Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 14733 del 27/05/2021

Cassazione civile sez. trib., 27/05/2021, (ud. 09/02/2021, dep. 27/05/2021), n.14733

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. CRUCITTI Roberta – Presidente –

Dott. D’ORAZIO Luigi – rel. Consigliere –

Dott. FRACANZANI Marcello Maria – Consigliere –

Dott. VENEGONI Andrea – Consigliere –

Dott. PANDOLFI Catello – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso iscritto al n. 29269/2015 R.G. proposto da:

Società F.lli V. s.r.l., in persona del legale

rappresentante pro tempore, rappresentata e difesa, giusta mandato

in calce al ricorso, dall’Avv. Ivan Canelli, elettivamente

domiciliata presso il suo studio, via Carlo Conti Rossini n. 13;

– ricorrente –

contro

Agenzia delle Entrate, in persona del legale rappresentante pro

tempore, rappresentata e difesa dall’Avvocatura Generale dello

Stato, domiciliata in Roma, Via dei Portoghesi n. 12;

– intimata –

avverso la sentenza della Commissione tributaria regionale della

Campania, n. 3989/7/2015, depositata il 4 maggio 2015.

Udita la relazione svolta nella camera di consiglio del 9 febbraio

2021 dal Consigliere Luigi D’Orazio.

 

Fatto

RILEVATO

CHE:

1.La Commissione tributaria regionale della Campania rigettava l’appello proposto dalla società F.lli V. s.p.r. avverso la sentenza della Commissione tributaria provinciale di Benevento (n. 594/2/2014), che aveva respinto il ricorso della contribuente contro l’avviso di accertamento emesso dall’Agenzia delle entrate nei suoi confronti, per l’anno 2008, ai fini Ires, Iva ed Irap. In particolare, il giudice d’appello evidenziava che le eccezioni sollevate dalla società con la memoria depositata oltre il termine di 10 giorni liberi prima della data di discussione del ricorso erano inammissibili perchè nuove e tardive. Aggiungeva, comunque, che la delega della direttrice provinciale dell’Agenzia delle entrate di Benevento era legittima, sia perchè non vi era prova che la stessa non svolgesse funzioni dirigenziali a seguito di concorso, sia perchè lo svolgimento di tali funzioni, anche in regime di reggenza, doveva ritenersi necessario in caso di assenza di dirigenti vincitori di concorso. Non era necessaria l’instaurazione di un contraddittorio preventivo con la contribuente, nè era necessario attendere il termine dilatorio di 60 giorni dalla chiusura delle operazioni di verifica per la notifica dell’avviso di accertamento, ai sensi della L. n. 212 del 2000, art. 12, comma 7. La censura in ordine alla durata del procedimento di accertamento era irrilevante, non prevedendo la legge alcun termine di decadenza, nè alcuna sanzione di nullità al riguardo. Quanto al merito, la Commissione regionale rilevava che non si era in presenza di un accertamento basato sugli studi di settore, benchè la società non fosse risultata congrua, ma di un accertamento analitico-induttivo, eseguito ai sensi del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 39, comma 1, lett. d. In particolare, gli organi accertatori avevano ricostruito i corrispettivi sulla base di presunzioni connotate dalle caratteristiche di gravità, precisione e concordanza, costituite da un comportamento antieconomico della società, emergente da ripetute perdite di esercizio nel triennio considerato, a fronte di ricavi per Euro 1.801.908,00, come pure dal contemporaneo finanziamento da parte dei soci. La contribuente non aveva fornito la prova contraria in ordine alla sussistenza di motivi che giustificassero tale condotta antieconomica. Inoltre, in ragione dell’esiguità dei redditi dichiarati dei soci, privi di altri redditi oltre quelli prodotti dalla partecipazione societaria in esame, si presumeva che tali ipotetici investimenti servissero solo a giustificare la restituzione di somme, occultando, in realtà, utili non dichiarati. Il finanziamento asseritamente concesso ai fratelli V. dal padre, V.E., come la scrittura privata del 17 maggio 2007, con una marca da bollo apposta successivamente, in quanto emessa il 31 maggio 2007, e come da Delib. assembleare 6 maggio 2008, non dimostravano, in assenza di atti registrati, e quindi muniti di data certa, l’effettività di tale finanziamento. Peraltro, nel verbale d’assemblea si faceva riferimento alla necessità di finanziamenti fruttiferi da parte dei soci per il completamento di una nuova struttura commerciale, ma non vi era prova nè della realizzazione di tale struttura, nè dell’emissione di finanziamenti, nè del prestito asseritamente concesso da V.E., non risultando alcuna erogazione effettuata da parte di quest’ultimo. Tra l’altro la realizzazione di una nuova struttura era in contrasto con le perdite dichiarate.

2. Avverso tale sentenza propone ricorso per cassazione la società.

3.L’Agenzia delle entrate si costituisce al solo fine dell’eventuale partecipazione all’udienza di discussione della causa ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1.

Diritto

CONSIDERATO

CHE:

1.Con il primo motivo di impugnazione la società deduce la “violazione e falsa applicazione del D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 57, art. 32, comma 2, per non essere stata rilevata d’ufficio la nullità assoluta e/o inesistenza dell’avviso di accertamento in relazione al disposto di cui al D.P.R. n. 600 del 1973, art. 42, comma 1, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 3, n. 3”, in quanto la società, con memoria depositata all’udienza di pubblica trattazione del 24 aprile 2015, aveva sollevato l’eccezione di nullità assoluta e/o inesistenza dell’avviso di accertamento impugnato per violazione del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 42, comma 1, e della L. n. 212 del 2000, art. 7 in assenza della qualifica dirigenziale in capo al soggetto che aveva sottoscritto l’avviso di accertamento. Infatti, sia il capoufficio controlli, soggetto che ha sottoscritto l’atto, sia il direttore provinciale dell’Agenzia delle entrate, quale soggetto delegante, erano sprovvisti dei poteri di sottoscrizione, in quanto “incaricati di funzioni dirigenziali” e non “dirigenti” a seguito di concorso pubblico. Invero, la Corte costituzionale, con sentenza n. 37 del 17 marzo 2015, aveva dichiarato l’illegittimità della L. n. 44 del 2012, art. 8, comma 4, che aveva consentito di attribuire gli incarichi dirigenziali anche a funzionari della Agenzia delle entrate con la stipula di contratti di lavoro a tempo determinato. Peraltro, l’eccezione concernente la nullità o l’inesistenza dell’atto impugnato per carenza di potere del dirigente delegante non integrava gli estremi di eccezione in senso stretto, non rilevabile d’ufficio, trattandosi, invece, di una eccezione rilevabile in ogni stato e grado del giudizio, anche d’ufficio, con conseguente erronea applicazione, da parte del giudice d’appello, del D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 57 essendo, dunque, il rilevante il richiamo al D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 32, comma 2.

