Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 14713 del 05/07/2011

Cassazione civile sez. lav., 05/07/2011, (ud. 05/04/2011, dep. 05/07/2011), n.14713

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. MIANI CANEVARI Fabrizio – Presidente –

Dott. DE RENZIS Alessandro – Consigliere –

Dott. FILABOZZI Antonio – rel. Consigliere –

Dott. TRIA Lucia – Consigliere –

Dott. ARIENZO Rosa – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso 19450-2007 proposto da:

AMAIE S.P.A., in persona del legale rappresentante pro tempore,

elettivamente domiciliata in ROMA, VIA UFENTE 12, presso lo studio

dell’avvocato BRESMES FRANCESCO, rappresentata e difesa dall’avvocato

MORENO FAUSTO, giusta delega in atti;

– ricorrente –

contro

B.P., elettivamente domiciliato in ROMA, LUNGOTEVERE

MICHELANGELO 9, presso lo studio dell’avvocato MANFREDONIA MASSIMO,

che lo rappresenta e difende unitamente all’avvocato ARAGONA SERGIO,

giusta delega in atti;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 230/2007 della CORTE D’APPELLO di GENOVA,

depositata il 23/04/2007, r.g.n. 693/04;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

05/04/2011 dal Consigliere Dott. FILABOZZI Antonio;

udito l’Avvocato ARAGONA SERGIO;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

MATERA Marcello, che ha concluso per il rigetto del ricorso.

Fatto

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

La Corte di Appello di Genova ha confermato la decisione di primo grado con la quale è stata dichiarata l’illegittimità del licenziamento intimato a B.P., dipendente della società Amaie spa (già Azienda speciale del Comune di Sanremo) con la qualifica di Dirigente Amministrativo, per violazione della L. n. 300 del 1970, art. 7, ordinandone la reintegrazione nel posto di lavoro.

A tale conclusione, la Corte di merito è pervenuta dopo aver ritenuto la validità della procura alle liti rilasciata dall’amministratore delegato della società nel giudizio di primo grado (di cui era stata invece dichiarata la nullità da parte del primo giudice) ed aver altresì ritenuto che il B. non rivestisse all’interno dell’azienda la qualità di dirigente apicale, bensì quella di dirigente meramente convenzionale, in quanto privo del potere decisionale tipico del ruolo dirigenziale, con conseguente applicazione, dunque, delle garanzie procedimentali previste dalla L. n. 300 del 1970, art. 7 e delle conseguenze sanzionatorie previste dall’art. 18 della stessa legge.

Avverso tale sentenza ricorre per cassazione la società Amaie spa affidandosi a tre motivi di ricorso cui resiste con controricorso il B.. Entrambe le parti hanno depositato memorie ai sensi dell’art. 378 c.p.c..

Diritto

MOTIVI DELLA DECISIONE

1.- Con il primo motivo la società (denunciando un vizio di omessa motivazione, che viene accomunato, nella rubrica, all’ipotesi prevista dall’art. 360 c.p.c., n. 4) lamenta la violazione del principio del contraddittorio per avere il giudice d’appello omesso di pronunciare sulla richiesta di ammissione dei mezzi di prova (e specificamente della prova testimoniale) che erano stati proposti dalla convenuta in primo grado – e che vengono riportati nel ricorso per cassazione – volti a provare la posizione del B. nell’organigramma aziendale e le sue mansioni, nonchè sulla richiesta, svolta in via subordinata, di dare ultimazione alla prova testimoniale con gli altri testimoni indicati dal B..

2.- Con il secondo motivo si deduce vizio di omessa e contraddittoria motivazione in ordine alla qualificazione delle funzioni espletate dal B., insistendo in particolare sulla autonomia organizzativa e operativa con cui erano svolte tali funzioni e individuando il vizio motivazionale nel non avere i giudici di secondo grado motivato sufficientemente l’iter attraverso il quale hanno proceduto a selezionare, dal materiale probatorio versato in atti, unicamente quello indicato in sentenza.

