Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 14758 del 19/07/2016


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Cassazione civile sez. II, 19/07/2016, (ud. 07/06/2016, dep. 19/07/2016), n.14758

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SECONDA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. MAZZACANE Vincenzo – Presidente –

Dott. ORICCHIO Antonio – Consigliere –

Dott. CORRENTI Vincenzo – Consigliere –

Dott. SCARPA Antonio – Consigliere –

Dott. CRISCUOLO Mauro – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 13403/2012 proposto da:

M.G., (OMISSIS), elettivamente domiciliato in ROMA, VIA S.

TOMMASO D’AQUINO 47, presso lo studio dell’avvocato MICHELE BONETTI,

rappresentato e difeso dall’avvocato UMBERTO CANTELLI giusta procura

a margine del ricorso;

– ricorrente –

contro

J.A., MA.AN., I.C., elettivamente

domiciliati in ROMA, PIAZZA DI SAN LORENZO IN LUCINA N. 4, presso lo

studio dell’avvocato DOMENICO CORTESE, rappresentati e difesi dagli

avvocati ELIO DE MONTIS, ANNA MARIA DE MONTIS, ALDO DE MONTIS in

virtù di procura a margine del controricorso;

– controricorrenti –

avverso la sentenza n. 125/2012 della CORTE D’APPELLO di CAGLIARI,

depositata il 13/03/2012;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

07/06/2016 dal Consigliere Dott. MAURO CRISCUOLO;

udito l’Avvocato Umberto Cantelli per il ricorrente;

udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore

Generale Dott. PATRONE Ignazio, che ha concluso per

l’inammissibilità o in subordine per il rigetto il rigetto del

ricorso.

Fatto

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

Con atto di citazione notificato in data 19/7/1982 Ma.An. e Ma.Lu. (in alcune parti del giudizio indicati anche come M.) convenivano in giudizio dinanzi al Tribunale di Cagliari il fratello Ma.Gi., affinchè fosse pronunciata la divisione del bene in comunione in parti eguali, costituito da un fabbricato in (OMISSIS), insistente su di un’area, parimenti comune, il tutto riportato in catasto al foglio 40, mappale 147/b, immobile del quale il convenuto godeva in via esclusiva, opponendosi ad un pari uso da parte degli altri comunisti.

Si costituiva il convenuto il quale non si opponeva alla divisione, assumendo tuttavia di avere sostenuto nell’interesse di tutti i comproprietari delle ingenti spese per la conservazione del bene, di cui chiedeva il rimborso pro quota a titolo riconvenzionale.

All’esito dell’istruttoria, il Tribunale con la sentenza del 22 febbraio 2007, ravvisata la non comoda divisibilità dell’immobile, attesa la necessità, al fine di ricavare tre autonome unità abitative, di dover sostenere degli ingenti costi anche al fine di realizzare degli autonomi impianti idrici e fognari, assegnava l’immobile congiuntamente agli attori, che ne avevano fatto richiesta, ponendo a loro carico l’obbligo di versare il conguaglio in favore del convenuto.

Accolse altresì la domanda di rimborso spese, condannando ognuno degli attori al pagamento a tale titolo in favore del convenuto della somma di Euro 14.273,31 oltre interessi dal 26/5/2003, ma limitatamente alle sole spese relative alla conservazione del bene, con esclusione di quelle concernenti il godimento, posto che l’immobile era stato nella disponibilità esclusiva del convenuto.

All’esito dell’appello proposto dal convenuto, la Corte di Appello di Cagliari, con la sentenza n. 125 del 13 marzo 2012, rigettava il gravame, condannando l’appellante altresì al rimborso delle spese di lite.

Quanto alla valutazione di non comoda divisibilità censurata con il primo motivo di appello, la Corte distrettuale rilevava nella fattispecie, che le modifiche richieste per assicurare ad ogni condividente una quota in natura suscettibile di autonoma fruizione, oltre a non trovare conforto giuridico nelle norme urbanistiche vigenti, apparivano particolarmente laboriose ed onerose, con la necessità di dover affrontare dei costi che avrebbero inciso notevolmente sul valore del bene, senza trovare un corrispondente incremento di valore.

