Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 14705 del 05/07/2011

Cassazione civile sez. lav., 05/07/2011, (ud. 14/01/2011, dep. 05/07/2011), n.14705

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. VIDIRI Guido – Presidente –

Dott. CURCURUTO Filippo – rel. Consigliere –

Dott. MORCAVALLO Ulpiano – Consigliere –

Dott. MELIADO’ Giuseppe – Consigliere –

Dott. ARIENZO Rosa – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso proposto da:

UNIVERSITA’ DEGLI STUDI DI ROMA LA SAPIENZA, in persona del Ministro

pro tempore, domiciliata in ROMA, VIA DEI PORTOGHESI n. 12, presso

l’Avvocatura Generale dello Stato, che la rappresenta e difende ope

legis;

– ricorrente –

contro

D.P.M., S.J., S.H., L.

X., B.H., M.F.;

– intimati –

e sul ricorso 32321-2006 proposto da:

S.H., L.X., M.F., S.J., D.

P.T.M., B.H., tutti elettivamente domiciliati

in ROMA, VIA OSLAVIA 7, presso lo studio dell’avvocato FERMANELLI

PAOLO, che li rappresenta e difende unitamente all’avvocato PICOTTI

LORENZO, giusta delega in atti;

– controricorrenti e ricorrenti incidentali –

contro

UNIVERSITA’ DEGLI STUDI DI ROMA LA SAPIENZA;

– intimata –

avverso la sentenza n. 4028/2006 della CORTE D’APPELLO di ROMA,

depositata il 17/06/2006 R.G.N. 9133/03;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

14/01/2011 dal Consigliere Dott. FILIPPO CURCURUTO;

e Udito l’Avvocato FIGLIOLA ETTORE;

udito l’Avvocato INNAMORATI LORETTA per delega FERMANELLI PAOLO;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

MATERA Marcello che ha concluso per il rigetto di entrambi i ricorsi.

Fatto

RITENUTO IN FATTO

Il Tribunale di Roma accogliendo in parte la domanda proposta da J.S. e da altri consorti collaboratori linguistici presso l’Università degli Studi di Roma “La Sapienza” (d’ora innanzi:l’Università) ha dichiarato che tra essi e l’Università era intercorso un rapporto di lavoro subordinato a tempo indeterminato, con varia decorrenza per ciascuno degli attori, ed ha dichiarato il diritto degli stessi al trattamento economico spettante al “ricercatore confermato”, condannando l’Università, previo rigetto dell’eccezione di prescrizione, al pagamento delle relative differenze oltre agli accessori di legge. Il Tribunale ha altresì riconosciuto agli attori il diritto ai relativi aumenti stipendiali ed ad ogni voce retributiva spettante al ricercatore confermato, nonchè alla costituzione della posizione previdenziale ed assistenziale presso l’INPS, respingendo per contro la loro domanda di condanna dell’Università al risarcimento del danno per dequalificazione e demansionamento.

L’Università ha appellato la sentenza deducendo l’erroneità del rigetto dell’eccezione di prescrizione, la legittimità dell’apposizione del termine ai contratti via via stipulati, ai sensi del D.P.R. n. 382 del 1980, art. 28, prima della loro conversione in contratti di lavoro a tempo indeterminato avvenuta nel 1984, l’inapplicabilità della sanzione dell’automatica conversione del rapporto a termine in rapporto a tempo indeterminato, trattandosi di pubblico impiego.

Gli appellati hanno resistito proponendo appello incidentale. Con esso hanno lamentato violazione dell’art. 112 c.p.c. ed erronea interpretazione della domanda, violazione dell’art. 2103 c.c., in relazione al rigetto della domanda di risarcimento per demansionamento. Hanno inoltre dedotto l’inadeguatezza quale parametro retributivo del trattamento del ricercatore confermato optante per il tempo definito anzichè del trattamento per il ricercatore confermato i4a tempo pieno”ed hanno quindi espressamente condizionato l’appello incidentale su tale punto, ad una interpretazione della sentenza di primo grado nel senso che quest’ultimo fosse il parametro da essa prescelto. Hanno poi lamentato il mancato riconoscimento della rivalutazione monetaria sulle differenze liquidate e la parziale compensazione delle spese a fronte della sostanziale soccombenza dell’Università.