1.1. Il motivo è infondato.

1.2.Va, preliminarmente, affrontata la questione in ordine alla natura della eccezione sollevata per la prima volta dalla società in sede di giudizio di appello, con memoria depositata all’udienza di trattazione, in ordine alla nullità dell’avviso di accertamento, in quanto sottoscritto da soggetto non legittimato, perchè non avente la qualifica di dirigente, in assenza di partecipazione al concorso pubblico.

Deve, quindi, chiarirsi se tale doglianza sia una eccezione in senso stretto (proprio) oppure una eccezione in senso lato (o eccezione in senso improprio o mera difesa), in quanto nel primo caso la stessa sarebbe inammissibile perchè la contribuente avrebbe dovuto farla valere come specifica censura nel ricorso avverso il provvedimento di avviso di accertamento.

Per questa Corte, nel processo tributario di appello, la nuova difesa del contribuente, ove non sia riconducibile all’originaria “causa petendi” e si fondi su fatti diversi da quelli dedotti in primo grado, che ampliano l’indagine giudiziaria ed allargano la materia del contendere, non integra un’eccezione, ma si traduce in un motivo aggiunto e, dunque, in una nuova domanda, vietata ai sensi del D.Lgs. 31 dicembre 1992, n. 546, artt. 24 e 57 (Cass., 3 luglio 2015, n. 13742).

1.3.Va, però, osservato che per individuare l’oggetto del processo tributario ci si deve soffermare sul combinato disposto di cui al D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 18, comma 2, lett. d) ed e), artt. 19 e 24 tenendo conto del fatto che il giudizio tributario è caratterizzato da un meccanismo di instaurazione di tipo impugnatorio, circoscritto alla verifica della legittimità della pretesa effettivamente avanzata con l’atto impugnato, alla stregua dei presupposti di fatto e di diritto in esso atto indicati (Cass., 21 novembre 2018, n. 30039, ove si evidenzia che l’avviso di accertamento soddisfa l’obbligo di motivazione quando pone il contribuente nella condizione di conoscere esattamente la pretesa impositiva, individuata nel petitum e nella causa petendi), ed ha un oggetto rigidamente delimitato dalle contestazioni mosse dal contribuente con i motivi specificamente dedotti nel ricorso introduttivo (Cass., Sez. Un. 27 gennaio 2016, n. 1518; Cass., 9754/2003; Cass. Sez.Un., 18 gennaio 2007, n. 1052). L’oggetto del giudizio si risolve, dunque, nello specifico nesso tra atto autoritativo di imposizione e contestazione del contribuente, che consente di identificare concretamente nel processo causa petendi e petitum della domanda proposta.

Il contribuente, quindi, pur essendo convenuto in senso sostanziale è, però, attore in senso formale, mentre l’amministrazione assume la veste di attore in senso sostanziale e la sua pretesa è quella risultante dall’atto impugnato (Cass., 28 giugno 2012, n. 10806).

1.4.Va, ancora, precisato che per questa Corte, a sezioni unite (Cass., Sez.Un., 27 gennaio 2016, n. 1518, in tema di rilievo d’ufficio della cessazione della materia del contendere per effetto de condono), il principio della generale rilevabilità d’ufficio delle eccezioni ai sensi dell’art. 112 c.p.c. (“il giudice…non può pronunciare d’ufficio su eccezioni che possono essere proposte soltanto dalle parti”), trova applicazione anche nel processo tributario ai sensi del D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 57, comma 2 (“non possono proporsi nuove eccezioni che non siano rilevabili anche d’ufficio”).

Le eccezioni, quindi, possono essere sempre rilevate d’ufficio dal giudice (Cass., Sez. Un., 4 settembre 2012, n. 14828 e Sez.Un., 22 marzo 2017, n. 7294, sul rilievo d’ufficio della nullità del contratto anche in caso di richiesta di risoluzione del contratto, che presuppone l’esistenza di un contratto valido; Cass., Sez. Un., 26242/2014 sul rilievo d’ufficio di una causa di nullità del contratto diversa da quella allegata dall’attore, purchè emergente dagli atti di causa; anche Cass., sez. L, 1 agosto 2018, n. 20388; Cass., sez. 2, 30 agosto 2018, n. 21418, sul rilievo d’ufficio della nullità del contratto in tutte le ipotesi in cui il giudice risulti investito di una domanda di risoluzione, annullamento, rescissione del contratto; Cass., sez. 3, 21 novembre 2019, n. 30330, con riferimento all’aliunde perceptum in tema di risarcimento danni), tranne le ipotesi in cui la legge espressamente le riservi alla parte ed i casi in cui il fatto integratore della eccezione sia elemento costitutivo dell’esercizio di un’azione potestativa della parte – azioni di risoluzione, rescissione ed annullamento – (Cass., sez. 3, 21 novembre 2019, n. 30315, con riferimento all’esistenza di un contratto di comodato a tempo determinato).

In particolare, per questa Corte a sezioni unite, poichè nel nostro ordinamento vige il principio della rilevabilità di ufficio delle eccezioni, derivando invece la necessità dell’istanza di parte solo dall’esistenza di una eventuale specifica previsione normativa, l’esistenza di un giudicato esterno, è, al pari di quella del giudicato interno, rilevabile d’ufficio, ed il giudice è tenuto a pronunciare sulla stessa qualora essa emerga da atti comunque prodotti nel corso del giudizio di merito (Cass., sez. un., 3 febbraio 1998, n. 1099).