Pertanto, poichè il bene andava considerato non comodamente divisibile, appariva altresì corretta la decisione del Tribunale di assegnare l’intera proprietà congiuntamente agli attori che ne avevano fatto richiesta, essendo l’assegnazione sicuramente preferibile alla soluzione del tutto residuale della vendita.

In merito al secondo motivo di appello, concernente la valutazione del bene, rilevava la sentenza impugnata che dalle varie consulenze espletate in corso di causa emergeva lo scadente stato di manutenzione e conservazione, l’impossibilità di un incremento delle sue dimensioni, in ragione della disciplina urbanistica (trattasi di immobile sito in prossimità della fascia costiera), la scarsa appetibilità da parte della gran massa dei potenziali acquirenti, in ragione delle caratteristiche costruttive e volumetriche, ed infine la lontananza dal centro abitato, elementi che nel loro complesso confermavano la correttezza della stima compiuta dal Tribunale.

Quanto infine al rigetto della richiesta di rimborso di alcune delle spese di conservazione che l’appellante assumeva avere sostenuto nel corso degli anni, si evidenziava che ai sensi dell’art. 1110 c.c., il rimborso è condizionato dal previo interpello da parte di colui che le abbia sostenute nei confronti degli altri comunisti, interpello di cui non vi era prova, occorrendo altresì reputare corretta la data di decorrenza degli interessi, individuata nel giorno dell’udienza in cui il convenuto aveva precisato l’esatto importo delle somme di cui pretendeva il rimborso. Infine rigettava anche il motivo di appello concernente la disposta compensazione delle spese del giudizio di primo grado, osservando che in realtà l’appellante aveva di fatto ritardato la decisione della domanda di divisione, producendo sempre nuova documentazione concernente le spese sostenute, la cui richiesta di rimborso era stata accolta solo in minima parte.

Per la cassazione di tale pronunzia M.G. ha proposto ricorso affidato a sei motivi.

Ma.An. e I.C. e J.A., quali eredi di M.M.L. hanno resistito con controricorso.

Entrambe le parti hanno depositato memorie ex art. 378 c.p.c..

Diritto

MOTIVI DELLA DECISIONE

1. Con il primo motivo di ricorso viene censurata la sentenza impugnata per l’erronea valutazione di fatti decisivi per il giudizio ex art. 360 c.p.c., n. 5, nella parte in cui la medesima è pervenuta alla conclusione circa la non comoda divisibilità del bene comune, valorizzando le altrettanto erronee conclusioni del CTU. In particolare, a fronte di una prima consulenza tecnica d’ufficio, che aveva riconosciuto la possibilità di addivenire ad una divisione in natura dell’immobile oggetto di causa, il Tribunale, ancorchè avesse disposto una nuova consulenza tecnica al solo fine di quantificare le spese di manutenzione sostenute dal convenuto, aveva valorizzato le conclusioni del nuovo perito, che al di fuori di uno specifico mandato, aveva invece opinato per l’indivisibilità del bene. In realtà la prima consulenza aveva argomentatamente individuato le ragioni che avrebbero consentito la formazione di tre autonome unità abitative, anche in ragione della destinazione ad uso casa di vacanza del cespite. Viceversa non apparivano condivisibili le osservazioni del nuovo consulente, specie per quanto atteneva alla individuazione delle opere necessarie per il frazionamento dell’immobile, che apparivano in ogni caso eccessive, nonchè prive di quantificazione.

Mancava qualsiasi risposta in ordine alle contestazioni mosse dal ricorrente alla CTU, avendo la sentenza gravata prestato immotivata adesione alla seconda consulenza espletata in primo grado.

Il motivo deve essere respinto.

Ed, infatti, non può innanzi tutto che rilevarsi la parziale genericità dello stesso, nella parte in cui si lamenta l’omessa risposta da parte del giudice di appello a non meglio individuate contestazioni mosse alla validità della consulenza di primo grado, laddove al fine di soddisfare il requisito di specificità ed autosufficienza imposto per la formulazione del ricorso, il ricorrente avrebbe dovuto puntualmente indicare quali fossero le contestazioni sollevate ed in che occasioni fossero state sottoposte all’attenzione del giudice, anche al fine di vagliarne l’eventuale tempestività, ove consistenti, in ipotesi, in eccezioni di nullità delle operazioni peritali.