La Corte d’appello di Roma, con la sentenza ora impugnata ha rigettato entrambe gli appelli.

Per ciò che interessa, in motivazione il giudice di merito ha richiamato lo jus superveniens costituito dal D.L. 14 gennaio 2004, n. 2, convertito nella L. n. 63 del 2004, diretto all’esecuzione della sentenza della Corte di Giustizia del 26 giugno 2001, entrato in vigore dopo la proposizione del gravame, il quale aveva attribuito ai collaboratori linguistici già destinatari dei contratti stipulati ai sensi del D.P.R. n. 382 del 1980, art. 28, proporzionalmente all’impegno orario svolto, un trattamento economico corrispondente a quello di ricercatore confermato a tempo definito.

Il giudice del merito, richiamando anche la giurisprudenza di questa Corte, premesso che l’istituzione della nuova figura dei collaboratori ed esperti linguistici di lingua madre non aveva comportato la risoluzione per “factum principis” dei contratti di lavoro stipulati in base al D.P.R. n. 382 del 1280, art. 28, ha osservato come la qualificazione di detti contratti quali contratti di lavoro subordinato a tempo indeterminato fosse imposta quale necessario presupposto del trattamento economico loro riconosciuto e come fosse da escludere quindi la possibilità per le parti di negare tale qualificazione nell’esercizio della loro autonomia negoziale.

Per tali considerazioni il giudice del merito ha ritenuto quindi infondate le censure dell’Università in ordine alla asserita legittimità della apposizione del termine ai contratti D.P.R. n. 382 del 1980, ex art. 28, come pure in ordine alla ritenuta impossibilità della loro conversione in rapporti di lavoro a tempo indeterminato, in quanto riconducibili all’area del pubblico impiego.

La Corte territoriale ha quindi osservato che gli appellati – appellanti incidentali avevano prestato la loro opera in diversi anni accademici sulla base di contratti stipulati ai sensi del citato D.P.R. n. 382 del 1980, art. 28, formalmente configurati come rapporti di lavoro autonomo, e che a partire dall’anno accademico 1990/1991 l’Università aveva riconosciuto il carattere subordinato del rapporto, pur sempre con previsione di un termine finale, mentre solo dal 1994 in base al contratto collettivo di Ateneo lo aveva considerato a tempo indeterminato.

In base a tale premessa, la Corte d’Appello ha rigettato la censura dell’Università circa l’eccezione di prescrizione (questione, peraltro, ormai estranea alla controversia) rilevando la sussistenza di uno stato di costante soggezione dei collaboratori nei confronti dell’Università per il perdurante timore di vedere interrotta la continuazione della serie dei rapporti e ritenendo operante nella fattispecie il principio della non decorrenza della prescrizione in costanza di rapporto.

Quanto all’appello incidentale, la Corte ha escluso che configurasse demansionamento la mera soppressione della figura del lettore di lingua straniera e la sua sostituzione con quella di collaboratore ed esperto linguistico di lingua madre operata dalle fonti collettive o legislative, senza mutamento in pejus delle mansioni assegnate, che erano state sempre le stesse dalla data di inizio del primo contratto di lavoro, come gli appellanti incidentali avevano ribadito fin dal ricorso di primo grado.

La Corte ha parimenti escluso che la qualifica di collaboratore linguistico potesse essere contestata in ragione dell’asserito svolgimento di fatto di mansioni assimilabili a quelle dei docenti, osservando che in base al D.P.R. n. 382 del 1980, art. 123, l’espletamento di siffatte mansioni non avrebbe potuto produrre conseguenze giuridiche nei confronti delle Università medesime sicchè i relativi provvedimenti di adibizione a mansioni di docenza sarebbero stati nulli ed improduttivi di effetti.