Più in generale, si è ritenuto (Cass., sez. un., 3 febbraio 1998, n. 1099) che, in relazione all’opzione difensiva del convenuto consistente nel contrapporre alla pretesa attorea fatti ai quali la legge attribuisce autonoma idoneità modificativa, impeditiva o estintiva degli effetti del rapporto sul quale la predetta pretesa si fonda, occorre distinguere il potere di “allegazione” da quello di “rilevazione”, posto che il primo compete esclusivamente alla parte e va esercitato nei tempi e nei modi previsti dal rito in concreto applicabile (pertanto sempre soggiacendo alle relative preclusioni e decadenze), mentre il secondo compete alla parte (e soggiace perciò alle preclusioni previste per le attività di parte) solo nei casi in cui la manifestazione della volontà della parte sia strutturalmente prevista quale elemento integrativo della fattispecie difensiva (come nel caso di eccezioni corrispondenti alla titolarità di un’azione costitutiva), ovvero quando singole disposizioni espressamente prevedano come indispensabile l’iniziativa di parte (Cass., sez. un., 7 maggio 2013, n. 10531), dovendosi in ogni altro caso ritenere la rilevabilità d’ufficio dei fatti modificativi, impeditivi o estintivi risultanti dal materiale probatorio legittimamente acquisito, senza che, peraltro, ciò comporti un superamento del divieto di scienza privata del giudice o delle preclusioni e decadenze previste, atteso che il generale potere – dovere di rilievo d’ufficio delle eccezioni facente capo al giudice si traduce solo nell’attribuzione di rilevanza, ai fini della decisione di merito, a determinati fatti, sempre che la richiesta della parte in tal senso non sia strutturalmente necessaria o espressamente prevista, essendo però in entrambi i casi necessario che i predetti fatti modificativi, impeditivi o estintivi risultino legittimamente acquisiti al processo e provati alla stregua della specifica disciplina processuale in concreto applicabile.

Questa Corte, poi, ha chiarito che è possibile per il giudice rilevare d’ufficio le eccezioni in senso lato, anche in appello, che risultino documentate ex actis, indipendentemente quindi da una specifica allegazione di parte (Cass., sez.un., 7 maggio 2013, n. 10531, Cass., sez. un., 226/2001; Cass., sez.un., 15661/05).

1.5.La preclusione di cui al D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 57, comma 2 si riferisce, allora, solo alle eccezioni in senso stretto (o proprio), rappresentate da quelle ragioni delle parti sulle quali il giudice non può esprimersi se ne manchi l’allegazione ad opera delle stesse, con la richiesta di pronunciarsi al riguardo (Cass., 6918/2013). Sono, quindi, le eccezioni in senso tecnico, ossia lo strumento processuale con cui il contribuente, in qualità di convenuto in senso sostanziale, fa valere un fatto giuridico avente efficacia modificativa o estintiva della pretesa fiscale (Cass., 24902 del 2013; Cass., 26 settembre 2018, n. 22859, in relazione ai vizi dell’atto di riscossione che costituiscono eccezioni in senso stretto).

In particolare, costituisce principio consolidato quello per cui il divieto di proporre nuove eccezioni in sede di gravame, previsto al D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 57, comma 2, concerne tutte le eccezioni in senso stretto, consistenti nei vizi d’invalidità dell’atto tributario o nei fatti modificativi, estintivi o impeditivi della pretesa fiscale, per difetto di elementi formali essenziali, incompetenza o violazione di norme sul procedimento (Cass., 30 settembre 2015, n. 19414), mentre non si estende alle eccezioni improprie o alle mere difese e, cioè, alla contestazione dei fatti costitutivi del credito tributario o delle censure del contribuente, che restano sempre deducibili (Cass., sez. 5, 29 dicembre 2017, n. 31224).

Il rilievo d’ufficio delle eccezioni in senso lato, quindi, non è subordinato alla specifica e tempestiva allegazione della parte ed è ammissibile anche in appello, dovendosi ritenere sufficiente che i fatti risultino documentati “ex actis”, poichè il regime delle eccezioni si pone in funzione del valore primario del processo, costituito dalla giustizia della decisione, che resterebbe sviato ove pure le questioni rilevabili d’ufficio fossero soggette ai limiti preclusivi di allegazione e prova previsti per le eccezioni in senso stretto (Cass., 31 ottobre 2018, n. 27998).

1.6. Nel processo civile, poi, le eccezioni in senso lato consistono nell’allegazione o rilevazione di fatti estintivi, modificativi o impeditivi del diritto dedotto in giudizio ai sensi dell’art. 2697 c.c., con cui sono opposti nuovi fatti o temi di indagine non compresi fra quelli indicati dall’attore e non risultanti dagli atti di causa. Esse si differenziano dalle “mere difese”, che si limitano a negare la sussistenza o la fondatezza della pretesa avversaria, sono rilevabili d’ufficio non essendo riservate alla parte per espressa previsione di legge o perchè corrispondenti alla titolarità di un’azione costitutiva – e sono sottratte al divieto stabilito dall’art. 345 c.p.c., comma 2, sempre che riguardino fatti principali o secondari emergenti dagli atti, dai documenti o dalle altre prove ritualmente acquisite al processo e anche se non siano state oggetto di espressa e tempestiva attività assertiva (Cass., sez. 3, 6 maggio 2020, n. 8525).

1.7.Pertanto, nella specie, la deduzione della nullità dell’avviso di accertamento per difetto di legittimazione del sottoscrittore, in assenza della qualifica dirigenziale, a seguito di concorso pubblico, proprio per essere espressamente prevista, ad istanza di parte, dal D.P.R. n. 600 del 1973, art. 61, comma 2, costituisce eccezione in senso stretto, che doveva essere sollevata dalla contribuente con la proposizione del ricorso introduttivo del giudizio di primo grado.

Sul punto si è ritenuto che, nel processo tributario, la nullità dell’avviso di accertamento non è rilevabile d’ufficio e la relativa eccezione, se non formulata nel giudizio di primo grado, non è ammissibile qualora venga proposta nelle successive fasi del giudizio (Cass., sez. 5, 24 giugno 2016, n. 13126; Cass., 26 settembre 2018, n. 22859; Cass., n. 10802 del 2010; Cass., 5 giugno 2002, n. 8114; Cass., n. 13807 del 2003;). Tale principio, elaborato dalla giurisprudenza in tema di difetto di motivazione e di sottoposizione a tassazione separata di plusvalenze, è stato ribadito anche per l’ipotesi di (asserita) sottoscrizione dell’atto impositivo da parte di soggetto diverso da quelli individuati dal D.P.R. n. 600 del 1973, art. 42, comma 1, in quanto del medesimo art. 42, il comma 3 sanziona con la nullità la violazione di tale precetto. Il D.P.R. n. 600 del 1973, art. 61, comma 2, prevede, poi, che “la nullità dell’accertamento ai sensi dell’art. 42, comma 3 e dell’art. 43, comma 3 e in genere per difetto di motivazione, deve essere eccepita a pena di decadenza in primo grado”. Pertanto, non può essere rilevata d’ufficio in ogni grado.

