Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 14756 del 30/06/2014


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Civile Sent. Sez. L Num. 14756 Anno 2014
Presidente: ROSELLI FEDERICO
Relatore: VENUTI PIETRO

SENTENZA

sul ricorso 9401-2008 proposto da:
“NUOVO PIGNONE S.P.A.”,
rappresentante Ero

in persona del legale

tempore, elettivamente domiciliata

in ROMA, PIAZZA G. MAZZINI 27, presso lo studio
dell’avvocato NICOLAIS LUCIO, che la rappresenta e
difende unitamente all’avvocato DEL RE ANDREA, giusta
2014

delega in atti;
– ricorrente –

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contro

BURACCHI ALIDA C.F. BRCLDA54R62D649P, BURELLI EMILIO,
4.

CAPPUCCIO ANDREA, DE TROIA RAFFAELE, FOLENGA PATRIZIO,

Data pubblicazione: 30/06/2014

SCIACCA SILVANA, tutti elettivamente domiciliati in
ROMA, VIA ATTILIO FRIGGERI 106, presso lo studio
dell’avvocato TAMPONI MICHELE, rappresentati e difesi
dall’avvocato CESARONI MASSIMO, giusta delega in atti;
– controricorrenti

di FIRENZE, depositata il 31/03/2007 R.G.N. 620/2005;
udita la relazione della causa svolta nella pubblica
udienza del 15/04/2014 dal Consigliere Dott. PIETRO
VENUTI;
udito l’Avvocato NICOLAIS GIULIA per delega NICOLAIS
LUCIO;
udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore
Generale Dott. GIANFRANCO SERVELLO ) che ha concluso per
il rigetto del ricorso.

avverso la sentenza n. 394/2007 della CORTE D’APPELLO

R.G. n. 9401/08
Ud. 15.4.2014

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
esponeva che numerosi lavoratori avevano presentato in Procura
un esposto con il quale era stati evidenziati fatti penalmente
rilevanti a carico della società e dei suoi amministratori per
fraudolento ottenimento e utilizzazione della CGIS, con ampia
diffusione della notizia presso l’opinione pubblica e con
conseguente discredito e pregiudizio all’immagine e alla
reputazione della società. Aggiungeva che, dopo le indagini
eseguite dal P.M., il procedimento si era concluso con
provvedimento di archiviazione del Giudice per le indagini
preliminari.
Ciò premesso, la società proponeva ricorso al Tribunale di
Firenze per sentir dichiarare che il comportamento tenuto dai
lavoratori, consistito nell’avere presentato detto esposto
infondato, costituiva notevole inadempimento dei doveri di lealtà
e fedeltà verso il datore di lavoro e si configurava quale motivo
soggettivo di licenziamento disciplinare.
Il Tribunale adito respingeva il ricorso per carenza di
interesse ad agire della ricorrente e tale decisione veniva
confermata dalla Corte d’appello di Firenze, con sentenza
depositata il 31 marzo 2007, la quale riteneva che il giudice adito
non poteva valutare, in via preventiva, la condotta dei lavoratori
al fine di giustificare un successivo licenziamento; che l’azione
proposta dalla società finiva per delegare all’autorità giudiziaria
la “scelta” dell’esercizio del potere disciplinare; che la domanda
non era giustificata da una esigenza di certezza giuridica, atteso
che l’esito negativo della stessa lasciava tra le parti del rapporto
le “cose” assolutamente allo stesso punto in cui erano prima

Con ricorso al Tribunale di Firenze la S.p.A. Nuovo Pignone

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dell’adizione del giudice, in ragione del fatto che l’incertezza circa
gli esiti concreti del rapporto veniva sciolta a seguito della
successiva determinazione assolutamente discrezionale del
datore di lavoro; che non era consentito alla parte chiedere
sostanzialmente un “parere giuridico” prima di intraprendere
l’azione giudiziaria.

società sulla base di tre motivi, illustrati da memoria ex art. 378
cod. proc. civ.
Resistono con controricorso i lavoratori indicati in epigrafe.
MOTIVI DELLA DECISIONE
1. Con il primo motivo la società Nuovo Pignone,
denunziando omessa e insufficiente motivazione circa un fatto
controverso e decisivo per il giudizio, deduce che la Corte di
merito non ha interpretato correttamente la domanda. Era
chiaro, infatti, dal contenuto della stessa che la valutazione del
fatto storico (il comportamento tenuto dai dipendenti),
inquadrata nella disciplina giuridica di riferimento, era
pienamente collegata “ad una conseguenza giuridicamente
rilevante: la qualificazione giuridica di tale comportamento,
quale notevole inadempimento dei doveri di lealtà e fedeltà ai
sensi e per gli effetti stabiliti dagli artt. 2016 c.c. e artt. 1 e 3 L.
606/1966, qualificazione giuridica che si definisce, configura,
sempre alla stregua dell’art. 3 L. 604/1966, come “giustificato
motivo (soggettivo, nella tradizione dottrinaria e
giurisprudenziale) di licenziamento”.
La Corte territoriale, aggiunge la ricorrente, ha errato “non
motivando sufficientemente e semmai contraddittoriamente,
circa l’essere il quesito di mera valutazione… .semplice
constatazione di come un fatto storico possa essere inquadrato
nell’universo giuridico di riferimento, < scollegato > ad una
conseguenza giuridica”.
2. Con il secondo motivo, cui fa seguito il relativo quesito di
diritto ex art. 366 bis cod. proc. civ., non più in vigore ma