3.- Con il terzo motivo si lamenta violazione e falsa applicazione dell’art. 1 CCNL dirigenti imprese pubbliche e degli artt. 2095 e 2103 c.c. in relazione alla statuizione con la quale il B. è stato qualificato come “dirigente meramente convenzionale”, ponendo i seguenti quesiti di diritto: “se alla stregua della declaratoria contenuta nel CCNL dei dirigenti delle imprese di servizi pubblici locali e delle categorie legali dei lavoratori individuate nell’art. 2095 c.c. possa essere individuabile una ulteriore categoria dirigenziale dei cd. dirigenti meramente convenzionali” e “se il prestatore di lavoro assunto con la qualifica di dirigente che invochi le tutele previste dagli artt. 7 e 18 Statuto dei lavoratori e comprovi in giudizio un demansionamento ovvero il mancato svolgimento di funzioni dirigenziali, debba essere inquadrato nella categoria degli impiegati con funzioni direttive”.

4.- Il ricorso, articolato in diverse censure da esaminarsi congiuntamente per riguardare problematiche tra loro strettamente connesse, deve essere rigettato.

5.- In materia di applicabilità delle garanzie procedurali previste dalla L. n. 300 del 1970, art. 7, primi tre commi (Statuto dei lavoratori), alla fattispecie del licenziamento del dirigente la giurisprudenza ha seguito una complessa evoluzione, segnata, in particolare, dalle decisioni n. 6041/95 e n. 7880/2007 delle Sezioni unite. Con la sentenza n. 6041 del 1995 le Sezioni unite definirono il contrasto tra le opposte tesi affermando che gli obblighi della preventiva contestazione e della attribuzione di un termine a difesa, previsti dalla L. n. 330 del 1970, art. 7, non sono applicabili al rapporto di lavoro dei dirigenti. In motivazione, venne precisato però che tale esclusione “vale per la figura del dirigente propriamente detto” (ovvero di colui che “si colloca al vertice della organizzazione aziendale”, svolgendo “funzioni tali da improntare la vita dell’azienda, con scelte di respiro globale, in rapporto di collaborazione fiduciaria con il datore di lavoro (del quale è Valter ego)” e “non riguarda il cd. pseudo-dirigente o dirigente meramente convenzionale nel quale le mansioni concretamente attribuite ed esercitate non hanno le caratteristiche proprie del rapporto propriamente dirigenziale”.

6.- Nel 2007 le Sezioni unite sono tornate sul tema, ridefinendo la posizione e integrando anche i dirigenti propriamente detti nell’area delle garanzie disciplinari. Con la sentenza 30 marzo 2007, n. 7880, infatti, l’organo di nomofilachia ha affermato che non si può frammentare la categoria dei dirigenti, esimendo il datore di lavoro dall’osservanza dell’obbligo di contestazione degli addebiti nei confronti dei “dirigenti apicali” e ha dichiarato di “condividere la tesi favorevole ad estendere a tutti coloro che rivestono la qualifica di dirigenti in ragione della rilevanza dei compiti assegnati dal datore di lavoro – e quindi senza distinzione tra “top manager” ed altri (dirigenti cd. medi o minori) appartenenti alla stessa categoria – l’iter procedimentale previsto dalla L. n. 300 del 1970, art. 7″. Ciò perchè – come sottolineano le Sezioni unite, richiamando principi affermati dalla Corte costituzionale – una generalizzata estensione delle procedure di contestazione dei fatti posti a base del recesso trova la sua ratio non nelle caratteristiche del rapporto di lavoro, “ma nella capacità dei suddetti fatti di incidere direttamente, al di là dell’aspetto economico, sulla stessa persona del lavoratore, ledendone talvolta, con il decoro e la dignità, anche l’immagine in modo irreversibile”. Inoltre, “non risponde a consequenzialità logica una lettura restrittiva del dato normativo che finisce per penalizzare i dirigenti, i quali – specialmente se con posizioni di vertice e se dotati di più incisiva autonomia funzionale – possono subire danni, con conseguenze irreversibili per la loro futura collocazione nel mercato del lavoro, da un licenziamento, che non consentendo loro una efficace e tempestiva difesa, può lasciare ingiuste aree di dubbio sulla trasparenza del comportamento tenuto e sulla capacità di assolvere a quei compiti di responsabilità correlati alla natura collaborativa e fiduciaria caratterizzante il rapporto lavorativo”.