In tal senso si è affermato che la parte che deduca un vizio di motivazione od un’erronea valutazione dei dati ha l’onere di indicare in modo specifico le deduzioni formulate nel giudizio di merito, delle quali il giudice non si sia dato carico, non essendo in proposito sufficiente il mero e generico rinvio agli atti del pregresso giudizio (cfr. Cass. n. 5229/2011; conf. Cass. 19475/2005).

Il ricorso appare poi carente del requisito dell’autosufficienza, laddove a sostegno dell’assunto della divisibilità in natura del bene, richiama solo parzialmente il contenuto della prima CTU P., senza permettere di apprezzarne appieno le valutazioni, aggiungendo, sempre a sostegno delle proprie tesi, che la praticabilità della divisione in natura emergerebbe da una planimetria allegata alla seconda CTU del geom. Po., che del pari omette di riportare in ricorso.

Comunque le deduzioni del ricorrente mirano sul punto essenzialmente a sollecitare una diversa valutazione dei fatti di causa da parte di questa Corte, attività che è preclusa proprio in ragione della peculiare natura del giudizio in cassazione.

Ed, infatti, secondo il consolidato orientamento della giurisprudenza, i vizi di motivazione denunciabili in cassazione non possono consistere nella difformità dell’apprezzamento dei fatti e delle prove dato dal giudice del merito rispetto a quello preteso dalla parte, spettando solo a detto giudice individuare le fonti del proprio convincimento, valutare le prove, controllarne l’attendibilità e la concludenza, scegliere tra le risultanze istruttorie quelle ritenute idonee a dimostrare i fatti in discussione, dare prevalenza all’uno o all’altro mezzo di prova (cfr. ex multis Cass. 28-7-2008 n. 20518; Cass. 11-11-2005 n. 22901; Cass. 128-2004 n. 15693; Cass. 7-8-2003 n. 11936, e con specifico riferimento alle valutazioni del c.t.u., Cass. n. 13845/07 n. 7392/94, n. 16368/14, n. 19475/05. Inoltre, laddove giudice di merito riconosca convincenti le conclusioni del consulente tecnico d’ufficio, non è tenuto ad esporre in modo specifico le ragioni del suo convincimento, poichè l’obbligo della motivazione è assolto già con l’indicazione delle fonti dell’apprezzamento espresso, dalle quali possa desumersi che le contrarie deduzioni delle parti siano state implicitamente rigettate, sicchè, per infirmare, sotto il profilo dell’insufficienza argomentativa, la motivazione che abbia fatto proprie le conclusioni della CTU è necessario che la parte alleghi le critiche mosse alla consulenza tecnica d’ufficio già dinanzi al giudice a quo, la loro rilevanza ai fini della decisione e l’omesso esame in sede di decisione; al contrario, una mera disamina, corredata da notazioni critiche, dei vari passaggi dell’elaborato peritale richiamato in sentenza, si risolve nella mera prospettazione di un sindacato di merito, inammissibile in sede di legittimità (Sez. 1, Sentenza n. 10222 del 04/05/2009).

Nel caso in esame, va poi evidenziato che, anche a voler riconoscere l’esistenza di un contrasto tra le conclusioni dei due consulenti nominati in primo grado, il motivo di ricorso omette di evidenziare che il giudice di appello ha reputato necessario disporre una nuova consulenza tecnica d’ufficio, chiamata a valutare proprio la ricorrenza delle condizioni per affermare o meno la divisibilità del bene, ancorchè l’indagine fosse mirata anche ai profili concernenti l’incidenza sulla problematica della vigente disciplina urbanistica, pervenendo quindi a confermare la valutazione già compiuta dal Tribunale alla luce di un ulteriore contributo di natura tecnica.