Per la cassazione di questa sentenza propone ricorso la

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applicabile ratione temporis, è denunziata violazione e falsa
applicazione dell’art. 100 c.p.c., in relazione agli artt. 2106 c.c.,
2106 cod. civ., le 3 L. 604/1966 e 7 L. 300/1970.
Deduce la ricorrente che sia il giudice di primo grado che il
giudice d’appello hanno erroneamente posto in relazione diretta
l’interesse ad agire con il momento, qualitativamente diverso e
datoriale di esercitare concretamente il potere disciplinare.
Aggiunge che la domanda volta ad accertare se il comportamento
tenuto dai dipendenti costituisca notevole inadempimento dei
doveri di lealtà e fedeltà e configuri quindi un giustificato motivo
soggettivo di licenziamento disciplinare, non è preclusa dal
discrezionale esercizio del potere disciplinare e di recesso del
datore di lavoro né vi è incompatibilità con la procedura prevista
per i licenziamenti dall’art. 7 St. lav.
3. Il terzo motivo, cui fa seguito il quesito di diritto,
denunzia le medesime violazioni di legge di cui al precedente
motivo.
Assume la ricorrente che la giurisprudenza non ha avuto
difficoltà ad ammettere azioni di accertamento di situazioni
giuridiche, senza che tale qualificazione abbia immediata e
diretta incidenza modificativa sui rapporti giuridici, costituendo
viceversa presupposto per una successiva, eventuale, ma
legittima modificazione dei rapporti stessi, attuabile vuoi
mediante una successiva domanda giudiziale, vuoi attraverso
l’esercizio di un potere giuridico discrezionale potestativo.
L’utilità dell’accertamento deriva, per il datore di lavoro, dal
vedersi dichiarare dal giudice se tale esercizio potestativo possa
ritenersi legittimo, e ciò al fine di evitare il pregiudizio, sotto il
profilo risarcitorio, conseguente ad una eventuale infondatezza
della domanda. L’interesse ad agire va inteso quale interesse al
processo e va valutato sul piano sostanziale verificando l’utilità
pratica del pronunciamento richiesto, e cioè il risultato utile
giuridicamente apprezzabile, attuale, conseguibile solo attraverso

cronologicamente successivo, di libera e discrezionale scelta

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l’intervento del giudice. L’esercizio del potere disciplinare non
attribuisce alcuna certezza giuridica, né il datore di lavoro può
essere costretto ad esercitarlo “al buio”, esponendosi a
conseguenze onerose. Al giudice non viene chiesto di “scegliere”
in luogo del datore di lavoro né di rendere un parere giuridico,
bensì gli è domandato un accertamento dichiarativo suscettibile
disvalore di determinati fatti storici intercorsi tra le parti di un
contratto e, dunque, di rendere certezza giuridica su taluni
aspetti di un rapporto.
4. Il ricorso, i cui motivi vanno trattati congiuntamente in
ragione della loro connessione, non è fondato.
Deve premettersi che la giurisprudenza di legittimità ritiene
ammissibile l’azione di mero accertamento della legittimità di un
licenziamento, già intimato, proposta dal datore di lavoro, sul
rilievo che l’interesse ad agire sussiste ogni qualvolta ricorra una
pregiudizievole situazione d’incertezza relativa a diritti o rapporti
giuridici, la quale, anche con riguardo ai rapporti di lavoro
subordinato, non sia eliminabile senza l’intervento del giudice.
Nè è configurabile, in questo caso, un abuso dello strumento
processuale da parte del datore di lavoro, in considerazione della
sussistenza di un interesse ad agire degno di tutela (Cass. 9
maggio 2012 n. 7096; Cass. 14 luglio 1998 n. 6891).
Diversa è l’ipotesi, ricorrente nella specie, in cui l’azione di
accertamento viene proposta, in via preventiva, al fine di
verificare se il comportamento tenuto dal lavoratore sia talmente
grave da ledere l’elemento fiduciario che sta alla base del
rapporto di lavoro e, conseguentemente, idonea a giustificare il
licenziamento.
Al riguardo, questa Corte ha più volte affermato che
l’interesse ad agire, previsto quale condizione dell’azione dall’art.
100 cod. proc. civ., con disposizione che consente di distinguere
fra le azioni di mera iattanza e quelle oggettivamente dirette a
conseguire il bene della vita consistente nella rimozione dello