1.8.Tra l’altro, per questa Corte, in tema di accertamento tributario, ai sensi del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 42, commi 1 e 3, gli avvisi di accertamento in rettifica e gli accertamenti d’ufficio devono essere sottoscritti a pena di nullità dal capo dell’ufficio o da altro funzionario delegato di carriera direttiva, cioè da un funzionario di area terza di cui al contratto del comparto agenzie fiscali per il quadriennio 2002-2005, di cui non è richiesta la qualifica dirigenziale, con la conseguenza che nessun effetto sulla validità di tali atti può conseguire dalla declaratoria d’incostituzionalità del D.L. n. 16 del 2012, art. 8, comma 24, convertito dalla L. n. 44 del 2012 (Cass., sez. 5, 26 febbraio 2020, n. 5177; Cass., n. 22810/2015; Cass., sez. 5, 9 novembre 2015, n. 22800).

2. Con il secondo motivo di impugnazione la ricorrente deduce la “violazione e falsa applicazione della L. n. 212 del 2000, art. 10, comma 1, e art. 12, comma 7 per come interpretati dalla giurisprudenza di legittimità, in relazione alla mancata attuazione del principio di cooperazione tra il contribuente e l’Amministratore finanziaria, per non essere stata estesa l’applicazione del diritto di comunicare osservazioni e richieste all’ufficio impositore, entro 60 giorni dal rilascio del processo verbale di chiusura, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 3, n. 3” in quanto erroneamente il giudice d’appello ha ritenuto che la norma non trovasse applicazione nel caso di accertamenti “a tavolino”. In realtà, secondo la ricorrente il contraddittorio preventivo, con il rispetto del termine dilatorio di 60 giorni, deve essere applicato sia nel caso di accertamento “a tavolino”, sia in caso di accesso diretto presso la sede della società. E’, dunque, illegittimo l’avviso di accertamento emesso prima dello spirare del termine di 60 giorni, essendo irrinunciabile il principio del contraddittorio preventivo in materia di accertamenti fiscali, e ciò con riferimento a qualsiasi tipologia di accertamento.

2.1. Il motivo è infondato.

2.1. Invero, è pacifico che l’avviso di accertamento da parte della Agenzia delle entrate è stato preceduto dal contraddittorio con la parte (cfr. esame delle memorie depositate dalla società), ma non v’è stato alcun accesso degli organi di controllo presso la sede dell’impresa.

Pertanto, per questa Corte, il termine dilatorio di cui alla L. n. 212 del 2000, art. 12, comma 7 non opera nell’ipotesi di accertamento “a tavolino” (Cass., sez. 6-5, 23 luglio 2020, n. 15843; Cass., 29 ottobre 2018, n. 27420).

Infatti, il termine di sessanta giorni tra il rilascio della copia del processo verbale di chiusura delle operazioni da parte degli organi di controllo e l’emissione dell’avviso di accertamento deve essere rispettato solo in caso di accessi, ispezioni e verifiche fiscali effettuate nei locali dell’impresa.

Tra l’altro, nella specie, risulta anche espletato il contraddittorio con la contribuente in relazione all’iva, quale tributo armonizzato.

Va precisato, sul punto, che, in caso di tributi armonizzati, la violazione dell’obbligo del preventivo contraddittorio comporta l’invalidità dell’atto purchè il contribuente abbia assolto all’onere di enunciare in concreto le ragioni che avrebbe potuto far valere e non abbia proposto una opposizione meramente pretestuosa (Cass., 27 luglio 2018, n. 20036; Cass. Sez. Un., 24823/2015).

Va anche aggiunto che, in caso di tributi “non armonizzati”, l’obbligo dell’amministrazione finanziaria di instaurare il contraddittorio nel corso del procedimento non sussiste per gli accertamenti cd. “a tavolino”, senza che, peraltro, la L. n. 212 del 2000, art. 12, comma 7, possa essere interpretato nel senso che la consegna della documentazione contabile spontaneamente effettuata dal contribuente presso gli uffici dove viene eseguita la verifica possa essere equiparata a quella compiuta presso la sede della società e successivamente proseguita, ai sensi del comma 3 di detta disposizione, negli uffici dell’amministrazione (Cass., 14 marzo 2018, n. 6219).

3. Con il terzo motivo di impugnazione ricorrenti deducono la “violazione e falsa applicazione della L. n. 241 del 1990, art. 2, comma 3, dell’art. 41 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea e dell’art. 6 del Trattato di Lisbona, entrato in vigore in data 1 dicembre 2009, in relazione alla mancata conclusione del procedimento di accertamento fiscale entro il termine di 90 giorni e comunque entro un termine ragionevole, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 3, n. 3”. Secondo la ricorrente, infatti, vi sarebbe stata violazione della L. n. 241 del 1990, art. 2, comma 3, non avendo l’Amministrazione finanziaria concluso il procedimento di accertamento fiscale in tempi certi e ragionevoli, con grave pregiudizio a carico della ricorrente e, comunque, entro il termine prescritto di 90 giorni previsto da tale disposizione, da considerarsi di portata generale e vincolante per la pubblica amministrazione. Ciò in ragione del lungo lasso temporale intercorso tra la consegna della documentazione utile richiesta con il questionario e l’emissione e la conseguente notifica dell’avviso di accertamento. Il giudice d’appello erroneamente ha ritenuto infondata l’eccezione, non prevedendo la legge alcun termine di decadenza, nè alcuna sanzione di nullità al riguardo. Inoltre, secondo la ricorrente, la L. n. 241 del 1990, art. 13, comma 2, laddove demanda la regolazione del procedimento tributario alle particolari norme di settore che lo riguardano, si riferisce alle disposizioni contenute all’interno del capo III della legge (comunicazione di avvio del procedimento; facoltà dei soggetti portatori di interessi pubblici, privati e diffusi, di intervenire nel procedimento ai sensi dell’art. 9; diritto dei partecipanti al procedimento di prendere visione degli atti e di presentare memorie ai sensi dell’art. 10; obbligo per la pubblica amministrazione della comunicazione di motivi ostativi all’accoglimento dell’istanza del privato, ai sensi dell’art. 10 bis; accordi integrative sostitutivi del provvedimento di cui all’art. 11; impossibilità di accedere ad alcune categorie di documenti amministrativi). Tuttavia, al di là delle limitazioni di cui agli artt. 13 e 24 della legge generale sul procedimento, non sarebbero però precluse le garanzie di tutela del contribuente attraverso l’applicazione di altre disposizioni della L. 241 del 1990, che sarebbero generalmente applicabili a tutti i procedimenti amministrativi. Troverebbe, dunque, applicazione il principio generale di cui alla L. n. 241 del 1990, art. 2, comma 3 che nel prescrivere un termine comunque non superiore a 90 giorni per la conclusione del procedimento amministrativo, è espressione dell’esigenza, soprattutto in materia di accertamenti fiscali, di garantire il cittadino-contribuente contro la possibilità di procedure accertativa che si prolunghino senza termini certi di conclusione. Del resto, l’art. 6 del Trattato di Lisbona, entrato in vigore in data 1 dicembre 2009, conferisce alla Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea lo stesso valore giuridico dei Trattati. L’art. 41 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea prevede che “ogni individuo ha diritto a che le questioni che lo riguardano siano trattate in modo imparziale, equo ed entro un termine ragionevole dalle istituzioni e dagli organi dell’unione”. Pertanto, il lungo lasso temporale intercorso dalla consegna del questionario all’Agenzia delle entrate al momento in cui è stato notificato l’avviso di accertamento impugnato (ben 17 mesi) avrebbe di per sè notevolmente compromesso i diritti e le garanzie della società ricorrente.