Va infine rimarcato come la valutazione effettuata sul punto dalla sentenza gravata sia connotata da un’ampia ed adeguata motivazione, munita dei caratteri della logicità e della coerenza, nella quale, dopo avere richiamato i criteri funzionale, economico e materiale che devono presiedere alla valutazione di cui all’art. 720 c.c., si è altresì evidenziato, alla luce della caratteristiche del bene, puntualmente descritte in sentenza, come l’obiettivo di assicurare la piena autonomia ed equivalenza di tre unità immobiliari, imponeva la creazione di impianti autonomi, con la necessità di sostenere costi sicuramente non contenuti, laddove la tesi del ricorrente insiste su un dato di oggettiva opinabilità, e come tale rimesso alla discrezionale valutazione del giudice del merito, secondo cui tale equipollenza potrebbe sostenersi anche laddove non tutte le unità risultino all’esito della divisione munite di un bagno e di una cucina autonomi.

Nè infine può sostenersi l’illegittimità dell’operato del CTU sul presupposto di un’esorbitanza delle indagini svolte dal secondo consulente rispetto al mandato, atteso che, nel motivo, oltre a non riportarsi il quesito stesso ed a non essere stato evidenziato che l’eccezione di nullità della CTU per tale ragione fosse stata tempestivamente sollevata nel corso del processo di primo grado, si trascura la natura officiosa della consulenza tecnica d’ufficio nonchè la circostanza che la valutazione di indivisibilità è stata confermata anche dal giudice di appello, all’esito di un’ulteriore consulenza tecnica d’ufficio, le cui indagini erano proprio mirate alla verifica de qua.

2. Con il secondo motivo di ricorso, si denunzia l’omessa motivazione circa un fatto decisivo per il giudizio ex art. 360 c.p.c., n. 5, nonchè l’erronea applicazione ed interpretazione delle norme tecniche di attuazione del Piano Paesaggistico Regionale della Sardegna e della L.R. n. 4 del 2009.

Si sostiene, infatti, che erroneamente la Corte di merito avrebbe affermato una rinuncia del convenuto a far valere la questione concernente la divisibilità dell’immobile in base alla legislazione urbanistica. Inoltre si afferma che la sentenza avrebbe confermato la validità della CTU espletata in grado di appello, nonostante i puntuali rilievi svolti dal proprio perito di parte, senza tenere conto altresì dell’erronea interpretazione offerta dal perito d’ufficio del parere rilasciato dal tecnico comunale, parere che aveva evidentemente carattere interlocutorio, essendo fondato sulla disciplina all’epoca vigente, avente carattere provvisorio.

Pertanto, poichè gli interventi necessari per assicurare il frazionamento del bene non avrebbero comportato alcun incremento volumetrico, proprio alla luce della disciplina urbanistica, non potrebbe negarsi la praticabilità della soluzione auspicata dal ricorrente.

Inoltre, non si era tenuto conto del fatto che nelle more, la disciplina degli immobili siti nella fascia costiera, come appunto quello oggetto di causa, era stata innovata per effetto della L.R. n. 4 del 2009, che consente interventi anche in tale zona, purchè non vi sia un aumento di volume.

Anche tale motivo deve esser disatteso.

Ed, invero lo stesso presenta analogamente al primo evidenti violazioni del principio di autosufficienza, posto che, pur richiamando una relazione del proprio consulente di parte, arch. M., omette di trascriverne il contenuto onde consentire alla Corte, sulla base della lettura del ricorso di poterne apprezzare la decisività in ordine alla sussistenza del vizio motivazionale denunziato.

Inoltre non può che rilevarsi la novità della questione concernente la pretesa erronea interpretazione della L.R. n. 4 del 2009, atteso che in nessuna parte della sentenza impugnata se ne fa menzione, sicchè, involgendo l’interpretazione di tale legge, peraltro non direttamente applicabile, ma da considerare al fine della valutazione di indivisibilità, anche evidenti apprezzamenti in fatto (verifica della rispondenza degli interventi necessari per il frazionamento alle prescrizioni normative), la deduzione appare inammissibile.

A tali considerazioni va poi aggiunto che, analogamente a quanto già rilevato nella disamina del primo motivo di ricorso, anche con quello in esame, la parte mira surrettiziamente a sollecitare una nuova valutazione di fatto ad opera di questa Corte.

