporto giuridico, il quale rimane — di regola e
salvo eccezione, la cui prova deve essere fornita dalla parte interessata — eguale nei suoi
elementi oggettivi.
L’illecito contrattuale sussistente a carico del datore di lavoro, dà luogo ad
un’obbligazione risarcitoria in favore del lavoratore in presenza della prova del danno.
Nella specie, tuttavia, non è ravvisabile un danno atteso che il rapporto dei
lavoratori è proseguito con la società acquirente del ramo di azienda, con conservazione
per gli stessi di tutti i diritti derivanti.
4. Il ricorso deve essere rigettato.
5. In presenza di diversi esiti della giurisprudenza di merito le parti le spese del
presente giudizio sono compensate tra le parti.
PQM
La Corte rigetta il ricorso. Compensa tra le parti le spese di giudizio.
Così deciso in Roma il 12 maggio 2014

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