3.1 Il motivo è infondato.

3.2.In particolare, si rileva che l’avviso di accertamento è il risultato del procedimento tributario. Il procedimento tributario è, dunque, una species del procedimento amministrativo, sicchè, come rilevato dalla dottrina, l’avviso di accertamento va considerato una species del provvedimento amministrativo.

Ciò significa, appunto, che all’avviso di accertamento deve applicarsi, in primo luogo, la disciplina propria, contenuta principalmente nel D.P.R. n. 600 del 1973 (testo unico in materia di accertamento), all’art. 42, e nel D.P.R. n. 633 del 1972 (testo unico in materia di Iva), all’art. 56. Inoltre, deve tenersi conto della disciplina cristallizzata nello Statuto dei diritti del contribuente di cui alla L. n. 212 del 2000.

Solo in via residuale, dunque, trova applicazione la L. n. 241 del 1990 sul procedimento amministrativo.

Del resto, per questa corte (Cass., sez. 5, 18 settembre 2015, n. 18448, pagina 12 della motivazione; Cass., sez. 5, 9 novembre 2015, n. 22810; Cass., sez. 5, 9 novembre 2015, n. 22800) la disciplina dei vizi di nullità degli atti amministrativi, previsti dalla L. n. 241 del 1990, art. 21 septies non può, pertanto, essere automaticamente trasposta in ambito tributario, ma deve essere coordinata con la normativa tributaria. Quest’ultima, infatti, costituisce un sottosistema del diritto amministrativo in relazione di species a genus; con la conseguenza che, le norme che regolano il procedimento amministrativo trovano applicazione nel sottosistema, nei limiti in cui non siano derogate od incompatibili con le norme di diritto tributario che disciplinano il procedimento impositivo.

3.3. Peraltro, della L. n. 241 del 1990, l’art. 13 (ambito di applicazione delle norme sulla partecipazione), comma 1, prevede che “le disposizioni contenute nel presente capo non si applicano nei confronti dell’attività della pubblica amministrazione diretta alla emanazione di atti normativi, amministrativi generali, di pianificazione e di programmazione, per i quali restano ferme le particolari norme che ne regolano la formazione”.

Si aggiunge, alla L. n. 241 del 1990, art. 13, il comma 2 che, “dette disposizioni non si applicano altresì ai procedimenti tributari per i quali restano ferme le particolari norme che li regolano”.

3.4. Il legislatore, quindi, ha tenuto conto della peculiarità del procedimento tributario rispetto al procedimento amministrativo in generale.

3.5. Del resto, il legislatore tributario ha previsto, nella specifica materia fiscale, apposite garanzie a favore del contribuente, anche in relazione alla durata del procedimento tributario.

La L. n. 212 del 2000, art. 13, comma 5, prevede infatti che “la permanenza degli operatori civili o militari dell’amministrazione finanziaria, dovuta a verifiche presso la sede del contribuente, non può superare i 30 giorni lavorativi, prorogabili per ulteriori 30 giorni nei casi di particolare complessità dell’indagine individuati e motivati da dirigente dell’ufficio”. Si è anche previsto che “ai fini del computo dei giorni lavorativi, devono essere considerati i giorni di effettiva presenza degli operatori civili o militari dell’amministratore finanziaria presso a sede del contribuente”.

Per questa Corte, in tema di verifiche tributarie, la violazione del termine di permanenza degli operatori dell’Amministrazione finanziaria presso la sede del contribuente, previsto dalla L. 27 luglio 2000, n. 212, art. 12, comma 5, non determina la sopravvenuta carenza del potere di accertamento ispettivo, nè l’invalidità degli atti compiuti o l’inutilizzabilità delle prove raccolte, atteso che nessuna di tali sanzioni è stata prevista dal legislatore, la cui scelta risulta razionalmente giustificata dal mancato coinvolgimento di diritti del contribuente costituzionalmente tutelati (Cass., sez. 5, 15 aprile 2015, n. 7584; Cass., sez. 5, 27 gennaio 2017, n. 2055).

Peraltro, lo Statuto del contribuente di cui alla L. 27 luglio 2000, n. 212, costituisce la codificazione dei principi generali nel settore tributario. L’art. 1 di tale legge contiene la clausola di auto-qualificazione (” le disposizioni della presente legge, in attuazione degli artt. 3,23,53 e 97 Cost., costituiscono principi generali dell’ordinamento tributario e possono essere derogate o modificate solo espressamente e mai da leggi speciali”).