Peraltro, la lettura della sentenza evidenzia come, nonostante vi sia l’affermazione che vi sarebbe stata una rinuncia dell’appellante ad invocare la disciplina urbanistica come idonea a legittimare la divisione in natura, la Corte cagliaritana ha comunque affrontato nel merito la questione fornendo una risposta logica ed argomentata e richiamando a tal fine quello che è il quadro della normativa vigente alla data della decisione, senza potersi prendere in considerazione, come invece vorrebbe parte ricorrente, le eventuali future modifiche legislative, peraltro valutate nel provvedimento impugnato con motivazione esaustiva, come di pressochè impossibile verificazione.

Ma ancora più risolutiva appare al Collegio la considerazione secondo cui la valutazione di non comoda divisibilità risulta affermata anche in ragione della necessità di dover attuare una serie di interventi, con dei costi particolarmente elevati, configurandosi le valutazioni legate alla disciplina urbanistica come una diversa ed autonoma rado giustificatrice della soluzione accolta.

Posto che il primo motivo, con il quale si intendeva specificamente inficiare la correttezza della prima ratio decidendi, fondata sull’onerosità dei costi da sostenere per il frazionamento, è stato ritenuto privo di fondamento, anche laddove risultassero fondate le censure mosse avverso le valutazioni di carattere urbanistico, non per questo verrebbe inficiata la valutazione espressa dal giudice del merito. Non può infine non evidenziarsi che le censure svolte da parte ricorrente danno per scontata l’assenza, anche a seguito dell’esecuzione dei lavori necessari per assicurare la creazione di tre autonome unità abitative, di modifiche alla condizione esteriore dell’immobile, laddove la sentenza gravata, a pag. 8, sottolinea come a tal fine sia necessario aprire due finestre e realizzare una scala esterna di accesso, senza che tali affermazioni siano in alcun modo contrastate dalle deduzioni del ricorrente.

3. Con il terzo motivo di ricorso si lamenta la violazione e falsa applicazione del concetto giuridico di comoda divisibilità, nonchè l’errata valutazione circa un fatto determinante per il giudizio. Si assume che, nonostante per quasi venti anni di giudizio le parti avessero dato per scontata la possibilità di addivenire ad una divisione in natura, alla fine si era data preferenza alla perizia del geom. Po., fondata su valutazioni personali del perito, affermando quindi la non comoda divisibilità del bene.

Anche tale motivo presenta evidenti violazioni del principio di autosufficienza, nella parte in cui a pag. 14 richiama le conclusioni di un consulente di parte ricorrente, ing. G., senza riportarne in ricorso il contenuto.

In ogni caso anche tale motivo si espone alle medesime considerazioni svolte per i primi due.

Anche a voler superare il rilievo preliminare di incompletezza rappresentato dall’omessa individuazione della norma di diritto violata dai giudici di appello, avendo parte ricorrente fatto riferimento ad un non meglio precisato concetto di diritto di “comoda divisibilità”, ed a voler reputare che in realtà la norma di cui si lamenta la violazione sia quella di cui all’art. 720 c.c., vale richiamare il pacifico orientamento di questa Corte per il quale il vizio di violazione o falsa applicazione di norma di legge ex art. 360 c.p.c., n. 3, consiste nella deduzione di un’erronea ricognizione della fattispecie astratta di una norma di legge e, perciò, implica necessariamente un problema interpretativo della stessa, con la conseguenza che il ricorrente che presenti la doglianza è tenuto a prospettare quale sia stata l’erronea interpretazione della norma in questione da parte del giudice che ha emesso la sentenza impugnata, a prescindere dalla motivazione posta a fondamento di questa (Cass., Sez. L., sentenza n. 26307 del 15 dicembre 2014, Rv. 633859). Al contrario, se l’erronea ricognizione riguarda la fattispecie concreta, il gravame inerisce alla tipica valutazione del giudice di merito, la cui censura è possibile, in sede di legittimità, solo ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 5 (Cass., Sez. 5, sentenza n. 8315 del 4 aprile 2013, Rv. 626129).

Nella vicenda in esame, la doglianza ancorchè veicolata con il richiamo alla violazione di legge, mira piuttosto ad invocare una diversa valutazione in fatto dei presupposti che hanno indotto la Corte cagliaritana a ravvisare l’indivisibilità del bene (come peraltro reso evidente dal reiterato richiamo a carenze motivazionali alla pag. 14 del ricorso, negli ultimi tre periodi del motivo), non potendo quindi trovare accoglimento.