Sulla base di tali considerazioni la Corte ha quindi rigettato le censure degli appellanti incidentali contro la statuizione di rigetto della loro domanda di risarcimento del danno da dequalificazione o demansionamento.

La Corte ha poi osservato che la sentenza impugnata, richiamando puramente e semplicemente il trattamento del ricercatore universitario, in corrispondenza del resto con le deduzioni e domande di cui agli scritti difensivi dei lavoratori, aveva adottato per la liquidazione delle differenze retributive il parametro del ricercatore a tempo pieno e non del ricercatore confermato a tempo definito.

Peraltro, essendo stata formulata in primo grado solo un richiesta di condanna generica, non poteva accogliersi la richiesta degli appellanti incidentali di condanna nel quantum.

In ogni caso, per tale condanna, ove fosse stata individuabile la relativa domanda, mancavano i presupposti in assenza di qualsivoglia allegazione degli elementi di fatto necessari per la quantificazione delle relative differenze.

Sulla base di queste considerazioni la Corte ha quindi rigettato le censure svolte dagli appellanti incidentali contro la statuizione di rigetto della loro domanda di liquidazione delle differenze retributive.

Inoltre, richiamando la sentenza 459/ 2000 della Corte Costituzionale, la Corte d’appello ha rigettato la censura degli appellanti incidentali contro il mancato riconoscimento della rivalutazione monetaria sulle differenze retributive.

CONSIDERATO IN DIRITTO Preliminarmente occorre riunire i ricorsi, proposti contro la stessa sentenza (art. 335 c.p.c.).

Con l’unico motivo del ricorso principale è denunciata violazione falsa applicazione dell’art. 36 Cost.; del D.P.R. n. 382 del 1980, artt. 32, 123; del D.L. n. 2 del 2004 convertito in L. n. 63 del 2004; errata applicazione direttive comunitarie in materia di lettori di madre lingua straniera; violazione dell’art. 112 c.p.c.; vizio di motivazione.

La questione posta dal motivo è quella della interpretazione della sentenza di primo grado in ordine al parametro sulla base del quale liquidare le differenze rctributive, e della sostanziale soccombenza dell’Amministrazione rispetto all’interpretazione di tale sentenza da parte della sentenza di appello.

Il motivo si conclude con un quesito ex art. 366 bis c.p.c. dal seguente testuale tenore:

“La corretta interpretazione delle domande delle parti e della motivazione della sentenza del Tribunale di Roma n. 11057/2003 nonchè il pertinente quadro normativo alla stregua del quale deve essere valutata la posizione economica dei ricorrenti ai fini della conseguente attività solutoria di competenza dell’Ateneo ricorrente, impongono la liquidazione del trattamento corrispondente a quello del ricercatore confermato a tempo definito”.

La censura è inammissibile.

E’ sufficiente in proposito ricordare che il quesito di diritto deve essere formulato, ai sensi dell’art. 366 bis cod. proc. civ., in termini tali da costituire una sintesi logico-giuridica della questione, così da consentire al giudice di legittimità di enunciare una “regula iuris” suscettibile di ricevere applicazione anche in casi ulteriori rispetto a quello deciso dalla sentenza impugnata. Ne consegue che è inammissibile il motivo di ricorso sorretto da quesito la cui formulazione, ponendosi in violazione di quanto prescritto dal citato art. 366 bis, si risolve sostanzialmente in una omessa proposizione del quesito medesimo, per la sua inidoneità a chiarire l’errore di diritto imputato alla sentenza impugnata in riferimento alla concreta fattispecie. (Cass. Sez. Un. 26020/2008).

In quest’ordine di idee è da ritenere quindi inammissibile per violazione dell’art. 366 “bis” cod. proc. civ., il ricorso per cassazione nel quale l’illustrazione dei singoli motivi sia accompagnata dalla formulazione di un quesito di diritto che si risolve in una tautologia o in un interrogativo circolare, che già presuppone la risposta ovvero la cui risposta non consenta di risolvere il caso “sub iudice”. (Cass. Sez. Un. 28536/2008).