Nonostante il richiamo ad alcune norme della costituzione, tuttavia, la L. n. 212 del 2000 non assurge al rango costituzionale nè è considerata una legge rinforzata in considerazione del carattere rigido della Costituzione repubblicana. Per questa Corte, infatti, le norme della L. 27 luglio 2000, n. 212, emanate in attuazione degli artt. 3,23,53 e 97 Cost. e qualificate espressamente come principi generali dell’ordinamento tributario, sono idonee a prescrivere specifici obblighi a carico dell’Amministrazione finanziaria e costituiscono, in quanto espressione di principi già immanenti nell’ordinamento, criteri guida per il giudice nell’interpretazione delle norme tributarie (anche anteriori), ma non hanno rango superiore alla legge ordinaria e, conseguentemente, non possono fungere da norme parametro di costituzionalità, nè consentire la disapplicazione della norma tributaria in asserito contrasto con le stesse, per cui l’efficacia retroattiva delle rendite catastali, prevista dal D.L. 3 ottobre 2006, n. 262, art. 2, comma 34, convertito in L. 24 novembre 2006, n. 286, non è preclusa dall’art. 3 della citata legge (Cass., sez. 5, 16 gennaio 201, n. 696; Cass., sez. 5, 11 aprile 2011, n. 8145).

Si è ritenuto che lo Statuto del contribuente ha inteso attribuire alle proprie disposizioni il valore di principi generali dell’ordinamento tributario, con una auto-qualificazione che dà attuazione alle norme costituzionali richiamate dallo statuto, e che costituiscono orientamento ermeneutico ed applicativo vincolante nell’interpretazione del diritto, cosicchè qualsiasi dubbio interpretativo o applicativo deve essere risolto dall’interprete nel senso più conforme a questi principi, a cui la legislazione tributaria, anche antecedente allo statuto, deve essere adeguata (Cass., sez. 5, 14 aprile 2004, n. 7080).

Per questa Corte, infatti, i principi generali dell’attività amministrativa stabiliti dalla L. n. 241 del 1990, si applicano, salva la specialità, anche per il procedimento amministrativo tributario. Infatti, il procedimento amministrativo, come quello tributario, costituisce la forma della funzione e il potere di adottare l’atto amministrativo finale è solo l’esercizio terminale di un potere che è stato frazionato, in conformità alle norme sul procedimento. Le regole generali sono, poi, specificate dalla legislazione tributaria, trovando applicazione le norme sullo Statuto del contribuente e quelle specifiche sulla singola normativa presa in considerazione, ai fini Iva o IRES (per il principio di specialità del procedimento tributario vedi Cass., sez.5, 23 gennaio 2006, n. 1236).

La L. n. 241 del 1990 ha, dunque, valore “residuale”, anche in ragione dell’emanazione dello Statuto dei diritti del contribuente di cui alla L. n. 212 del 2000, che ne rappresenta l’equivalente (autonomo) nella materia tributaria, mentre la L. n. 241 del 1990 è espressamente richiamata solo in alcuni casi e, pertanto, solo ove si è ritenuto di considerarla applicabile.

3.6. Pertanto, non può trovare applicazione in materia tributaria, la L. n. 241 del 1990, art. 2, comma 3, che prevede che “nei casi in cui disposizioni di legge ovvero i provvedimenti di cui ai commi 3, 4 e 5 non prevedono un termine diverso, i procedimenti amministrativi di competenza delle amministrazioni statali e degli enti pubblici nazionali devono concludersi entro il termine di 30 giorni”.

3.7. Inoltre, con riferimento alla conclusione del procedimento per l’emissione dell’avviso di accertamento, si rileva che il legislatore ha posto specifici termini per provvedere alla notifica dell’avviso.

Il D.P.R. n. 600 del 1973, art. 43 prevede, nella formulazione vigente ratione temporis, che gli avvisi di accertamento devono essere notificati, a pena di decadenza, entro il 31 dicembre del quarto anno successivo a quello in cui è stata presentata la dichiarazione; nei casi di omessa presentazione della dichiarazione o di presentazione di dichiarazione nulla, entro il 31 dicembre del quinto anno successivo a quello in cui la dichiarazione avrebbe dovuto essere presentata. Inoltre, in caso di accertamento basato sulla presunzione di cui al D.L. n. 78 del 2009, art. 12, secondo cui le attività finanziarie e patrimoniali estere detenute negli Stati a fiscalità privilegiata si presumono costituite, salvo prova contraria, con redditi sottratti a tassazione, i suddetti termini sono raddoppiati. Il D.L. n. 223 del 2006, con le successive modifiche normative, ha anche previsto che, in caso di violazione comportante obbligo di denuncia penale ex art. 331 c.p.c., i termini sono raddoppiati relativamente al periodo d’imposta in cui è stata commessa la violazione.

Pertanto, il termine di conclusione del procedimento di cui alla L. n. 241 del 1990, art. 2, comma 3, pari a 30 giorni o altro termine, non superiore a 90 giorni (L. n. 241 del 1990, art. 2, comma 3), eventualmente indicato dalla pubblica amministrazione, non può essere applicato al procedimento tributario che ha una disciplina speciale in materia.

3.8. Nè v’è stata violazione della disciplina unionale ed in particolare dell’art. 41 della Carta dei diritti fondamentali dell’unione Europea, il quale prevede che “ogni persona ha diritto a che le questioni che la riguardano siano trattate in modo imparziale ed equo ed entro un termine ragionevole dalle istituzioni, organi e organismi dell’unione”.

In particolare, si rileva che il D.P.R. n. 600 del 1973, art. 43 prevede un preciso termine per l’accertamento. Infatti, come osservato dalla dottrina, all’esercizio del potere di accertamento sono posti rigidi limiti temporali, sia per non rendere la difesa del contribuente troppo difficile, di fronte a contestazioni riferite a fatti lontani e nel tempo, sia per esigenze di economicità dell’attività amministrativa e di certezza del rapporto tributario che ne favoriscono il consolidamento. La funzione essenziale è, comunque, di garanzia del contribuente, che ha interesse alla incontestabilità del suo comportamento una volta decorso il periodo che il legislatore giudica sufficiente per i controlli. Ciò emerge in particolare dalla necessità della notifica dell’avviso di accertamento, e non della mera formazione del provvedimento, entro il termine fissato, oltre che dal raddoppio dei termini ove siano commessi reati di cui al D.P.R. n. 600 del 1973, art. 43, comma 3. L’avviso di accertamento, dunque, non può essere emanato se il termine di decadenza è scaduto.

Il termine di 17 mesi decorso dall’invio del questionario alla Agenzia delle entrate e l’emissione dell’avviso di accertamento non è, dunque, irragionevole.

Deve tenersi conto, peraltro, come detto, della specialità del procedimento tributario rispetto al procedimento amministrativo in generale, regolato quest’ultimo dalla L. n. 241 del 1990.