4. Con il quarto motivo di ricorso si lamenta la violazione e falsa applicazione del principio del favor divisionis di cui agli artt. 718 e 720 c.c., nonchè l’errata valutazione circa un fatto determinante per il giudizio.

Deduce il ricorrente che erroneamente l’intera proprietà dell’immobile sarebbe stata assegnata agli attori, e ciò oltre che in ragione di un’errata valutazione della nozione di non comoda divisibilità, anche per effetto di una non corretta interpretazione della disposizione di cui all’art. 720 c.c., che consente preferibilmente l’assegnazione del bene al maggiore quotista ovvero a coloro che avanzino richiesta di attribuzione congiunta.

Infatti, l’assegnazione del bene alle controparti avrebbe frustrato proprio le attese del soggetto che da sempre ne aveva chiesto l’assegnazione.

Anche tale motivo appare del tutto destituito di fondamento.

Ed, infatti, il ragionamento della parte non tiene conto del fatto che, dagli atti di causa (cfr. in particolare le conclusioni dell’appellante, così come riportate nella sentenza impugnata) non emerge che il ricorrente abbia avanzato a sua volta richiesta di attribuzione nei precedenti gradi di giudizio, sicchè attesa la corretta applicazione da parte della sentenza impugnata della previsione di cui all’art. 720 c.c., secondo cui la vendita a terzi deve costituire l’extrema ratio, alla quale è dato ricorrere solo in assenza di richieste di attribuzione da parte dei condividenti, non si evidenzia alcuna violazione di legge nella soluzione adottata dalla Corte di merito nell’attribuire congiuntamente la proprietà del cespite agli unici due condividenti, che congiuntamente ne avevano fatto richiesta. Nè può confondersi con una richiesta di attribuzione del bene non comodamente divisibile la diversa istanza, questa sì effettivamente reiterata in tutto il giudizio, di M.G., di vedersi assegnata una quota in natura del bene, richiesta che però non ha potuto essere accolta in considerazione della ravvisata indivisibilità del bene.

Emerge di conseguenza anche l’inconferenza rispetto alla fattispecie in esame dei precedenti giurisprudenziali richiamati in motivo (tra gli altri Cass. n. 1566/99; Cass. n. 8827/2008) in quanto relativi ad ipotesi in cui il giudice era chiamato a risolvere il conflitto tra concorrenti richieste di attribuzione (situazione che come detto non ricorre nel presente procedimento) e nelle quali il contrasto sussisteva tra la richiesta proveniente dal maggiore quotista e quella dei titolari di quote di minore entità, che, solo per effetto della richiesta congiunta veniva a sopravanzare la quota dell’altro richiedente (laddove invece nel caso in esame i tre germani M. sono titolari di quote di eguale entità).

5. Con il quinto motivo di ricorso, nella prima parte, si lamenta l’errata valutazione di un fatto rilevante per il giudizio e l’omessa motivazione in ordine alle spese sostenute dal ricorrente per la manutenzione e la conservazione dell’immobile con la conseguente violazione dell’art. 1110 c.c..

Assume il ricorrente che a fronte della noncuranza e del disinteresse degli altri condividenti, ai quali era stata sempre offerta la possibilità di fruire del bene, egli aveva provveduto a sostenere le continue ed onerose spese di conservazione e manutenzione dell’immobile, posto a picco sul mare ed esposto alle intemperie.

Era evidente pertanto che gli altri comproprietari fossero perfettamente consapevoli della necessità di dover far fronte a tali spese, di guisa che appare del tutto errata la conclusione ala quale è pervenuta la Corte distrettuale nel negare il diritto al rimborso di tali spese, assumendo che ai sensi dell’art. 1110 c.c., il diritto de quo presuppone il previo interpello o avviso degli altri comproprietari.

Il motivo è del tutto destituito di fondamento atteso che la sentenza impugnata ha fatto corretta applicazione di un principio di diritto costantemente ribadito da questa Corte, come avvenuto anche con la recente pronuncia n. 20652/2013.