Il quesito in esame, che, fra l’altro, non riflette in alcun modo l’ampia argomentazione che lo precede, si risolve nell’affermazione che la sentenza del Tribunale aveva identificato il parametro retributivo nel trattamento economico del ricercatore confermato a tempo definito, e che questa sarebbe la corretta interpretazione di tale decisione alla luce delle domande delle parti, della motivazione e del pertinente quadro normativo. Si tratta però di enunciati, peraltro nemmeno concretamente legati alla fattispecie, i quali nella loro evidenza testuale hanno carattere meramente assertivo e non consentono ovviamente alcuna formulazione di un principio di diritto utilizzabile in casi successivi, ossia universalizzabile.

Quanto ora detto determina il rigetto del ricorso. Il ricorso incidentale è affidato a due motivi.

Il primo motivo denunzia violazione ed erronea applicazione degli artt. 3 e 36 Cost., degli artt. 112 e 429 c.p.c., della L. n. 474 del 1994, art. 22, nonchè omissione di pronunzia o comunque di motivazione.

Si addebita alla sentenza impugnata di aver negato il diritto dei ricorrenti al cumulo degli interessi e rivalutazione applicando una norma dichiarata da C. Cost. 459/2000 costituzionalmente illegittima, in riferimento ai lavoratori soggetti al regime di diritto privato come i ricorrenti, e, in ogni caso non distinguendo fra crediti maturati prima e dopo il vigore della L. n. 474 del 1994.

Il motivo è infondato.

Questa Corte ha avuto occasione di affermare che la pronuncia di accoglimento della Corte costituzionale, n. 459 del 2000, per la quale il divieto di cumulo di rivalutazione monetaria ed interessi non trova applicazione per i crediti retributivi dei dipendenti privati, ancorchè maturati dopo il 31 dicembre 1994, non può trovare applicazione per i dipendenti di enti pubblici non economici (quale, nella specie, l’Istituto nazionale della previdenza sociale), per i quali ricorrono, ancorchè i rapporti di lavoro risultino privatizzati, le “ragioni di contenimento della spesa pubblica”, in coerenza con la “ratio decidendi” prospettata dal Giudice delle leggi (“ragioni di contenimento della spesa pubblica”, non sono evidentemente riferibili ai crediti di lavoro derivanti da rapporti di diritto privato). (Cass. 2005/16284). Quindi, diversamente da quanto affermato dai ricorrenti, la circostanza che gli aspetti fondamentali della disciplina del rapporto siano ricondotti al diritto privato non elimina affatto le esigenze finanziarie poste a base della menzionata sentenza costituzionale e non comporta quindi di per se l’inapplicabilità del divieto di cumulo sancito dalla L. n. 724 del 1994, art. 22, comma 36, mediante il richiamo alla L. n. 412 del 1991, art. 16, comma 6.

D’altra parte, la sentenza di questa Corte2004/21856. invocata dai ricorrenti incidentali, non sembra contrastare con tale principio, avendo statuito che in tema di accessori dei crediti di lavoro, il divieto di cumulo di rivalutazione monetaria e interessi previsto dalla L. n. 724 del 1994, art. 22, comma 36, è limitato agli emolumenti per i quali il diritto alla percezione non sia maturato entro il 31 dicembre 1994, con la conseguenza che il cumulo compete per i crediti retributivi maturati prima di tale data, ancorchè pagati in epoca successiva.

Quindi il primo profilo del motivo in esame non può essere accolto.

Quanto al secondo profilo, occorre considerare la statuizione della Corte d’Appello alla luce della circostanza che secondo il giudice del gravame non vi sarebbe spazio per una condanna nel quantum, essendo stata formulata dagli attori, poi appellanti incidentali, una mera richiesta di condanna generica, il che implica che l’esatta determinazione della decorrenza degli eventuali accessori eventualmente in cumulo per il periodo non coperto dal divieto non può trovare spazio che nel giudizio di liquidazione.