7.- Nella stessa sentenza le Sezioni unite hanno poi affrontato il problema, connesso ma distinto, delle conseguenze del mancato rispetto delle garanzie procedimentali, giungendo ad affermare che, se la categoria dei dirigenti non deve essere frammentata in relazione ai principi fissati dalla prima parte dell’art. 7, può invece essere differenziata sul piano delle conseguenze, modulando le tutele contro le violazioni delle garanzie procedurali in relazione al diverso livello dei poteri a ciascun dirigente demandati. Si è, quindi, precisato che in materia riveste un ruolo centrale l’autonomia collettiva, perchè le associazioni sindacali sono in grado di cogliere meglio le peculiarità dei diversi settori produttivi e delle diverse organizzazioni aziendali, spesso articolate in reti con più centri decisionali, come riconosce anche il legislatore con gli artt. 2095 e 2071 c.c., comma 2, nei quali viene attribuito alla contrattazione collettiva un ruolo primario nella disciplina delle mansioni e delle qualifiche dei lavoratori.

Pertanto, le conseguenze del mancato rispetto delle garanzie procedurali possono essere diverse per i dirigenti in senso proprio, cioè per i vertici aziendali (dirigenti apicali) e per quelli di livello minore (non apicali), spesso qualificabili come dirigenti solo per scelte dell’autonomia collettiva (dirigenti convenzionali).

8.- Il principio di diritto enunciato dalle Sezioni unite con quest’ultima sentenza è i seguente: “le garanzie procedimentali dettate dalla L. n. 300 del 1970, art. 7, commi 2 e 3, devono trovare applicazione nell’ipotesi di licenziamento di un dirigente – a prescindere dalla specifica collocazione che lo stesso assume nell’impresa – sia se il datore di lavoro addebiti al dirigente stesso un comportamento negligente (o in senso lato colpevole) sia se a base del detto recesso ponga, comunque, condotte suscettibili di farne venir meno la fiducia. Dalla violazione di dette garanzie, che sì traduce in una non valutabilità delle condotte causative del recesso, scaturisce l’applicazione delle conseguenze fissate dalla contrattazione collettiva di categoria per il licenziamento privo di giustificazione, non potendosi per motivi, oltre che giuridici, logico-sistematici assegnare all’inosservanza delle garanzie procedimentali effetti differenti da quelli che la stessa contrattazione fa scaturire dall’accertamento della sussistenza dell’illecito disciplinare o di fatti in latro modo giustificativi del recessò”.

9.- Restano peraltro esclusi dalla disciplina speciale, legale e contrattuale collettiva, stabilita per la categoria dei dirigenti i cd. pseudo dirigenti, “cioè quei lavoratori che seppure hanno di fatto il nome ed il trattamento dei dirigenti, per non rivestire nell’organizzazione aziendale un ruolo di incisività e rilevanza analogo a quelli dei cd. dirigenti convenzionali (dirigenti apicali, medi o minori), non sono classificabili come tali dalla contrattazione collettiva – e tanto meno dal contratto individuale – non essendo praticabile uno scambio tra pattuizione dei benefici economici (e di più favorevole trattamento) e la tutela garantistica ad essi assicurata, al momento del recesso datoriale, dalla L. n. 604 del 1966 e dalla L. n. 300 del 1970” (così ancora le Sezioni unite nella sentenza sopra citata).

Il Collegio intende dare continuità a tale orientamento – riaffermato, tra le altre, da Cass. n. 897/2011, Cass. n. 25145/2010, Cass. n. 14835/2009, Cass. n. 12403/2008 -che assicura la unitarietà della categoria, pur nella maggiore articolazione della figura nella mutata realtà socioeconomica delle aziende, alla stregua del dettato programmatico di cui all’art. 2095 c.c., con la prevista mediazione della contrattazione collettiva di settore.

10.- In conclusione, dopo l’intervento delle Sezioni unite con la sentenza del 2007 sopra citata, per valutare posizioni come quella in esame, è necessario verificare se si è in presenza di un dirigente o di uno pseudo-dirigente. Nel primo caso, si applicheranno le garanzie procedurali previste dalla L. n. 300 del 1970, art. 7, primi tre commi, quale che sia il livello del dirigente (apicale, medio, minore), mentre le conseguenze saranno differenziate in base al trattamento previsto dalla contrattazione collettiva. Nel secondo caso, si applicheranno le garanzie procedurali previste dall’art. 7, primi tre commi, e le conseguenze previste per qualsiasi lavoratore subordinato.