Invero, per questa Corte, in tema di procedimento tributario, l’obbligatorietà del contraddittorio endoprocedimentale, codificato dall’art. 41 della Carta dei diritti fondamentali della U.E., pur costituendo un diritto fondamentale del contribuente e principio fondamentale dell’ordinamento Europeo, in quanto espressione del diritto di difesa e finalizzato a consentire al contribuente di manifestare preventivamente il suo punto di vista in ordine agli elementi su cui l’Amministrazione intende fondare la propria decisione, non è assunto dalla giurisprudenza della CGUE in termini assoluti e formali, ma può soggiacere a restrizioni che rispondano, con criterio di effettività e proporzionalità, a obiettivi di interesse generale, sicchè, nell’ambito tributario, non investe l’attività di indagine e di acquisizione di elementi probatori, anche testimoniali, svolta dall’Amministrazione fiscale (Cass., sez. 5, 9 luglio 2020, n. 14628).

Inoltre, i termini di cui al D.P.R. n. 600 del 1973, art. 43 sono stati ritenuti ragionevoli da questa Corte, e quindi conformi alla Costituzione, anche nella diversa fattispecie del termine per l’Amministrazione di provvedere sull’istanza di condono, eventualmente procedendo ad un diniego di condono. Si è ritenuto, infatti, che in tema di condono fiscale, anche se la definizione dei rapporto tributario mediante condono richiede un controllo della Amministrazione sulla correttezza, completezza e sufficienza degli adempimenti, per il quale la L. n. 289 del 2002, art. 12 non fissa uno specifico termine, tale potere va esplicato in tempi ragionevoli, alla luce degli artt. 24 e 97 Cost., preclusivi di una attività di controllo – e del conseguente assoggettamento del contribuente ad azione esecutiva del fisco – dalla durata indeterminata. A tal fine i termini previsti dal D.P.R. n. 600 del 1973, art. 43 pur esulando dalla fattispecie del condono, possono essere richiamati per individuare il lasso temporale, superato il quale, il procedimento di controllo si ritenga protratto per un tempo irragionevole, con decadenza della Amministrazione dall’esercizio del relativo potere (Cass., sez. 5, 5 aprile 2017, n. 8772).

3.9.Inoltre, per questa Corte, seppure con specifico riferimento alla durata del “processo”, la disciplina dell’equa riparazione per mancato rispetto dei termine ragionevole di cui all’art. 6, paragrafo 1, della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, quale introdotta dalla L. 24 marzo 2001, n. 89, artt. 2 e ss. non è applicabile ai giudizi in materia tributaria involgenti la potestà impositiva dello Stato, in conformità delle indicazioni (delle quali occorre tener conto, attesa la coincidenza dell’area di operatività dell’equa riparazione ai sensi della L. n. 89 del 2001 con quella delle garanzie assicurate dalla citata Convenzione) emergenti dalla giurisprudenza della Corte Europea dei diritti dell’uomo, che si muovono nel senso della non estensibilità del campo di applicazione del detto art. 6 della Convenzione alle controversie tra il cittadino ed il Fisco aventi ad oggetto provvedimenti impositivi, stante l’estraneità ed irriducibilità di tali vertenze al quadro di riferimento delle liti in materia civile, cui ha riguardo il già citato art. 6 (Cass., sez. 1, 25 ottobre 2005, n. 20675; Cass., sez. 1, 15 aprile 2009, n. 8980).

4. Con il quarto motivo di impugnazione la ricorrente deduce la “violazione e falsa applicazione del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 39, comma 1, lett. D, con riferimento all’art. 2729 c.c. sull’accertamento di maggiori ricavi, avendo erroneamente la Commissione tributaria regionale di Napoli, ritenuto esistenti le presunzioni gravi, precise e concordanti, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3”. Invero, il giudice di appello ha ritenuto che l’Agenzia ha correttamente ricostruito i corrispettivi della società, in ragione di un comportamento antieconomico della stessa, originato dalle ripetute perdite di esercizio nel triennio considerato, a fronte di ricavi dichiarati per Euro 1.800.908,00, oltre che dalla contemporanea emissione da parte dei soci di ingenti finanziamenti. In realtà, secondo la ricorrente non sarebbero ravvisabili le ripetute perdite per il triennio preso in considerazione, essendosi le stesse verificate solo per gli anni 2007 e 2008, ma non per il 2009. Tra l’altro, in relazione agli anni 2009-2012 la società ha generato utili ed ha incrementato il personale dipendente. In ordine alla provenienza dei finanziamenti dei soci, vi sarebbe una violazione dell’art. 2727 c.c. e, in particolare, del divieto di porre a base di una presunzione un’altra presunzione. Il prestito in denaro ex art. 1813 c.c., a titolo gratuito, sottoscritto in data 17 maggio 2007, era regolarmente munito di bollo e, quindi, fornito di data certa ed è stato ritualmente depositato nelle more del giudizio di merito. Tale operazione di finanziamento è stata deliberata dall’assemblea dei soci in data 6 maggio 2008, al fine di consentire di far fronte alle esigenze di ampliamento della struttura commerciale. Inoltre, i ricavi erano composti per circa il 93% da aggi fissi e solo per il 7% da ricavi per attività di bar.

4.1. Il motivo è infondato.

4.2. Anzitutto, si rileva che poichè l’appello è stato depositato il 9 settembre 2014, quindi dopo l’11 settembre 2012, di cui al D.L. n. 83 del 2012, trova applicazione il principio della “doppia conformità” del giudizio di merito, ai sensi dell’art. 348 ter in base al quale quando l’inammissibilità è fondata sulle stesse ragioni, inerenti alle questioni di fatto, poste a base della decisione impugnata, il ricorso per cassazione può essere proposta esclusivamente per i motivi di cui all’art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 1, 2, 3 e 4.

4.3. Inoltre, la ricorrente chiede una nuova valutazione degli elementi istruttori presenti in giudizio, già effettuata in maniera congrua e puntuale dal giudice d’appello, non consentita in questa sede. Infatti, pur richiamando la censura di cui all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, in relazione all’art. 2729 c.c., in realtà la ricorrente non si limita a confezionare un motivo di impugnazione basato sulla violazione di legge e quindi sulla mancanza dei requisiti propri delle presunzioni utilizzate (gravità, precisione e concordanza), ma si spinge a sindacare l’intero giudizio argomentativo del giudice d’appello.