Il secondo motivo di ricorso denunzia violazione dell’art. 112 c.p.c. ed erronea interpretazione della domanda; violazione dell’art. 2103 c.c., del D.P.R. n. 382 del 1980, artt. 28 e 123; della L. n. 396 del 1995, art. 4; della L. n. 63 del 2004, art. 1, nonchè vizio di motivazione.

Si addebita anzitutto alla sentenza impugnata di aver travisato la domanda dei ricorrenti ritenendo trattarsi di rivendicazione della qualifica di docenti, sulla base dello svolgimento di mansioni superiori e diverse da quelle del lettore, laddove invece si trattava di accertamento del diritto dei ricorrenti a continuare nelle mansioni tipiche dei lettori D.P.R. n. 382 del 1980, ex art. 28 e relativi contratti di assunzione, e della conseguente dequalificazione derivante dal loro unilaterale inquadramento quali esperti e collaboratori linguistici.

Si addebita in ogni caso alla sentenza di non aver considerato che sulla base della nuova normativa recata dalla L. n. 236 del 1995 le mansioni proprie dei collaboratore linguistico sono inferiori a quelle del lettore assunto ai sensi del D.P.R. n. 382 del 1980, art. 28 e di aver quindi erroneamente ritenuto perfettamente sovrapponigli le due figure e rigettato la domanda volta ad accertare la illegittima dequalificazione subita dai ricorrenti.

Il motivo è infondato.

La figura del lettore di madre lingua di lingua straniera, del quale il D.P.R. n. 382 del 1980, art. 28, consentiva l’assunzione da parte delle università con contratto di diritto privato è venuta meno con l’abrogazione della disposizione citata, stabilita dal D.L. n. 120 del 1995, art. 4, comma 5, convertito in legge con modificazioni dalla L. n. 236 del 1995.

Quest’ultimo testo normativo, al comma 2, ha consentito l’assunzione da parte delle Università di “collaboratori ed esperti linguistici di lingua madre, in possesso di laurea o titolo universitario straniero adeguato alle funzioni da svolgere, e di idonea qualificazione e competenza, con contratto di lavoro subordinato di diritto privato a tempo indeterminato ovvero, per esigenze temporanee, a tempo determinato”.

Dcstinatari di tali assunzioni sono stati prioritariamente in base al comma 3 dell’articolo in esame i titolari dei contratti di cui al D.P.R. 11 luglio 1980, n. 382, art. 28, in servizio nell’anno accademico 1993-1994, nonchè quelli cessati dal servizio per scadenza del termine dell’incarico, ai quali è stata garantita la conservazione dei diritti acquisiti in relazione ai precedenti rapporti.

Infine, con il D.L. n. 2 del 2004, art. 1, convertito in legge, con modificazioni, dalla L. n. 63 del 2004, n. 63, art. 1, comma c. 1, è stato stabilito, per ciò che interessa, che ai collaboratori ex lettori di madre lingua straniera già destinatari di contratti stipulati ai sensi del D.P.R. 11 luglio 1980, n. 382, art. 28 è attribuito un determinato trattamento economico corrispondente a quello del ricercatore confermato a tempo definito, con la specifica precisazione che l’equiparazione è disposta ai soli fini economici ed esclude l’esercizio da parte dei predetti collaboratori linguistici, ex lettori di madre lingua straniera, di qualsiasi funzione docente.

Questo essendo il contesto normativo non si comprende come si possa parlare di dequalificazione rispetto ad una qualifica attribuita per legge e rispetto alla impossibilità giuridica, espressamente sancita, di assegnare funzioni di docenza ai collaboratori ex lettori.

Il motivo va pertanto rigettato.

In conclusione, i ricorsi, riuniti, devono essere rigettali entrambi con compensazione delle spese del giudizio.

P.Q.M.

Riunisce i ricorsi e li rigetta; compensa le spese.

Così deciso in Roma, il 14 gennaio 2011.

Depositato in Cancelleria il 5 luglio 2011

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