Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 14751 del 14/07/2015


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Civile Sent. Sez. 6 Num. 14751 Anno 2015
Presidente: PETITTI STEFANO
Relatore: PETITTI STEFANO

sentenza con motivazione
semplificata

SENTENZA
sul ricorso proposto da:

LOMBARDO Antonio, rappresentato e difeso, per procura
speciale a margine del ricorso, dall’Avvocato Maria L.
Passanante, elettivamente domiciliata in Roma, via
Mirandola n. 20, presso lo studio dell’Avvocato Mario
ranucci;

– ricorrente contro
MINISTERO DELLA GIUSTIZIA; in persona del Ministro

tempore,

pro

rappresentato e difeso dall’Avvocatura Generale

dello Stato, presso i cui uffici in Roma, via dei
Portoghesi n. 12, è domiciliato per legge;

– con troricorrente –

3G (13
A S.

Data pubblicazione: 14/07/2015

avverso il decreto della Corte d’Appello di Caltanissetta
n. 2411 del 2013, depositato il 21 ottobre 2013.
Udita la relazione della causa svolta nella pubblica
udienza del 7 maggio 2015 dal Presidente relatore Dott.

Ritenuto che, con ricorso depositato presso la Corte
d’appello di Caltanissetta il 1 ° dicembre 2011, Lombardo
Antonio chiedeva la condanna del Ministero della giustizia
al pagamento del danno non patrimoniale derivato dalla
irragionevole durata di una procedura fallimentare
iniziata con dichiarazione di fallimento del 20 marzo
1991, ancora non conclusa alla data della domanda;
che l’adita Corte d’appello dichiarava inammissibile
la domanda rilevando che, mentre la procedura fallimentare
riguardava la )PA soc. coop. a r.1., il ricorrente aveva
agito in proprio indicando solo nel corpo del ricorso, ma
non nella intestazione e nella procura a margine, la
propria qualità di legale rappresentante e amministratore
della predetta società;
che per la cassazione di questo decreto Lombardo
Antonio ha proposto ricorso, affidato a due motivi;
che

l’intimato

controricorso.

Ministero

ha

resistito

con

Stefano Petitti.

Considerato che il Collegio ha deliberato l’adozione
della motivazione semplificata nella redazione della
sentenza;
che con il primo motivo il ricorrente deduce

quarto e quinto, e 112 cod. proc. civ., nonché erronea
qualificazione della domanda in relazione all’art. 360, n.
3, cod. proc. civ., sostenendo che la Corte d’appello
avrebbe errato nel non rilevare che egli si era
qualificato come amministratore e legale rappresentante
della società )PA e rilevando che, in tale qualità,

egli

aveva subito il pregiudizio derivante dalla irragionevole
durata della procedura fallimentare;
che con il secondo motivo il ricorrente deduce
violazione e mancata applicazione degli artt. 2, commi l e
3, della legge n. 89 del 2001, 6, 8 e 13 della CEDU, 2056
e 1226 cod. civ., 49 e 146 della legge fallimentare,
nonché motivazione mancante, insufficiente, incongrua,
illogica e contorta, dolendosi che, nella sostanza, la
Corte d’appello abbia escluso il diritto delle persone
giuridiche alla equa riparazione;
che il primo motivo di ricorso è infondato;
che la Corte d’appello si è limitata a rilevare che la
procedura fallimentare era stata iniziata nei confronti
della MEPA soc. coop. a r.l. e che invece la domanda era

-3-

violazione e mancata applicazione degli artt. 164, commi

stata proposta dall’odierno ricorrente senza alcuna
specificazione, né nella procura, né nella intestazione
del ricorso e neanche nel corpo del ricorso, che egli
aveva inteso agire non quale persona fisica, ma come

fallimento;
che dalla lettura dell’atto introduttivo, resa
necessaria dalla natura del vizio denunciato, emerge
altresì che il ricorrente nel corpo del ricorso ha
affermato che era il legale rappresentante e
l’amministratore della società sottoposta a procedura
concorsuale, ma non ha riferito tale qualità al momento
della proposizione della domanda;
che questa Corte, come ricordato nel provvedimento
impugnato, ha avuto modo di affermare che «il diritto alla
trattazione delle cause entro un termine ragionevole è
riconosciuto dall’art. 6, paragrafo l, della Convenzione
europea dei diritti dell’uomo, specificamente richiamato
dall’art. 2 della legge 24 marzo 2001, n. 89, solo con
riferimento alle cause “proprie” e, quindi, esclusivamente
in favore delle “parti” della causa, nel cui ambito si
assume avvenuta la violazione, e non anche di soggetti che
siano ad essa rimasti estranei, essendo irrilevante, ai
fini della legittimazione, che questi ultimi possano aver
patito indirettamente dei danni dal protrarsi del

-4-

legale rappresentante della società sottoposta a

processo. Pertanto, difetta di legittimazione attiva
l’amministratore di una società di capitali, in relazione
alla dedotta irragionevole durata del procedimento
fallimentare aperto nei confronti della società medesima,

cancellata dal registro delle imprese)» (Cass. n. 15250
del 2011);
che, nella specie, il ricorrente neanche contrasta in
modo puntuale i rilievi del decreto impugnato in ordine
alla riferibilità della domanda a sé quale persona fisica
e non già quale legale rappresentante della società
fallita;
che il secondo motivo è inammissibile,

in quanto

postula che la Corte d’appello abbia ritenuto
inammissibile una domanda di equa riparazione proposta da
una società di capitali, mentre la ratio decidendi,

come

evidenziato in precedenza, risiede nel difetto di
legittimazione attiva del ricorrente, in quanto non era
stato parte della procedura fallimentare presupposta,
svoltasi nei confronti della }PA soc. coop. a r.1.;
che il ricorso va quindi rigettato, con conseguente
condanna del ricorrente al pagamento delle spese del
giudizio di cassazione, come liquidate in dispositivo;
che, risultando dagli atti del giudizio che il
procedimento in esame è considerato esente dal pagamento

-5-

già da lui amministrata (pur se, come nella specie,

del contributo unificato, non si deve far luogo alla
dichiarazione di cui al comma 1-quater dell’art. 13 del
testo unico approvato con il d.P.R. 30 maggio 2002, n.
115, introdotto dall’art. l, comma 17, della legge 24

PER QUESTI MOTIVI
La Corte rigetta il ricorso; condanna il ricorrente al
pagamento delle spese del giudizio di cassazione, che
liquida in euro 500,00 per compensi, oltre alle spese
prenotate a debito.
Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della
VI – 2 Sezione civile della Corte suprema di cassazione,

dicembre 2012, n. 228.

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