Per l’effetto, una volta escluso che la decisione gravata abbia erroneamente ricondotto le spese delle quali il ricorrente chiede il rimborso pro quota (guardiania ed assicurazione dell’immobile, manutenzione delle cancellate in ferro, manutenzione e sostituzione infissi e tinteggiatura dei muri) tra le spese di godimento, per le quali è escluso il rimborso (per tale distinzione si veda ex multis Cass. n. 11747/2003, secondo cui in tema di spese relative alle parti comuni di un bene, vanno tenute distinte quelle per la conservazione, che sono quelle necessarie per custodire, mantenere la cosa comune in modo che duri a lungo senza deteriorarsi – quali le spese per l’acqua occorrente per la irrigazione del giardino – dalle spese per il godimento, che riguardano le utilità che la cosa comune può offrire quali le spese per il combustibile e per l’energia elettrica necessari per il funzionamento dell’impianto di riscaldamento e per l’acqua potabile posto che soltanto le spese per la conservazione, nel caso di inattività degli altri comproprietari, da accertare in fatto, possono essere anticipate da un partecipante al fine di evitare il deterioramento della cosa, cui egli stesso e tutti gli altri hanno un oggettivo interesse, e solo di esse può essere chiesto il rimborso), correttamente ne è stata esclusa la rimborsabilità in assenza della prova di una preventiva richiesta o comunque di un avviso agli altri comunisti.

Nella seconda parte del motivo si deduce altresì l’erroneità della stima del valore del bene, così come compiuta dai giudici di merito, i quali avevano posto a fondamento della loro decisione le altrettanto erronee conclusioni del CTU, geom. Po..

La deduzione è evidentemente inammissibile, atteso che con la stessa si mira anche in tal caso a sollecitare un diverso apprezzamento dei fatti di causa, rientrante invero nella insindacabile valutazione del giudice di merito, il quale ha adeguatamente supportato il proprio convincimento con il richiamo, in motivazione, ad una serie di circostanze (condizioni di manutenzione, epoca di realizzazione del bene, potenzialità edificatorie, appetibilità commerciale, vicinanza al centro abitato) oggetto di apprezzamenti che non possono essere tacciati di incoerenza o di illogicità, e come tali insuscettibili di poter essere posti in discussione in questa sede.

6. Infine, con il sesto motivo di ricorso si denunzia la violazione e falsa applicazione degli artt. 91 e 92 c.p.c., nonchè l’omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione in ordine alla decisione del giudice di appello di condannare l’odierno ricorrente al rimborso delle spese del giudizio di appello in favore delle controparti.

Si assume l’erroneità di tale decisione, sia in ragione della pretesa fondatezza dei precedenti motivi di ricorso (fondatezza che è invece da escludersi ala luce delle considerazioni che precedono) sia perchè non si sarebbe valutata la correttezza dell’operato della parte, che avrebbe dovuto perlomeno indurre a compensare le spese.

Il motivo è infondato.

Ed, infatti, all’esito del giudizio di appello, essendo stati disattesi tutti i motivi di appello proposti, era palese la soccombenza del M.G., così che la condanna alle spese pronunziata dal giudice di appello non costituisce che la piana applicazione della regola di diritto di cui all’art. 91 c.p.c., occorrendo altresì ricordare che secondo la costante giurisprudenza di legittimità (cfr. Cass. 23 febbraio 2012 n. 2730) in tema di spese processuali, solo la compensazione dev’essere sorretta da motivazione, e non già l’applicazione della regola della soccombenza cui il giudice si sia uniformato, atteso che il vizio motivazionale ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, ove ipotizzato, sarebbe relativo a circostanze discrezionalmente valutabili e, perciò, non costituenti punti decisivi idonei a detenninare una decisione diversa da quella assunta (conf. Cassazione civile sez. 6^ 28 aprile 2014 n. 9368).

7. All’integrale rigetto del ricorso segue la condanna del ricorrente anche al rimborso delle spese del presente grado ex art. 91 c.p.c., ed a tanto si provvede come da dispositivo che segue.

PQM

La Corte rigetta il ricorso, e condanna il ricorrente al rimborso delle spese del giudizio in favore dei controricorrenti, che liquida in Euro 4.700,00, di cui Euro 200,00 per esborsi, oltre spese generali pari al 15% sui compensi, ed accessori come per legge.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezione Seconda Civile, il 7 giugno 2016.

Depositato in Cancelleria il 19 luglio 2016

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