Nella specie, la Corte territoriale, sia pure con alcune imprecisioni terminologiche, ha ritenuto motivatamente di ricondurre le mansioni del B. a quelle di uno pseudo-dirigente, osservando che già dagli scritti difensivi della società emergeva che le funzioni svolte dal lavoratore si connotavano per l’assenza del potere decisionale tipico del ruolo dirigenziale, essendo tale potere interamente incentrato nel Direttore generale. Il quadro emerso dall’istruttoria confermava poi che le mansioni svolte dal B. avevano carattere essenzialmente consultivo o propositivo, potendo egli proporre ma non assumere provvedimenti disciplinari, non potendo procedere ad assunzioni, nè disporre del personale, e non avendo alcun potere di vincolare l’azienda all’esterno (ad esempio, per la stipula di contratti). Anche dalla documentazione versata in atti risultava che la posizione del B. era di stretta subordinazione al Direttore generale, che accentrava ogni potere decisionale (fatte salve le competenze del Consiglio di amministrazione) ed impartiva al lavoratore “precisi ordini” (vedi in motivazione alle pagg. 6-8 della sentenza impugnata). Alla stregua dei suddetti elementi, come evidenziati nella motivazione, la Corte territoriale ha poi coerentemente e correttamente ritenuto – non discostandosi dai principi giurisprudenziali sopra citati – che, nella fattispecie in esame, dovessero essere applicate le garanzie procedurali previste dalla L. n. 300 del 1970, art. 7, primi tre commi, con le conseguenze previste, nel caso di inosservanza delle suddette garanzie, dall’art. 18 della stessa legge.

Le contrarie affermazioni della società ricorrente, secondo cui il giudice d’appello non avrebbe tenuto conto delle previsioni della normativa collettiva, nonchè della concreta realtà aziendale in cui operava il lavoratore, e non avrebbe dato ingiustificatamente ingresso ad ulteriore attività istruttoria, non appaiono idonee ad inficiare l’impianto motivazionale della sentenza impugnata, risolvendosi sostanzialmente nel richiamo di alcuni dati formali, privi di carattere decisivo, che non possono, in ogni caso, assumere rilievo prevalente rispetto agli aspetti sostanziali del rapporto richiamati nella pronuncia della Corte territoriale. E così per quanto riguarda il richiamo contenuto nella lettera di assunzione del B. alle disposizioni del CCNL per i dirigenti delle imprese di servizi pubblici locali, rispetto al quale va rilevato che la verifica del dettato della normativa collettiva (art. 1 CCNL citato) conferma che, anche alla stregua della contrattazione di settore, la qualifica di dirigente spetta a coloro i quali ricoprono nell’azienda un ruolo caratterizzato da un “elevato grado” di professionalità, di “autonomia” e di “potere decisionale”, ovvero da elementi che non sono stati riscontrati esistenti nella fattispecie dai giudici di merito (potere decisionale) o lo sono stati ma non in “grado elevato” (autonomia). Quanto alla valutazione delle risultanze istruttorie e alle carenze motivazionali censurate nei primi due motivi del ricorso, va rilevato che, contrariamente all’assunto della ricorrente, i giudici di merito non hanno “giudicato esclusivamente sulla base delle testimonianze rese dai testi indicati dal B.”, avendo al contrario gli stessi giudici preso diffusamente in esame sia il contenuto degli scritti difensivi della società, anche di primo grado (riportati in parte anche nella motivazione della sentenza), sia il contenuto di alcuni documenti versati in atti (anch’esso riportato in sentenza), per inferirne che gli elementi desumibili dalla predetta documentazione assumevano rilievo decisivo per negare che il B. avesse assunto nell’organizzazione aziendale un ruolo assimilabile a quello del dirigente (nel senso che è stato sopra precisato), e trovando ulteriore conferma di tale conclusione nelle risultanze della prova testimoniale. D’altra parte, questa Corte ha ripetutamente affermato che, in tema di prova, spetta in via esclusiva al giudice di merito il compito di individuare le fonti del proprio convincimento, di assumere e valutare le prove, di controllarne l’attendibilità e la concludenza, di scegliere tra le complessive risultanze del processo quelle ritenute maggiormente idonee a dimostrare la veridicità dei fatti ad esse sottesi, assegnando prevalenza all’uno o all’altro dei mezzi di prova acquisiti, nonchè di escludere anche attraverso un giudizio implicito la rilevanza di una prova, dovendosi ritenere, a tal proposito, che egli non sia tenuto ad esplicitare, per ogni mezzo istruttorio, le ragioni per cui lo ritenga irrilevante ovvero ad enunciare specificamente che la controversia può essere decisa senza necessità di ulteriori acquisizioni (cfr. ex plurimis, Cass. n. 16499/2009). Per quanto riguarda la valutazione della prova testimoniale, si è precisato che la valutazione delle risultanze delle prove e il giudizio sull’attendibilità dei testi e sulla credibilità di alcuni invece che di altri, come la scelta, tra le varie risultanze probatorie, di quelle ritenute più idonee a sorreggere la motivazione, involgono apprezzamenti di fatto riservati al giudice di merito, il quale è libero di attingere il proprio convincimento da quelle prove che ritenga più attendibili, senza essere tenuto ad un’esplicita confutazione degli altri elementi probatori non accolti, anche se allegati dalle parti (Cass. n. 42/2009, Cass. n. 21412/2006, Cass. n. 4347/99, Cass. n. 3498/94).