4.4. La Commissione regionale, infatti, con argomentazione precisa ed analitica, ha osservato che vi è stato un comportamento antieconomico della società, emergente da ripetute perdite di esercizio nel triennio, a fronte di ricavi dichiarati per Euro 1.801.908,00, oltre che dalla emissione da parte dei soci di ingenti finanziamenti. Si è aggiunto che se una società dichiara per più anni di seguito perdite o redditi insufficienti a ripagare rischio imprenditoriale, sussiste una condotta commerciale anomala, di per sè sufficiente a giustificare da parte dell’Erario una rettifica delle dichiarazioni ai sensi del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 39, comma 1, lett. d, a meno che il contribuente non dimostri concretamente l’effettiva sussistenza di motivi giustificativi di tale condotta. Tale prova contraria non era stata fornita dalla società con riferimento ai finanziamenti infruttiferi che sarebbero stati forniti dei soci. Il giudice d’appello ha evidenziato l’esiguità dei redditi dichiarati dei soci, privi di altri redditi oltre quelli prodotti attraverso l’attività commerciale in esame, sicchè tali ipotetici investimenti servivano solo a giustificare la restituzione di somme, occultando, in tal modo, utili non dichiarati. I finanziamenti, poi, dovevano servire per il completamento di una nuova struttura commerciale, ma non v’è stata la realizzazione di tale struttura. Ne vi era prova dell’emissione dei finanziamenti, nè del prestito concesso da V.E.. La Commissione regionale ha anche valorizzato la contraddittorietà della realizzazione di una nuova struttura commerciale a fronte delle perdite dichiarate. Trattasi, come si vede, di un giudizio di merito effettuato dal giudice d’appello che, connotato da rigore argomentativo e dall’esame analitico dei fatti di causa, non può essere ripetuto in questa sede.

4.5.Inoltre, si rileva che, in tema di imposte sui redditi, la tenuta della contabilità in maniera formalmente regolare non è di ostacolo alla rettifica delle dichiarazioni fiscali e, in presenza di un comportamento assolutamente contrario ai canoni dell’economia, che il contribuente non spieghi in alcun modo, è legittimo l’accertamento su base presuntiva, ed il giudice di merito, per poter annullare l’accertamento, deve specificare, con argomenti validi, le ragioni per le quali ritiene che l’antieconomicità del comportamento del contribuente non sia sintomatico di possibili violazioni di disposizioni tributarie – nella specie, la S.C. ha cassato la decisione che aveva contraddetto, senza addure argomentazioni utili a proprio sostegno, il quadro emergente contrassegnato da una persistente perdita del profitto negli anni di esercizio di riferimento, un reddito di esercizio negativo, un esorbitante costo del lavoro, un incremento progressivo del costo del lavoro in misura inversamente proporzionale al “trend” degli utili – (Cass., sez. 5, 14 ottobre 2020, n. 22185).

Pertanto, la circostanza che una impresa commerciale dichiari, ai fini dell’imposta sul reddito, per più anni di seguito rilevanti perdite, nonchè una ampia divaricazione tra costi e ricavi, costituisce una condotta commerciale anomala, di per sè sufficiente a giustificare da parte dell’erario una rettifica della dichiarazione, ai sensi del D.P.R. n. 660 del 1973, art. 39 a meno che il contribuente non dimostri concretamente la effettiva sussistenza delle perdite dichiarate (Cass., sez. 5, 15 ottobre 2007, n. 21536).

Peraltro, altro elemento indiziario è costituito anche dallo scostamento rispetto agli studi di settore.

4.6. Deve aggiungersi, poi, che per questa Corte, in tema di determinazione della base imponibile ai fini dell’IRES, grava sul contribuente, trattandosi di componente negativa del reddito, la prova, da fornire mediante elementi corredati di gravità, precisione e concordanza, dell’effettività di un finanziamento infruttifero dei soci esposto in bilancio – nella specie la S.C., in applicazione del principio, ha annullato la decisione che aveva ritenuto provato detto finanziamento, in assenza di documentazione, solo per la disponibilità economica dei soci, stante l’informalità dei rapporti in un ente a ristretta base sociale -(Cass., sez. 5, 27 aprile 2018, n. 10228). Non risulta che il finanziamento infruttifero sia stato effettivamente erogato in favore della società, non essendo sufficiente la mera adozione della delibera societaria (Cass., sez. 5, 27 ottobre 2017, n. 25578; Cass., sez. 5, 19 giugno 2015, n. 12764). L’effettività di un finanziamento infruttifero non può desumersi esclusivamente dalla capacità di spesa e dalla disponibilità di liquidità in capo al socio, stante l’irrilevanza di tali circostanze. Nel caso in cui i finanziamenti in fruttiferi dei soci risultino ingiustificati, possono essere considerati ricavi in nero come ritenuto dall’amministrazione finanziaria (Cass., sez. 5, 7 giugno 2017, n. 14066).

Inoltre, deve osservarsi che, in tema di società a responsabilità limitata, ai fini della qualificazione in termini di finanziamento della erogazione di denaro fatta dal socio alla società, è determinante la circostanza che l’operazione sia stata contabilizzata nel bilancio di esercizio che costituisce il documento contabile fondamentale nel quale la società dà conto dell’attività svolta e che rende detta operazione opponibile ai terzi, compreso l’Erario, essendo invece irrilevante la modalità di conferimento prescelta all’interno dell’ente (Cass., sez. 5, 1 marzo 2019, n. 6104). Nella specie, non risulta che il finanziamento sia stato annotato nel bilancio di esercizio.

4.7.Infine, va chiarito che, in tema di presunzioni, la prova inferenziale che sia caratterizzata da una serie lineare di inferenze, ciascuna delle quali sia apprezzata dal giudice secondo criteri di gravità, precisione e concordanza, fa sì che il fatto “noto” attribuisca un adeguato grado di attendibilità al fatto “ignorato”, il quale cessa pertanto di essere tale divenendo noto, ciò che risolve l’equivoco logico che si cela nel divieto di doppie presunzioni (Cass., sez. 5, 7 dicembre 2020, n. 27982).

5. Non si provvede sulle spese del giudizio di legittimità, in quanto l’Agenzia delle entrate non ha svolto attività difensiva.

PQM

rigetta il ricorso.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis, se dovuto.

Così deciso in Roma, nella camera di consiglio, il 9 febbraio 2021.

Depositato in Cancelleria il 27 maggio 2021

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