di efficacia di giudicato tra le parti, di qualificazione giuridica di

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stato di giuridica incertezza in ordine alla sussistenza di un
determinato diritto, va identificato in una situazione di carattere
oggettivo derivante da un fatto lesivo, in senso ampio, del diritto
e consistente in ciò che senza il processo e l’esercizio della
giurisdizione l’attore soffrirebbe un danno, sicché esso deve
avere necessariamente carattere attuale, poiché solo in tal caso
assurgendo a giuridica ed oggettiva consistenza, e resta invece
conseguentemente escluso quando il giudizio sia strumentale
alla soluzione soltanto in via di massima o accademica di una
questione di diritto in vista di situazioni future o meramente
ipotetiche (Cass. 9 ottobre 1998 n. 10062; Cass. 27 novembre
1999 n. 13293; Cass. 18 aprile 2002 n. 5635; Cass. 23
novembre 2007 n. 24434).
E’ stato altresì precisato in più occasioni che, poiché la
tutela giurisdizionale è tutela di diritti, il processo, salvo casi
eccezionali predeterminati per legge, può essere utilizzato solo
come fondamento del diritto fatto valere in giudizio e non di per
sé, per gli effetti possibili e futuri. Pertanto non sono proponibili
azioni autonome di mero accertamento di fatti giuridicamente
rilevanti ma che costituiscano elementi frazionistici della
fattispecie costitutiva di un diritto, la quale può costituire
oggetto di accertamento giudiziario solo nella funzione genetica
del diritto azionato e quindi nella sua interezza. Parimenti non
sono ammissibili questioni di interpretazioni di norme o di atti
contrattuali se non in via incidentale e strumentale alla
pronuncia sulla domanda principale di tutela del diritto (Cass.
20 dicembre 2006 n. 27187; Cass. 28 novembre 2008 n. 28405;
Cass. 23 dicembre 2009 n. 27151; Cass. 28 giugno 2010 n.
15355; Cass. 27 gennaio 2011 n. 2051; Cass. 4 maggio 2012 n.
6749).
Alla stregua di tali principi, correttamente la Corte di
merito ha ritenuto che la domanda proposta dalla società non
era giustificata da una esigenza di certezza giuridica, atteso che

trascende il piano di una mera prospettazione soggettiva

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l’esito del giudizio non risolveva la questione controversa,
essendo rimessa alla successiva determinazione assolutamente
discrezionale del datore di lavoro l’eventualità di promuovere un
successivo giudizio. Ed inoltre non era possibile valutare, in via
preventiva, la condotta dei lavoratori al fine di giustificare un
successivo licenziamento né era consentito alla parte chiedere

l’azione giudiziaria.
5. Deve aggiungersi, sotto altro profilo, che nella fattispecie
in esame il chiesto intervento preventivo del giudice circa la
legittimità di un eventuale futuro licenziamento sovverte le regole
procedimentali di cui all’art. 7 St. lav. Ai lavoratori non viene,
infatti, contestato alcun addebito disciplinare dal quale devono
difendersi né viene loro data la possibilità di essere sentiti a
discolpa. Inoltre, una successiva eventuale contestazione degli
addebiti viene rinviata all’esito del giudizio di accertamento, con
palese violazione del principio di immediatezza della
contestazione e di quello della tempestività del recesso datoriale,
la cui ratio riflette l’esigenza di osservare le regole di buona fede
e correttezza nell’attuazione del rapporto di lavoro, non essendo
consentito al datore di lavoro di procrastinare
ingiustificatamente la contestazione, in modo da rendere
impossibile o eccessivamente difficile la difesa da parte del
lavoratore.
Ancora, ove fosse ammissibile la domanda come sopra
proposta, si porrebbero problemi di giudicato, dovendosi stabilire
quali effetti può spiegare una sentenza che ha accertato la
legittimità di una causa in astratto idonea a giustificare il
licenziamento nel successivo giudizio, vertente tra le stesse parti,
avente ad oggetto l’impugnazione del licenziamento, in cui si fa
valere la cosa giudicata per fatti non previamente contestati al
lavoratore ai sensi dell’art. 7 St. lav.
Appare evidente come, alla stregua delle esposte
considerazioni, non possa darsi ingresso all’azione di

sostanzialmente un “parere giuridico” prima di intraprendere

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accertamento proposta dalla società, la quale, anziché esercitare
senz’altro i poteri attribuitigli dall’ordinamento in tema di
condotte disciplinarmente rilevanti dei lavoratori, ha ritenuto di
percorrere altra via, chiedendo al giudice sostanzialmente una
sorta di “autorizzazione” al licenziamento.
Così facendo, la società ricorrente, anche in violazione del
autonoma di mero accertamento di fatti giuridicamente rilevanti
costituenti solo elementi frazionati della fattispecie costitutiva di
un diritto, che poteva costituire oggetto di accertamento
giudiziario solo nella sua interezza (in questi termini, Cass.
2051/11 e Cass. 6749/12 cit.).
Il ricorso deve pertanto essere rigettato, con la conseguente
condanna della ricorrente al pagamento delle spese del presente
giudizio, liquidate come in dispositivo.
P. Q . M .
La Corte rigetta il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento
delle spese del presente giudizio, che liquida, a favore dei
resistenti, in € 100,00 per esborsi ed C 3.000,00 per compensi
professionali, oltre accessori di legge.
Così deciso in Roma in data 15 aprile 2014.

principio di economia dei giudizi, ha proposto un’azione

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