Nè, più in generale, il giudice di merito è tenuto a respingere espressamente e motivatamente le richieste di tutti i mezzi istruttori avanzate dalle parti qualora nell’esercizio dei suoi poteri discrezionali, insindacabili in sede di legittimità, ritenga sufficientemente istruito il processo. Al riguardo la superfluità dei mezzi non ammessi può implicitamente dedursi dal complesso delle argomentazioni contenute nella sentenza, potendo la stessa ratio decidendi che ha risolto il merito della lite, valere da implicita esclusione della rilevanza del mezzo dedotto (Cass. n. 14611/2005, Cass. n. 6570/2004, Cass. n. 8526/2003, Cass. n. 6078/90). Sotto altro profilo, è stato affermato che il vizio di motivazione per omessa ammissione della prova testimoniale o di altra prova può essere denunciato per cassazione solo nel caso in cui essa abbia determinato l’omissione di motivazione su un punto decisivo della controversia e, quindi, ove la prova non ammessa ovvero non esaminata in concreto sia idonea a dimostrare circostanze tali da invalidare, con un giudizio di certezza e non di mera probabilità, l’efficacia delle altre risultanze istruttorie che hanno determinato il convincimento del giudice di merito, di modo che la ratio decidendi venga a trovarsi priva di fondamento (cfr. ex plurimis, Cass. n. 11457/2007, Cass. n. 4178/2007).

Nella specie, come risulta dai rilievi espressi, i giudici di merito hanno ritenuto di poter decidere la controversia senza necessità di ulteriori acquisizioni sulla base di un complesso di argomentazioni che risultano già sufficienti ad escludere implicitamente la rilevanza dei mezzi istruttori non ammessi. La ricorrente, d’altra parte, si è limitata a riportare nel ricorso per cassazione le circostanze di fatto oggetto della prova non ammessa, ma non ha dimostrato l’esistenza di un nesso eziologico tra l’omesso accoglimento dell’istanza e l’errore addebitato al giudice, ovvero che senza quell’errore la pronuncia sarebbe stata diversa, così da consentire al giudice di legittimità un controllo sulla decisività delle prove (è significativo, al riguardo, notare che, a chiusura delle censure espresse con il primo motivo, la ricorrente si limita ad indicare che l’audizione di altri testimoni avrebbe potuto fornire “utili elementi” ai fini della decisione “in ordine alla autonomia organizzativa e funzionale dell’area amministrativa”, alla quale era preposto il B., e quindi elementi che, in ogni caso, non avrebbero intaccato la ratio decidendi della sentenza impugnata, fondata essenzialmente sulla rilevata carenza del potere decisionale in capo al lavoratore).

11.- Per concludere, i vizi di motivazione denunciati dalla ricorrente non sussistono. Non vi è nella sentenza alcun accertamento in ordine ad un “demansionamento” del lavoratore, mentre l’ordine di reintegrazione nel posto di lavoro consegue all’applicazione della tutela garantistica assicurata anche nei confronti dei cd. pseudo dirigenti dalla L. n. 604 del 1966 e dalla L. n. 300 del 1970. La sentenza impugnata, per essere adeguatamente motivata, coerente sul piano logico e rispettosa, nella sostanza, dei principi giuridici in precedenza enunciati, non è assoggettabile alle censure che le sono state mosse in questa sede di legittimità.

12.- Il ricorso va, dunque, rigettato, dovendosi ritenere assorbite in quanto sinora detto tutte le censure non espressamente esaminate.

Le spese del giudizio di legittimità seguono la soccombenza.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese del presente giudizio liquidate in Euro 42,00 oltre Euro 3.000,00 per onorari, oltre IVA, CPA e spese generali.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio, il 5 aprile 2011.

Depositato in Cancelleria il 5 luglio 2011

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